Michele Paris
I negoziati tra il governo americano e i Talebani per mettere fine al conflitto in Afghanistan sono stati ufficialmente sospesi dall’intervento del presidente Trump su Twitter nella serata di sabato. Il motivo della rottura sarebbe un attentato, condotto settimana scorsa a Kabul dagli stessi Tabelani, che ha fatto una dozzina di vittime tra cui un soldato americano. Al di là delle apparenze, gli ostacoli a una soluzione diplomatica per la guerra in corso da quasi 18 anni sembrano avere però motivazioni più profonde che vanno collegate sia alle divisioni all’interno dell’apparato di potere USA sia alla precarietà della posizione di Washington nel paese centro-asiatico.
Secondo i “tweet” di Trump, il presidente afgano, Ashraf Ghani, e una delegazione della leadership talebana avrebbero dovuto essere ospitati per un evento in programma domenica presso la residenza presidenziale di Camp David, nello stato del Maryland. Non è del tutto chiaro quale avrebbe dovuto essere l’obiettivo del clamoroso summit, ma è facile ipotizzare che Trump intendeva attribuirsi il merito di uno storico accordo di pace dopo mesi di trattative.
L’attentato che avrebbe fatto saltare l’incontro era avvenuto giovedì scorso, quando nella capitale afgana un’esplosione rivendicata dai Talebani aveva ucciso dodici persone, inclusi un militare americano e uno del contingente romeno facente parte delle forze di occupazione NATO. Trump ha motivato la sua decisione improvvisa di cancellare il summit di Camp David, del quale non vi era stata notizia in precedenza, con l’impossibilità di condurre trattative o finalizzare un’intesa di pace con un’organizzazione sanguinaria, pronta a massacrare innocenti solo “per conquistare una posizione di forza” nei negoziati.
Considerando la situazione complessiva del teatro di guerra afgano, questa spiegazione non ha semplicemente senso. L’escalation della violenza nel paese è in corso da mesi e ha anzi seguito il procedere stesso delle trattative a Doha, in Qatar. I Talebani hanno continuato a mettere in atto operazioni in molte aree strategiche, da Kabul a Kunduz, senza che i colloqui subissero anche solo rallentamenti.
All’inizio della scorsa settimana, ad esempio, un’operazione nella “zona verde” di Kabul, sede di numerose ONG e delle rappresentanze diplomatiche occidentali, aveva fatto 18 vittime e provocato non poche proteste tra la popolazione. Praticamente in concomitanza della strage, tuttavia, l’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, aveva annunciato il raggiungimento di un accordo “di principio” con i Talebani. Esso prevedeva il ritiro entro cinque mesi di oltre 5 mila soldati USA da alcune basi attualmente occupate e, in seguito e a due condizioni, degli altri 8 mila. La prima condizione era il raggiungimento di un accordo tra i Talebani e il governo di Kabul, mentre la seconda l’impegno che l’Afghanistan non avrebbe più ospitato sul proprio territorio gruppi terroristici intenti a colpire gli Stati Uniti.
Le stesse forze di occupazione hanno a loro volta intensificato le operazioni di guerra nel corso del 2019. Nonostante la stampa occidentale risulti quasi sempre molto vaga in proposito, sono svariati i segnali dell’implementazione di una campagna decisamente più aggressiva contro gli “insorti”. Le statistiche delle Nazioni Unite danno un’idea di quanto accaduto in questi mesi, visto che, ad esempio, nei primi tre mesi dell’anno le forze USA-NATO hanno causato un numero maggiore di vittime civili rispetto ai Talebani.
La realtà è dunque quella di una situazione nella quale entrambe le parti nel conflitto hanno dato un impulso alle operazioni di guerra precisamente per posizionarsi in maniera favorevole nel corso dei negoziati e per ottenere condizioni migliori in un eventuale accordo di pace.
