Analisi del programma del governo giallo-rosè punto per punto, ovvero tutta la continuità che ci aspetta
La crisi di governo iniziata ufficialmente quasi un mese fa ha infine prodotto un nuovo esecutivo retto da una nuova maggioranza formata da M5Ss-Pd-Leu. Matteo Salvini esce momentaneamente di scena, e per di più malamente, stando ai sondaggi, avendo scommesso tutto su nuove elezioni anticipate già in autunno. Una sconfitta, quella del segretario della Lega, che inizia all’indomani delle europee del 26 maggio quando, forte del suo 34%, ha chiesto la testa dei ministri Tria, Trenta e Toninelli per tener conto dei nuovi rapporti di forza tra i partiti dell’alleanza gialloverde, coi grillini franati al 17%. Fallito il tentativo di rimpasto, al capitano è sembrato inevitabile il ricorso alle urne che già molti gli consigliavano: il 25 luglio Conte dichiarava di non essere disponibile ad “andare in parlamento a cercare maggioranze alternative” [1] e poi Tria che la manovra economica avrebbe avuto deficit molto contenuti, sconfessando la linea leghista; il giorno seguente la direzione nazionale del PD votava all’unanimità la relazione del segretario che indicava nelle elezioni l’unico percorso da seguire in caso di caduta dell’esecutivo escludendo un’alleanza coi 5s [2].
Salvini, tuttavia, non ha tenuto conto che solo i parlamentari di Fratelli d’Italia erano disposti ad affrontare nuovamente il giudizio degli elettori. Alla naturale riluttanza di tutti quelli confluiti nel gruppo misto si è sommata la contrarietà degli eletti grillini che non si sarebbero più potuti ricandidare per il vincolo dei due mandati e che comunque sarebbero usciti decimati, visti i risultati delle europee ed i sondaggi. Ma non erano d’accordo con le elezioni anticipate neppure i parlamentari del PD, quasi tutti scelti quando il segretario era Matteo Renzi, che difficilmente sarebbero stati ricandidati dall’attuale segretario, Nicola Zingaretti. Al senatore Renzi, inoltre, serve tempo per costruire il proprio partito ed una legge elettorale proporzionale per poter continuare a contare. E neanche i parlamentari azzurri volevano le elezioni, dato che Forza Italia è in caduta libera e Renzi non è ancora pronto per offrirgli un porto sicuro ed il partito di Flavio Briatore rimane un miraggio estivo. Senza considerare che data l’attuale legge elettorale nuove elezioni ad ottobre-novembre avrebbero portato ad un’ulteriore diminuzione dei partiti capaci di presentarsi sulla scheda e superare la soglia di sbarramento.
Sull’istinto di sopravvivenza dei nostri politici storicamente trasformisti ha fatto leva la Commissione europea e gli altri poteri più o meno forti, da Confindustria al Vaticano, da Trump ai sindacati confederali, per mettere momentaneamente a riposo Salvini ed assicurarsi un governo privo della retorica nazionalistica che in tempi di crisi favorisce l’oggettivo ed inevitabile esacerbarsi della concorrenza tra i ‘fratelli nemici’ del capitale ed il redde rationem tra i loro principali Stati. L’uscita di scena del capitano, infatti – che pure va salutata positivamente perché, sebbene non sia il frutto di alcuna mobilitazione popolare, ci permette di avere a che fare con un nemico forse più subdolo ma sicuramente meno feroce (se bisogna prenderle, meglio da Mohamed Ali che da Mike Tyson) – potrebbe essere tutt’altro che definitiva. Alcune delle più importanti commissioni parlamentari, la presidenza della Rai e alcuni grandi papaveri di Stato sono ancora in quota Lega e non è detto che il nuovo governo abbia la forza o la volontà di liberarsene, come non è assolutamente scontato che la riforma della giustizia inserita nel programma del nuovo governo non sia punitiva nei confronti di chi indaga sui potenti e anzi fornisca copertura politica ai magistrati che indagano le malefatte dell’ex ministro degli interni.
In attesa di vedere come si comporterà il nuovo governo, non ci rimane che analizzarne brevemente il programma. E da esso emerge una pericolosa continuità con le politiche leghiste, sebbene depurate della retorica anti-europea e anti-immigrati. Un modo per affrontare la stagione di crisi che ci attende col medico pietoso che indora la pillola, tenendosi, se ciò non dovesse essere sufficiente a ripristinare la crescita e garantire la pace sociale, l’olio di ricino come ultimo rimedio.
