Non dobbiamo far finta di niente. Dobbiamo dirci chiaramente come stanno le cose e sapere in quali rapporti politici e di forza politica oggi ci troviamo. “Forza” sembra divenuta una parola fuori luogo, decontestualizzante quando si parla di sinistra, di comunismo, di alternativa progressista in questo Paese: questo perché ormai siamo abituati a definirci come “debolezze“, “insufficienze“. Diciamolo tranquillamente, con grande serenità: la nostra inadeguatezza è venuta crescendo col passare degli anni, dal momento in cui si è frantumato quell’equilibrio tra blocco sociale che intendevamo rappresentare e la stessa rappresentanza politica del medesimo nelle aule parlamentari. La sinistra fuori dal Parlamento in questo Paese sembra aver smarrito la sua anima, i suoi punti di riferimento e persino la sua progressione ideale, lo slancio verso l’obiettivo, per così dire, “massimo“. Non sarebbe probabilmente stato così se l’esclusione dalla partecipazione ai consessi istituzionali fosse avvenuta in altri tempi e con altri modi, se avesse ad esempio riguardato un partito come il PCI che avrebbe retto un urto del genere con la presenza in tanti ambiti locali: giunte regionali, provinciali, comuni. Invece a Rifondazione Comunista è toccato di dover resistere – con grande coraggio e anche sovrumano impegno di migliaia e migliaia di compagne e compagni in tutta Italia – senza avere questa alternativa presenza istituzionale locale, provando a mantenere in vita una organizzazione nei territori col sempre maggiore depauperamento delle rappresentanze nei consigli regionali e comunali tanto nelle grandi quanto nella piccole città d’Italia. In alcune zone, in determinati comuni e anche in singoli ambiti regionali si è tentata una resistenza e un rilancio provando a coniugare “autonomia e unità” dei soggetti della cosiddetta (sempre più impropriamente) “sinistra di alternativa” ma i processi di aggregazione si sono fermati senza riuscire, nemmeno con la Rete delle Città in Comune a creare un supporto su cui riprendere un cammino comune, una elaborazione culturale, organizzativa e persino strategica per la sinistra veramente tale. Dunque, oggi la nostra debolezza si rafforza e la nostra forza viene sempre meno; cresce la disaffezione, l’incapacità di trovare una rigenerazione possibile in un futuro tutto da ricostruire politicamente e socialmente e ci abbandona a stati di autoconvincimento che non si possa tentare nulla, che ci si debba abbandonare al passaggio della “fase” in cui viviamo e che si debba attendere questo transitare di neoliberismo condito di sovranismi e populismi prima di riavere avanti a sé nuovamente un interlocutore capace di comprendere le ragioni del socialismo del nuovo millennio. E’ una sorta di determinismo che contraddice quella interpretazione scientifica della realtà che abbiamo studiato, letto e riportato a nuove generazioni fin da quando siamo divenuti comunisti ritenendo possibile sovvertire lo “stato di cose presente” non con una semplice ragione politica di palazzo ma, con anche il contributo dell’azione parlamentare, implementare lo sviluppo delle coscienze critiche e mostrare a milioni di sfruttati la loro condizione e la ragione delle ragioni, la contraddizione per eccellenza ed antonomasia: il capitalismo nella sua più appariscente visione, quella dell’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura, dell’esistenza della lotta fra le classi sociali che, nonostante lo sviluppo tecnologico mostrato come evoluzione sociale, esiste e si acuisce proprio nella fase liberista che ha frammentato il movimento anticapitalista con grande sagacia. La risposta non può venire da elucubrazioni e voglie, da intenzioni e desideri: usciremmo ancora una volta dall’analisi compiuta dei rapporti di forza e finiremmo per pensare che l’appoggio al governo Conte 2 sia una sorta di rivoluzione minore, di piccolo ma necessario apporto alla causa dei moderni proletari, un grande successo per aver contenuto – al momento – la valanga sovranista che ha comunque dato prova di resistenza politica e di potenza comunicativa, cedendo sotto le sue stesse contraddizioni: ossia il semplice fatto che nessun sovranismo, nessun nazionalismo può saldarsi con altri nazionalismi. Per sua stessa ammissione, il nazionalismo sovranista tende a far eccellere sopra tutte le altre nazioni la propria nazione, il proprio paese. Dunque l’unica unità possibile tra i sovranisti è, diciamo, un “patto di non aggressione” reciproca, una stabilizzazione delle politiche di espansione economica non nel senso di una collaborazione con le esigenze liberiste che Bruxelles mostra ai Paesi dell’Unione per chiarire quale sia il confronto economico con gli altri grandi poli capitalistici continentali, ma una continua concorrenzialità a chi può diventare la nuova locomotiva trainante tanto sul piano politico quanto, di più, su quello economico. Alla fine il sovranismo neofascista