A impedire un esito positivo delle trattative sono anche le posizioni divergenti all’interno dell’amministrazione Trump circa la strategia da perseguire in Afghanistan. La stampa americana ha parlato di uno scontro tra una fazione favorevole a un accordo con i Talebani, che fa capo al segretario di Stato Mike Pompeo, e un’altra contraria riferibile in particolare al consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton.
Un recente articolo del Washington Post aveva rivelato come lo stesso presidente e gli ambienti vicini a Pompeo avessero cercato di emarginare Bolton in merito all’agenda afgana, così da evitare che il super-falco “neo-con” potesse boicottare i negoziati. Le posizioni di Bolton devono essere però condivise anche da altri ai vertici militari e della diplomazia americana, visto che la cancellazione dell’evento di Camp David ha segnato una vittoria almeno momentanea dei fautori della linea dura nei confronti dei Talebani.
La questione della permanenza di un contingente militare o di uomini della CIA in Afghanistan dopo un eventuale accordo con gli “studenti del Corano” è un altro fattore irrisolto e fonte di divisioni a Washington. Esso si sovrappone alla diatriba interna sull’approccio ai Talebani, i quali infatti non sembrano disposti ad accettare nulla di meno di un’evacuazione completa delle forze di occupazione dal loro paese.
Come su altri temi internazionali, a cominciare dalla Corea del Nord, il vero problema sembra essere la mancanza di una linea unitaria e coerente da parte americana. Sull’amministrazione Trump continuano d’altra parte ad avere influenza forze contrastanti e i ripetuti conflitti interni sono il riflesso di politiche imperialiste distruttive che, dopo molti anni dal loro lancio, hanno creato scenari estremamente complessi e contradditori, nonché di difficilissima soluzione.
Nel caso dell’Afghanistan va anche aggiunta la freddezza del governo di Kabul nei confronti di un accordo finora negoziato solo tra Washington e i Talebani e che non avrebbe probabilmente dato alcuna garanzia di sopravvivenza alla classe politica coltivata dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001. Il presidente afgano Ghani, infatti, già venerdì scorso aveva fatto sapere che la sua visita programmata negli USA non avrebbe avuto luogo.
Questo e altri elementi emersi dopo i “tweet” di Trump hanno fatto pensare a molti al di fuori dei circuiti della stampa ufficiale che lo stesso vertice di Camp David fosse un’invenzione del presidente, il quale avrebbe deciso di rivelare il summit e contemporaneamente annullarlo per ragioni di opportunità politica. Alcuni residenti della contea del Maryland dove sorge la residenza presidenziale hanno fatto notare come non ci fosse alcun segno dei preparativi che solitamente caratterizzano eventi importanti come quello annunciato da Trump. Inoltre, la coincidenza dell’arrivo negli Stati Uniti di una delegazione di Talebani con l’anniversario dell’11 settembre avrebbe sollevato fortissime polemiche contro la Casa Bianca.
La questione cruciale per l’immediato futuro è comunque ora quella della sorte dei negoziati di pace. Il fatto stesso che Trump abbia rivelato un vertice segreto mai andato in porto, quindi teoricamente senza bisogno di darne notizia, lascia intendere che la sua amministrazione resti aperta al dialogo, nonostante la quasi certa sospensione delle trattative per qualche settimana o mese.
Le probabilità di un esito positivo restano però molto basse, a giudicare dal quadro generale del paese centro-asiatico. Trump vorrebbe mantenere la promessa di chiudere un conflitto interminabile e impopolare per favorire la sua rielezione, ma l’unica via d’uscita sembra essere un accordo con i Talebani, i quali a loro volta si sentono sufficientemente forti da poter respingere la richiesta degli Stati Uniti di mantenere un contingente militare in Afghanistan per garantire i propri interessi strategici.
In questa situazione di sostanziale stallo, ciò che appare scontato è ancora e sempre la prosecuzione delle operazioni di guerra per il prossimo futuro e il conseguente inevitabile aggravamento del bilancio delle vittime civili.
http://www.altrenotizie.org/primo-piano/8586-trump-e-le-sabbie-afgane.html