Per quanto riguarda le politiche di spesa, ovviamente ce n’è per tutti: giovani, disabili, poliziotti, scuola università, ricerca, sanità, ambiente, territorio, edilizia… non c’è quasi settore (a parte forse solo la giustizia) che non vedrebbe affluire soldi, come in ogni programma che si rispetti. D’altronde è difficile trovare forze politiche che si impegnino apertis verbis a tagliare i servizi sociali, educativi, sanitari… salvo poi puntualmente farlo, sebbene ognuna col proprio stile. Non è quindi da come verrebbero spesi i soldi che è possibile capire il reale contenuto di classe del programma del nuovo governo ma da come questi soldi verrebbero raccolti.
Riguardo la prossima legge di bilancio (punto 1), il nuovo governo abbraccia il mantra della politica espansiva – che significa maggior spesa pubblica e/o minori tasse – ma, a differenza del precedente, senza mettere formalmente a rischio l’equilibrio di finanza pubblica, quindi il rapporto tra entrate e uscite. Un vero e proprio ossimoro. Anche prescindendo dalla recessione alle porte, che diminuirà le risorse a disposizione e comprometterà inevitabilmente l’equilibrio di finanza pubblica, come ciò sia possibile senza ottenere la remissione del debito pubblico (e della relativa spesa per interessi) rimane un mistero. Ma quel che più conta è ottenere l’approvazione delle autorità europee, che non vengono più retoricamente sfidate ma alle quali si chiede (punto 2) non soltanto di rilanciare i salvifici e ricorrenti piani di investimento ma anche di aumentare i margini di flessibilità, dando copertura politica al disequilibrio di bilancio, sperando che ciò basti ad evitare l’accanimento dei grandi speculatori.
Le maggiori risorse a disposizione per finanziare le promesse programmatiche, dunque, verrebbero in primis da maggior deficit, da ottenersi anche superando “l’eccessiva rigidità dei vincoli europei”. Un euro-riformismo tanto velleitario sul piano dei rapporti di forza quanto inutile sul piano economico. E condiviso da tutto l’arco parlamentare, Lega inclusa. Come pure è condiviso il richiamo ad “una politica di investimenti mirata al Continente africano” (punto 13) – meglio conosciuta come “aiutiamoli a casa loro” – che è sempre stata fonte di lauti profitti per le ‘nostre’ multinazionali.
A beneficiare dell’eventuale flessibilità di bilancio, dunque, saranno gli investimenti (quindi i profitti delle imprese) e non i consumi, vale a dire i salari dei lavoratori, come è inevitabile che sia e come qualunque serio economista keynesiano sa, e come per altro già avvenuto durante la fase più acuta della crisi negli anni 2008-2011 quando tutti i parametri, vincoli ed equilibri ordoliberisti relativi alla finanza pubblica sono stati sfondati a beneficio di banche e imprese. Salari che anzi verranno tagliati in modo da liberare risorse per le imprese (punto 4): ecco la seconda fonte di finanziamento degli investimenti o quantomeno del mantenimento dei margini di profitto. Anche qui, però, nella formulazione abbiamo un ossimoro necessario ad occultare la realtà: si vogliono tagliare le tasse sul lavoro “a totale vantaggio dei lavoratori” non riducendo le aliquote Irpef che gravano sui redditi dei dipendenti bensì il cuneo fiscale, vale a dire le imposte dirette, indirette e previdenziali che gravano sul lavoro. Il che è impossibile, dal momento che i contributi assistenziali e previdenziali versati dai lavoratori tornano ai lavoratori. Per tanto, l’unica cosa che si potrebbe fare è redistribuire in maniera diversa il peso di queste imposte ed i relativi benefici all’interno della classe lavoratrice. Il taglio del cuneo fiscale, dunque, nasconde il taglio dei contributi versati dai ‘datori di lavoro’, che corrisponde né più né meno che ad una diminuzione dei salari nella loro componente indiretta (assistenziale, servizi sociali, ecc) e differita (pensioni).
Un risparmio per i padroni che poi potrebbe essere in parte dirottato a finanziare quel salario che non a caso viene esplicitamente definito “minimo”, una iattura per i lavoratori come ampiamente dimostrato negli articoli cui si rimanda. Il tutto, però, da farsi col placet delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (Usb e altri sindacati di base sono già favorevoli al salario minimo), che non essendo più rappresentative della classe lavoratrice cercano la legittimazione del proprio ruolo di rappresentanza nello Stato e nella sua legge. Riguardo il mondo del lavoro, poi, brilla l’assenza di un qualunque riferimento alla messa in discussione del precariato (ormai esteso anche ai contratti a tempo indeterminato con l’abolizione dell’articolo 18) che fa sì che tutta la serie di belle parole riguardo la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la parità di genere nelle retribuzioni, il congedo di paternità obbligatoria, la conciliazione tra lavoro e vita privata, ecc, ecc, risultino come battute di spirito durante un funerale.
