DettagliScritto da Michele Paris Pubblicato: 16 Settembre 2019
Il devastante attacco del fine settimana contro alcuni impianti petroliferi sauditi è tornato a far salire il rischio di un’aggressione militare americana contro l’Iran proprio nel momento in cui i leader dei due paesi stavano esplorando un complicato percorso diplomatico. I responsabili della clamorosa iniziativa, che minaccia di sconvolgere il mercato del greggio in tutto il pianeta, non sono ancora stati individuati, anche se il messaggio lanciato a Riyadh con questa operazione appare chiarissimo e ha a che fare sia con il teatro di guerra dello Yemen sia con l’offensiva in corso contro Teheran da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Il raid di sabato sarebbe stato portato a termine con una decina di droni, ma il governo di Washington ha ipotizzato anche l’utilizzo di missili da crociera. Ciò darebbe maggiore credibilità all’accusa, sostenuta dagli USA, di una responsabilità più o meno diretta dell’Iran. Infatti, il dipartimento di Stato americano ha quasi subito escluso che a colpire siano stati i “ribelli” Houthi yemeniti, perché sprovvisti della necessaria tecnologia militare. Gli stessi Houthi avevano però subito rivendicato l’attacco, accompagnandolo alla minaccia di colpire molti altri obiettivi in territorio saudita se la monarchia wahhabita non dovesse mettere fine all’aggressione del più povero dei paesi arabi.
Le infrastrutture colpite sono state due. La prima, la raffineria di Abqaiq, è di gran lunga la più importante ed è anzi ritenuta il centro nevralgico dell’industria petrolifera saudita, visto che processa quasi sette milioni di barili al giorno, vale a dire poco meno della quantità di greggio totale esportata giornalmente dal paese. Se nell’immediato Riyadh dovrebbe mettere a disposizione parte delle proprie riserve strategiche per evitare perdite di forniture eccessive sui mercati, così come ha annunciato di voler fare il presidente americano Trump, per il prossimo futuro i 5,7 milioni di barili da sottrarre all’export saudita rischiano di spingere le quotazioni di petrolio anche sopra i 100 dollari. Per la riparazione dei danni serviranno infatti svariate settimane, se non alcuni mesi.
Per quanto riguarda le responsabilità, gli Stati Uniti hanno già puntato il dito contro Teheran, da dove le accuse sono state respinte in maniera decisa. Il governo americano ha diffuso una serie di immagini dei siti colpiti che indicherebbero la provenienza degli ordigni da nord o nord-ovest, ovvero dall’Iran. Anche il New York Times, però, ha dovuto ammettere che le immagini sono tutt’altro che chiare e alcune di esse mostrano danni alla zona occidentale delle strutture, quindi non in direzione del territorio iraniano.
La presentazione di “prove” inconsistenti per far ricadere la colpa di determinati eventi sul rivale o nemico di turno sono d’altra parte un classico degli Stati Uniti. Un’azione diretta da parte iraniana avrebbe inoltre avuto poco senso in un frangente nel quale stavano emergendo segnali di un possibile timido allentamento delle pressioni da parte della Casa Bianca. Il presidente Trump non ha comunque per il momento fatto alcun riferimento esplicito alla Repubblica Islamica, pur affermando che la macchina da guerra americana è pronta a reagire, assicurando che la sua amministrazione aspetterà le conclusioni del regime saudita.
Anche da Riyadh non vi era stato inizialmente alcun cenno all’Iran, mentre solo lunedì è arrivata una dichiarazione ufficiale che sostiene come le armi utilizzate siano “iraniane”. Ancora indefinita resta invece per i sauditi la provenienza dell’attacco. Questa relativa prudenza è apparsa estremamente significativa a molti osservatori. In realtà, se si esclude un’improbabile “false flag” saudita, le ipotesi più plausibili sembrano condurre in qualche modo a Teheran. Le opzioni sul tavolo sono quelle delle milizie sciite filo-iraniane in Iraq o, appunto, gli Houthi yemeniti. Il sito Middle East Eye, finanziato dal governo del Qatar, ha sostenuto di avere ottenuto informazioni in esclusiva da fonti dell’intelligence irachena, secondo le quali l’attacco del fine settimana sarebbe partito da basi appartenenti alla milizia sciita Hashd al-Shaabi nel sud dell’Iraq. L’operazione sarebbe stata decisa in risposta al blitz israeliano dello scorso mese di agosto, verosimilmente appoggiato dai sauditi, che distrusse equipaggiamenti militari e uccise un comandante di questa stessa milizia.
