di Marshall Auerback – 28 agosto 2019
Ricordate “Superman Bizzarro”, il personaggio che rappresentava il polo opposto di Superman e di tutto ciò per cui egli si batteva? Oggi abbiamo un equivalente economico sotto forma di Capitalismo Bizzarro. Nei bei vecchi tempi i debitori pagavano interessi sul denaro che era prestato loro e i banchieri versavano ai depositanti un tasso di risparmio per indurli a tenere il loro denaro in banca. Oggi è sempre più il contrario.
A giudicare dai discorsi tenuti alla recente riunione annuale a Jackson Hole, Wyoming, dai vari alti papaveri della scena globale delle banche centrali, la mutazione dell’economia mondiale non è ancora stata interamente percepita da loro. Per la maggior parte abbiamo ascoltato gli stessi vecchi slogan. In effetti la nozione stessa di avere un forum di alto profilo in un contesto affascinante per evidenziare le idee di banchieri centrali simbolizza quanto in là ci siamo spinti nel dare priorità alla politica monetaria rispetto all’attivismo fiscale, nonostante il fatto che questo ha condotto a un “buco nero” politico, secondo l’ex segretario statunitense al tesoro Lawrence Summers.
L’esitazione nello sposare ulteriormente una politica fiscale (nonostante l’anomala presenza di tassi d’interesse negativi che potrebbero essere arbitrati da una crescita economica generata fiscalmente) è in larga misura il prodotto di una serie di miti che hanno governato le decisioni politiche nei quarant’anni di ascesa del neoliberismo.
Tra essi: l’idea errata che una spesa governativa eccessiva “allontani” gli investimenti del settore privato; la convinzione che una politica fiscale “responsabile” e ridotti deficit di bilancio in sé e di per sé crei le condizioni per una crescita economica sostenuta; la discutibile idea che l’”alleggerimento quantitativo” (QE) produca realmente qualcosa a vantaggio dell’economia reale (anziché semplicemente eccitare la speculazione finanziaria) e, ultima, l’idea stessa che tecnocrati indipendenti delle banche centrali siano meglio adatti, rispetto a dirigenti democraticamente eletti, a risolvere i nostri problemi attuali, quando il passato dimostra il contrario.
Lungi dall’essere arbitri disinteressati, le autorità monetarie hanno costantemente dato priorità agli interessi finanziari e, nel farlo, hanno agito più come piromani che gettano benzina su un grande incendio. L’ironia oggi è che le banche centrali sono state storicamente l’agente tradizionale di salvataggio del settore finanziario. Ma nel contesto attuale di tassi negativi, stanno diventando il suo angelo della morte.
La grande ripresa che ha caratterizzato gli scambi di questa estate nei mercati obbligazionari globali è culminata con un nuovo fenomeno mai visto prima: la presenza di titoli a rendimento negativo, una caratteristica crescente e sempre più diffusa del panorama economico. Oggi abbiamo più 16 trilioni di dollari di titoli a rendimento negativo (su un mercato obbligazionario totale di circa 100 trilioni di dollari).
A questo panorama finanziario all’incontrario si è aggiunta l’UBS in Svizzera con l’introduzione di un addebito dello 0,6 per cento sui depositi superiori a 500.000 euro (554.000 dollari). Analogamente la Jyske Bank danese ha appena annunciato un piano di applicazione di interessi negativi sui depositi. Certo, sono solo i clienti ricchi che per ora subiranno questo gravame (un gradevole tocco socialista, per questa socialdemocrazia scandinava), ma ciò nonostante è un precedente infausto per qualsiasi risparmiatore se le banche alla fine decideranno di estendere questi costi ai meno abbienti. Funzionalmente un addebito sui depositi rappresenta una penale sui risparmi che agisce come un aumento delle imposte. Rappresenta la perversa apoteosi del sistema bancario “troppo grande per fallire” in cui i depositanti stanno oggi cominciando a pagare per conservare il loro denaro in banche che sopravvivono nella loro forma attuale perché i nostri dirigenti monetari e fiscali le sorreggono.
Pensate alle implicazioni: le banche stanno gravando i depositanti per conservare il loro denaro nella propria istituzione e debitori per un valore di 16 trilioni di dollari sono oggi pagati dai creditori mondiali per il “privilegio” di detenere le loro obbligazioni. Immaginate che cosa sta causando questo al vostro fondo pensione (come fa un fiduciario a calcolare gli obblighi previdenziali della propria società con un tasso d’interesse negativo?) o alle rendite annue della vostra assicurazione, per non parlare del denaro che depositate nel vostro conto corrente. O valutate l’acquisto di una casa in Danimarca oggi che la Jyske Bank, la terza banca più grande del paese, ha lanciato il suo primo mutuo a interessi negativi: 10 anni al meno 0,5 per cento. Ciò che questo significa è che i debitori continuano a versare le loro rate mensili, come è normale in tutti i mutui, ma il debito in corso si riduce ogni mese di più di quanto il debitore ha versato, in virtù del tasso negativo. Siamo davvero in acque inesplorate.