di alcuni paesi europei ad altro non si riduce se non ad una accettazione piena del regime capitalistico, dello sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni (imprenditori!, sic!), nel nome sacro della nazione, del classico über alles che tante burocrazie liberali ha disfatto proprio impiantandosi come fenomeno unificante ma evitando accuratamente di mettere in pratica quella “rivoluzione nazionale” che viene urlata sia dai leghisti sia da forze politiche di estrema destra neofascista e neonazista. Nei cosiddetti “anni felici” del Terzo Reich, quelli a cavallo tra il 1934 e il 1938, quelli della costruzione vera e propria del regime hitleriano, laddove si contavano già a decine di migliaia le vittime della follia nazista, il consolidamento del potere politico dell’NSDAP avvenne con qualche certo sforzo per via del fatto che proprio il nuovo cancelliere non risolveva – e non avrebbe mai risolto – la questione che riguardava i rapporti tra lo Stato (quindi la complessa macchina burocratica di origine prussiana) e il Partito. Se fu allora quasi impossibile creare quello stereotipo di assoluta efficienza che viene sempre assegnato ai tedeschi e, nella fattispecie, dalla Germania di Hitler, possiamo immaginarci come mai potrebbero applicarsi a ciò forze molto più eterogenee come quelle sovraniste italiane di varia ispirazione, colore ed origine politica. Ma la loro veemenza, il disprezzo che dimostrano per le aule parlamentari è evidente nel momento in cui le trasformano in vere e proprie “curve da stadio” e impediscono una normale dialettica democratica pur nei loro discorsi inneggiando a diritti, democrazia, libertà e ai poveri Padri costituenti della Repubblica che nulla hanno a che fare con ciò che oggi rappresentano partiti come quelli radunatisi davanti alla Camera dei Deputati con tanti tricolori per le mani, qualche svastica tatuata sui bicipiti e molti cori e inni fascisti al seguito. E’ del tutto evidente che noi comunisti dobbiamo ancora una volta saper mettere da parte per un attimo la nostra particolarità, la nostra differenza rispetto al tutto, e dobbiamo comprendere che la peggiore delle democrazie liberali è comunque sempre migliore della migliore delle democrazie autoritarie cui puntano i sovranisti con, ad esempio, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica da parte dei cittadini. Ma la differenza tra i due tipi di regime risiede nella formalità più che nella sostanza e nella declinazione che questa formalità ottiene in determinate politiche di difesa di diritti civili che rispettano solo una parte della nostra Carta Costituzionale e, in più in generale, delle altre dichiarazioni universali che tutelano l’essere umano (e non solo) nel suo essere tale sin dalla nascita. Il problema rimane la impossibile compatibilità tra sviluppo dei diritti civili con i i diritti sociali: come bene riassumeva Sandro Pertini, che non era un comunista ma un socialista riformista di quelli veri, “Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. Ecco, se a me socialista offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare. [… ] Ma la libertà senza giustizia sociale può essere anche una conquista vana. Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha un lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero.“. In fondo per costruire un nuovo grande movimento anticapitalista non serve nemmeno rifarsi a quella ortodossia comunista che spaventa tanto chi oggi appoggia “da sinistra” il governo Conte II. Basta recuperare il senso di comunità sociale del Presidente più empatico con un popolo che era ancora tutto in ricostruzione dopo le macerie provocate dal regime fascista e dalla guerra. Ma per fare tutto questo serve avere ben presente che i danni antisociali che questo governo potrebbe ben presto causare alle fasce più deboli del Paese saranno manna per i sovranisti che recupereranno facilmente il consenso proprio degli strati più proletari della popolazione, di quelle periferie più disagiate e di tutto un mondo della precarietà e della disoccupazione che subirà l’ennesima delusione dopo aver recuperato – illusoriamente – una speranza di avanzamento sociale dei propri diritti. Seguendo la linea di politica economica continentale, mediata da Gentiloni al tavolo con la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, avendo ben presente come è composto l’esecutivo, da forze che fino a ieri governavano con la Lega e da forze che hanno fatto le peggiori controriforme sul lavoro e cercato di derubricare il Parlamento a subordinata dell’esecutivo, i comunisti e la sinistra di alternativa non possono permettersi alcun dubbio o tentennamento: regalare alle destre l’opposizione a questo governo è fare torto alla nostra storia, è privarci del nostro ruolo prima di tutto sociale e poi anche politico. Il binomio deve essere: contro le destre e non con questo governo. La famosa “terza via” è sempre da inventare…