L’informatore della testata web cita anche un’altra ragione per l’attacco contro le raffinerie saudite che, in effetti, sembra andare al cuore della vicenda, al di là dei reali esecutori dell’operazione. L’incursione rappresenterebbe cioè “un altro messaggio dall’Iran agli USA e ai loro alleati che, finché proseguirà l’assedio [contro la Repubblica Islamica], non ci sarà stabilità in tutta la regione mediorientale”.
Come era già apparso possibile nei mesi scorsi con gli attacchi contro petroliere in transito nel Golfo Persico, anche quello di sabato potrebbe costituire una risposta da parte iraniana alle pressioni degli Stati Uniti e dei loro alleati. Teheran, cioè, direttamente o indirettamente intende agire per mettere in chiaro in maniera preventiva che il conto per un’eventuale aggressione americana risulterà salatissimo. Non a caso, domenica un comandante dei Guardiani della Rivoluzione ha assicurato che l’Iran è pronto alla guerra e che, soprattutto, le basi e le portaerei americane in Medio Oriente, “entro un raggio di 2.000 km attorno al territorio iraniano”, sono a tiro dei missili di Teheran.
In primo luogo, una guerra scatenata da Washington, Riyadh e Tel Aviv provocherebbe una drammatica interruzione dei flussi di petrolio, provocando gravi danni sia per le monarchie assolute del Golfo sia per l’economia americana a causa di una sicura impennata delle quotazioni del barile. Questi scenari, aggravati dalle perdite per le forze armate americane e di quelle degli altri paesi che parteciperebbero alla guerra, si rifletterebbero anche inevitabilmente sulle chances di rielezione alla Casa Bianca del presidente Trump.
Simili considerazioni erano state alla base della decisione di evitare un attacco “mirato” contro installazioni militari iraniane dopo l’abbattimento nel mese di giugno di un drone americano entrato nello spazio aereo della Repubblica Islamica. La dimostrazione di forza contro l’Arabia Saudita ha influito perciò sulla prudenza della risposta del regime saudita e dello stesso Trump nelle scorse ore, sia pure tenendo presente la necessità di ostentare fermezza di fronte a un attacco con pochi precedenti.
Nel caso, poi, che fossero stati effettivamente gli Houthi yemeniti a condurre l’attacco, la logica suggerirebbe iniziative altrettanto caute. Se una milizia armata poveramente di un paese allo stremo è in grado di mettere in ginocchio un paese, come l’Arabia Saudita, che fa registrare la terza spesa più alta del pianeta in ambito militare e ha il sostegno delle principali potenze occidentali, è facile immaginare quali danni potrebbe provocare un conflitto con l’Iran.
La necessità di muoversi con cautela soprattutto da parte saudita deriva anche dal fatto che il regno si trova in un momento delicatissimo per la propria economia e le proprie prospettive di sviluppo. Nelle ultime settimane sono state messe in moto le procedure per la vendita, annunciata da tempo, di una quota del colosso petrolifero pubblico Aramco, fortemente voluto dall’erede al trono Mohammad bin Salman (MBS), artefice anche dell’aggressione contro lo Yemen. Da questa operazione, il regime dovrebbe incassare centinaia di miliardi di dollari per riformare e modernizzare il sistema economico saudita. Una compagnia i cui “asset” sono esposti a rischi di attacchi devastanti non sarebbe perciò particolarmente attraente per gli investitori internazionali.
In ultima analisi, la distruzione degli impianti petroliferi sauditi e il rischio di una conflagrazione rovinosa in Medio Oriente sono responsabilità non dell’Iran o delle forze affiliate a questo paese, bensì, in primo luogo, dello stesso regime di Riyadh, colpevole di crimini indicibili in Yemen e, più in generale, delle conseguenze destabilizzanti delle politiche attuate in questi ultimi due anni dalla Casa Bianca per contrastare l’influenza nella regione della Repubblica Islamica.
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