Ci siamo messi su questa strada decenni fa in Giappone, ed è alla Terra del Sol Levante che dovremmo guardare per un’occhiata al futuro. La Banca del Giappone è detentrice di quasi la metà del debito pubblico in corso del paese, dunque in effetti si tratta del mercato dei titoli pubblici governativi giapponesi; gli scambi secondari sono virtualmente inesistenti. Non che dovremmo versare lacrime per gli operatori finanziari giapponesi (che stanno gradualmente estinguendosi; niente guardiani dei titoli qui), ma forse dovremmo riflettere sul destino dei risparmiatori giapponesi, le cui entrate da risparmio si sono ridotte in conseguenza di decenni di interessi virtualmente pari a zero. Questo rende l’economia particolarmente vulnerabile a shock esterni (quali il programmato aumento dell’imposta sui consumi, che in precedenza ha creato due volte una regressione economica in questo paese di risparmiatori che invecchiano) poiché c’è un flusso di reddito minimale a far da cuscinetto a un acuto cambiamento.
Fuori dal Giappone la vasta crescita globale dei prezzi dei titoli (che ha determinato un corrispondente declino dei loro rendimenti) rappresenta un attacco collettivo di panico, nonostante tutta la ginnastica monetaria dei banchieri centrali mondiali, riguardo alla prospettiva di un rapido rallentamento dell’economia globale. I segnali sono là fuori: in Cina l’aggravamento della guerra commerciale sino-statunitense sta avendo un impatto avverso sulla crescita globale; in Germania un settore bancario in deterioramento e un rapido rallentamento delle esportazioni stanno sbriciolando l’economia; e nel resto dell’Europa, specialmente nel Regno Unito, l’imminenza della Brexit sta generando una crisi di fiducia, con i timori di un caos post No Deal che stanno aumentando con l’approssimarsi della scadenza del 31 ottobre.
Per alcuni decenni dopo Bretton Woods gli strumenti disponibili alle banche centrali hanno funzionato. Più di recente i mercati hanno sempre più preso sul serio la promessa del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro. Draghi ha ripetutamente usato il bilancio della BCE per sorreggere debiti sovrani denominati in euro, inducendo gli investitori ad accumulare titoli governativi di paesi un tempo ritenuti sull’orlo dell’insolvenza. Le differenze generali dei tassi tra la periferia meridionale e il nord più “fiscalmente sano” sono in conseguenza diminuite considerevolmente al punto che titoli a 100 anni stanno diventando una realtà; Irlanda e Austria hanno entrambe emesso titoli a 100 anni (analogamente all’Argentina, non membro dell’eurozona, che storicamente è stata un’insolvente seriale, ma tuttora in grado di approfittare di questa mania). I mercati oggi scontano totalmente il rischio di bancarotte nazionali nel folle accaparramento di rendimenti e redditi aggiuntivi. Questo è un azzardo morale senza controllo.
Tutte le norme di un’economia di mercato sono in corso di sovvertimento dagli stessi agenti – le banche centrali – che incarnano il fondamentalismo del mercato che ha messo profonde radici nell’economia globale. I debitori vengono remunerati, i risparmiatori addebitati. Anche la solvibilità dei fondi pensione sta finendo a rischio in paesi come la Germania, dove le istituzioni per legge devono acquistare titoli governativi a rendimento negativo. L’intera curva dei rendimenti dei Bund tedeschi è trattata a rendimenti negativi, cosicché Berlino è a rischio di finire vittima del proprio piano storico di austerità fiscale. La “cura” dei tassi negativi si sta dimostrando per molti cattiva quanto la malattia, il che di nuovo illustra il motivo per cui un eccessivo affidamento alla manipolazione del tasso d’interesse è un modo spaventoso di condurre la politica economica.
Tutto questo è per dire che i governi, non le banche centrali, hanno gli strumenti ottimali per le nostre sfide: denaro distribuito al pubblico per il benessere generale attraverso una gamma di progetti e programmi anziché salvataggi, organizzati dalle banche centrali, di un pot-pourri di istituzioni finanziarie (molte delle quali avrebbero dovuto essere chiuse nel 2009 e oltre). Per quanto possa frustrare i progetti di finanzieri e miliardari e la loro paura di denaro governativo che vada al pubblico, questa è la sola cosa che sposterà l’ago della bilancia. Certamente non c’è altra via d’uscita, in assenza di una robusta reazione fiscale governativa che si indebiti a questi tassi storicamente senza precedenti e generi una crescita economica sufficiente ad arbitrare i rendimenti negativi.