Sarcasmo che si ritrova anche nelle politiche per il Mezzogiorno che l’autonomia differenziata, vale a dire la secessione dei ricchi – rilanciata dal governo (punto 20) – contribuirà a depauperare ulteriormente. Ma non paghi di ciò, per il Sud sono previsti ulteriori forme di sfruttamento e saccheggio attraverso “Contratti Istituzionali di Sviluppo, Zone Economiche Speciali e Contratti di Rete” (punto 19), vale a dire nuove e maggiori limitazioni ai diritti ed ai salari dei lavoratori e l’ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e dell’ambiente. Qualche conforto viene, invece, dalle parole relative alla “lotta alle organizzazioni mafiose e all’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene, incluse quelle detentive, per i grandi evasori” (punto 16). Sicuramente un passo in avanti per lo meno nei confronti di chi sosteneva lo ‘sciopero fiscale’ (Salvini) e la ‘convivenza con la mafia’ (Lunardi). Ma che questo Stato possa realmente fare cassa così c’è da dubitarne, visti gli strumenti che sono stati messi in campo in questi anni da tutti i governi di ogni colore, dai condoni (Berlusconi), alla voluntary disclosure (Renzi), alla pace fiscale (Conte), che impediscono ai grandi evasori di essere anche solo ufficialmente etichettati come tali e allo Stato portano magri guadagni.
La riforma fiscale (punto 17), infine, dovrebbe contribuire a finanziare le politiche espansive lasciando i soldi nelle tasche degli italiani, come ama dire la destra, vale a dire tagliando le tasse. E anche il nuovo governo si appresta ad “alleggerire la pressione fiscale” ma a differenza del precedente esecutivo “nel rispetto dei vincoli di equilibrio del quadro di finanza pubblica” e senza dirci nulla su quali sono le classi sociali che dovrebbero beneficiarne. Salvo ammettere che la riforma sarà meramente “in linea con il principio costituzionale della progressività della tassazione”, quindi regressiva. Ed infatti, come già aveva annunciato l’ex ministro Tria, anche il nuovo governo si appresta a rivedere le “tax expenditures” vale a dire il sistema delle agevolazioni che contribuiscono non poco a diminuire il peso del fisco, soprattutto dei ceti medio-bassi. Col risultato, dunque, che quello che eventualmente ci lasceranno con aliquote più basse si riprenderanno sicuramente con minori deduzioni e detrazioni, operando una redistribuzione del carico tra i contribuenti a vantaggio dei redditi medio-alti.
Da ultimo gli immigrati (punto 18) che anche per il nuovo governo devono rimanere i più sfruttati tra gli sfruttati e per garantire extraprofitti agli imprenditori e ai mafiosi nostrani, la disciplina in materia di sicurezza – che colpisce tutti i lavoratori, indipendentemente dal proprio status giuridico – sarà soltanto “rivisitata alla luce delle recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica”, vale a dire del complice del delitto che, pur potendo a suo tempo opporsi, negando la propria firma e rispedendo decreti e leggi al Parlamento, ha scelto di lavarsene le mani come un Pilato qualunque.
In conclusione, questo nuovo governo impropriamente definito giallorosso non sembra discostarsi sostanzialmente dal cammino intrapreso dal governo gialloverde e da quelli che l’hanno preceduto. D’altronde, per far fronte alla crisi senza mettere in discussione l’ordine sociale, vale a dire i rapporti di proprietà, non c’è altro modo di procedere. Salvini, dunque, può dormire sonni tranquilli, almeno dal punto di vista dell’eredità politica. Il suo approccio non viene sconfessato se non nei toni, e se ciò non dovesse essere sufficiente – come purtroppo tutte le grandi crisi hanno dimostrato – i padroni torneranno ad avvalersi dei suoi servigi o di quelli che, come lui, sono disposti a portare alle estreme conseguenze la repressione del proletariato e la lotta agli altri fratelli nemici del capitale. I “pieni poteri” sono prematuri ma niente affatto scongiurati.
Note
[1] “Che io possa andare in Parlamento a cercare maggioranze alternative o che io voglia addirittura dare vita a un mio partito è pura fantasia. Non facciamo i peggiori ragionamenti da Prima Repubblica”. Su giornalettismo.it il twitter con il video di Conte.
[2] Già il 17 luglio Zingaretti aveva dichiarato che: “Confermo che nel caso si arrivasse a una crisi di governo la nostra posizione era, è e rimarrà sempre la stessa: di fronte a una crisi di queste proporzioni la via maestra è quella di ridare la parola agli italiani e di avviarci verso elezioni anticipate. Non esiste alcuna ipotesi di governo con i 5 stelle, né esiste o è esistito alcun tipo di incontro o confronto su ipotesi di questo tipo. Sono ipotesi totalmente prive di fondamento”. Fonte Democratica.com
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07/09/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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