Lungi dall’”allontanare” gli investimenti privati (la tesi consueta impiegata contro una spesa governativa “eccessiva”) gli investimenti pubblici attraverso una politica fiscale appropriatamente mirata potrebbero essere una nuova fonte di crescita che “avvicini” ulteriori investimenti economici. Come ho scritto in precedenza, “la base della tesi dell’’allontanamento’ è che … una spesa governativa [eccessiva] causi un aumento dei tassi e una caduta degli investimenti. In altre parole, troppo indebitamento governativo ‘allontana’ gli investimenti privati”. Questo è totalmente sbagliato, come giunse a comprendere J.M. Keynes quasi un secolo fa. “Al posto dell’affermazione che l’offerta crea la propria domanda, io sostituirò l’affermazione che la spesa crea il proprio reddito”.
Quale deficit?
Nonostante i suoi molti e vari difetti, forse l’unica virtù di Donald Trump è di non essere un falco del deficit. Nonostante quella che molti hanno criticato come la prodigalità fiscale del presidente (in realtà, a causa di essa) l’economia statunitense resta una cospicua oasi di crescita. Come ha sarcasticamente osservato l’economista Paul Krugman, questo in realtà non è sorprendente considerata la “disponibilità [del Partito Repubblicana] a gestire grandi deficit di bilancio fintanto che i Democratici non siedono alla Casa Bianca”.
La mancanza di attaccamento di Trump all’ortodossia economica prevalente e gli imperativi politici delle elezioni del 2020 probabilmente significano che egli rimuoverà tutti gli ostacoli per cercare di prevenire una recessione l’anno prossimo negli USA. Il recente accordo di finanziamento concluso con il Congresso sul tetto del debito probabilmente assicurerà un’altra scossa fiscale per sostenere un certa crescita in direzione del primo trimestre del 2020, mentre il deficit di bilancio del governo come percentuale del prodotto interno lordo è oggi intorno al 4,5 per cento.
Con questo non si vuol dire che tutto vada bene negli Stati Uniti. Rimane il grande problema che il grosso dei vantaggi della politica fiscale continua a fluire al vertice, dove ci sono le maggiori propensioni al risparmio e che somme storicamente senza precedenti stanno andando all’esercito. In conseguenza l’economia statunitense non ricava il massimo slancio dai dollari fiscali (almeno per quanto riguarda l’economia civile). Non cresce in modo tanto efficiente quanto potrebbe perché una quantità sempre maggiore dei guadagni dell’economia è canalizzata a un numero sempre più piccolo di persone.
Inoltre i guadagni di occupazione che il presidente ha continuato a pubblicizzare sono stati sopravvalutati, secondo l’Ufficio delle Statistiche del Lavoro, e le imprese stanno ora tagliando le ore lavorative. Normalmente quando la settimana lavorativa è ridotta in questo modo, segnala un rallentamento o, proprio al minimo, una ridotta fiducia nelle prospettive di crescita futura da parte del settore privato. Dunque l’istinto di Trump di spendere adesso potrebbe non essere sbagliato, ma se la politica del passato è di qualche indicazione, il presidente probabilmente opererà un distribuzione sbagliata a favore dei suoi amici oligarchi e generali. Solo una politica fiscale appropriatamente mirata che punti ad accrescere il tenore di vita e a stanziare gli investimenti pubblici nell’istruzione, nella tecnologia e nelle infrastrutture realizzerà una prosperità di lungo termine per tutti noi, non solo per i pochi privilegiati.
Per ripetere: questo è un compito dei dirigenti eletti, non dei tecnocrati delle banche centrali. In questo stadio, infatti, una politica monetaria inefficace sta peggiorando le cose. I banchieri centrali stanno perpetuando una perversa asimmetria rischi-ricompense in conseguenza di questo politica di bassissimi tassi d’interesse, che è anche la morte delle istituzioni finanziarie. Questa è un’ironia profonda, considerando la misura in cui i banchieri centrali hanno costantemente dato priorità agli interessi della finanza rispetto alle altre parti dell’economia.
E anche se un ridimensionamento della finanza rispetto al resto del PIL può essere un bene per il resto di noi, in assenza di un cambiamento filosofico fondamentale della politica generale (specialmente sul fronte fiscale) continueremo a confrontarci con un contesto caratterizzato da stagnazione dei salati, inesistente sicurezza del posto di lavoro, crescente disuguaglianza e un potenziale di crescita scadente, al tempo stesso continuando a premiare comportamenti economici irresponsabili.
Il mondo della politica deve cambiare corso, e farlo rapidamente. Tuttavia la presenza di rendimenti negativi (e tutte le implicazioni che ne derivano) suggerisce che siamo ancora molto lontani da che ciò si verifichi.
Questo articolo è stato prodotto da Economy for All, un progetto dell’Independent Media Institute, che lo ha messo a disposizione dell’Asian Times.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://www.asiatimes.com/2019/08/opinion/we-are-living-in-a-bizarro-capitalism-era/
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2019 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.