«È nato qualcosa di nuovo e potente», racconta uno degli organizzatori del clima del “Climate Camp” di Venezia, appuntamento transnazionale animato da attiviste e attivisti europei, guardando alle prossime mobilitazioni sul clima
Negli ultimi tempi abbiamo assistito a una crescita esponenziale del movimento internazionale per il clima. In questo contesto, il Climate Camp si è presentato come un importante appuntamento soprattutto per la riflessione e il collegamento transnazionale.
Il Climate Camp è stato un momento di mobilitazione pienamente europeo. Intendo dire che, su circa 900 presenze finali, la metà era composta da attivist* provenienti da molti paesi d’Europa, Germania in testa. Sicuramente questo è stato il frutto di un nostro lavoro pluriennale, di una ormai lunga adesione alla campagna Ende Gelände e della frequentazione di moltissimi campeggi climatici che punteggiano le estati del vecchio continente. Credo però che l’appuntamento veneziano abbia rappresentato qualcosa di più rispetto a quanto abbiamo visto sinora. Non si è trattato infatti di un camp italiano con l’aggiunta di qualche internazionale, come spesso avviene anche all’estero, dove la parte del leone finiscono per farla gli autoctoni. Al contrario, Venezia è stata la manifestazione di un movimento che appare pienamente transnazionale. L’evento va letto, dunque, come un vero e proprio salto di qualità della mobilitazione climatica. Ora, sta a tutt* fare in modo che sia un punto di non ritorno.
Un altro aspetto interessante e una differenza rispetto al recente passato, ad esempio ad esperienze anche interessanti quali Blockupy, è la molecolarità della composizione. Non è possibile, per quanto abbiamo visto finora, organizzare questo movimento a partire da rapporti tra rappresentanti di soggetti strutturati, non si fa “a freddo”, per così dire. Siamo già di fronte a un movimento che eccede la dinamica del coordinamento tra gruppi e che si organizza nello stesso tempo in cui si mobilita, nelle piazze, nelle assemblee che avvengono durante il corso delle manifestazioni e dei blocchi. Blocchi che possono durare persino giorni interi e che spesso tendono a fare coincidere il momento dell’azione diretta con quello dell’organizzazione. Il blocco del red carpet, ad esempio, è durato più di otto ore.
Altro aspetto interessante che mi pare emergere dalle giornate veneziane è che la battaglia sulla giustizia climatica non “fa sintesi” di tutti gli altri terreni di intervento, cancellandoli. Al contrario essa funziona come cornice e connettore per altri aspetti dell’azione anticapitalista. Altissima era infatti la presenza di attivst* che quotidianamente lottano assieme ai migranti, consapevoli che la crisi climatica e i fenomeni migratori non sono aspetti separabili. Uno dei finger del corteo di Ende Gelände di due anni fa era composto da attivist* queer, non in nome di una generica solidarietà con gli ambientalisti, ma proprio perché si insiste sull’aspetto patriarcale ed eteronormativo dell’Antropocene, o meglio del Capitalocene (per usare una ormai nota categoria di Jason W. Moore). E potremmo continuare: ha ancora senso tenere separate le lotte sul lavoro e il tema della riconversione ecologica delle infrastrutture e dei nuovi ammortizzatori sociali che richiederà? Dovremmo forse cominciare a discutere di reddito climatico.
Ci aspetta un autunno ricco di mobilitazioni a partire dallo sciopero del 27 settembre. Quali solo le altre tappe emerse durante il Camp?
Gli scioperi climatici avvengono ormai con cadenza bimestrale e saranno momenti di crescente importanza, ma spero saremo in grado di evitare una inutile ritualizzazione delle scadenze. Per ora sembra sia così. Prendiamo ad esempio il blocco del salone dell’auto di Francoforte, a cui, solo pochi giorni fa, hanno partecipato migliaia di persone. Basta guardare le fotografie, c’è un filo rosso che lega quell’occasione al “green carpet” occupato del Lido di Venezia. È presto per dirlo? Noi abbiamo la sensazione che sia nato qualcosa di nuovo e potente.
Venezia è anche la città della campagna contro le grandi navi. Uno dei punti caratteristici è stato l’aver mostrato il legame tra lotta alle grandi opere e lotta per il clima, come è emerso a partire dal 23 marzo scorso e a seguire con l’appuntamento per il Festival Alta Felicità. In che modo i movimenti possono rafforzare questo legame, caratteristico delle mobilitazioni in Italia, e quali ostacoli devono ancora superare?
Venezia, con la sua conformazione unica, è ovviamente un luogo simbolico e la lotta alle grandi navi: riassume l’arroganza ignobile dell’estrattivismo contro la sacrosanta pretesa di salvare una città in crisi, di trasformarla da occasione di profitto a bene comune. Va però allargata la prospettiva. La rete dei movimenti contro le grandi opere e per la giustizia climatica (presente al Camp) ha portato a Roma lo scorso 23 marzo decine di migliaia di persone. Lo ha fatto senza sponde politiche (mentre andava manifestandosi il vergognoso voltafaccia dei 5 Stelle sul terreno delle grandi opere) e nell’oscuramento mediatico più completo. Da una parte ciò è stato sicuramente un segnale di forza dei comitati e delle vertenze locali che punteggiano il paese da nord a sud. Dall’altra, il successo di quella piazza è dovuto al riconoscimento della giustizia ambientale/climatica come cornice comune delle nostre lotte, non solo di quelle – penso ai NoTap o a NoTriv – rivolte contro opere che hanno direttamente a che fare con lo sfruttamento di fonti fossili. È tutto il sistema delle grandi opere che (mettendo da parte per un secondo i gravissimi effetti corruttivi e repressivi) drena una montagna di risorse pubbliche, indirizzandole verso un progetto di crescita economica reazionario ed estrattivista anziché verso una transizione ecologica nel segno della giustizia sociale.
I comitati territoriali hanno tantissimo da imparare dalle giovani generazioni che si battono per la giustizia climatica, il loro arrivo sulla scena deve essere una scossa per le nostre ambizioni (a volte) intrappolate dalla dimensione locale. Al tempo stesso i movimenti italiani contro le grandi opere hanno una cosa fondamentale da insegnare a chi, da marzo scorso, si mobilita: noi sappiamo indicare i nemici della giustizia climatica, i complici della devastazione ambientale qui ed ora, conosciamo non solo gli sviluppisti più reazionari, ma abbiamo provato sulla nostra pelle l’ipocrisia dei socialdemocratici che si dichiarano a favore del clima, salvo poi sostenere il Tav, le trivellazioni, i gasdotti e il Mose (che sarà, lo afferma la rivista Nature, messo in crisi dall’innalzamento del medio mare dovuto al global warming), che sostengono (per soldi, potere e patriottismo) multinazionali petrolifere come l’Eni: aziende “verdi” in patria e ferocemente neocoloniali nell’Africa subsahariana. Ed è chiaro che chi opera a partire da queste posizioni ha interesse a fare presa sulla composizione giovanile che sul clima si sta mobilitando. Si apre dunque un terreno di lotta politica che non può trovarci impreparati. C’è un’enorme energia in circolo, e questa energia potrà essere indirizzata verso una trasformazione radicale del nostro modello produttivo, culturale e sociale (che è l’unica condizione per arrivare in tempi brevi all’azzeramento delle emissioni), oppure potrà essere indirizzata verso una nuova fase di accumulazione capitalistica, tutta giocata sulla rincorsa alla sostenibilità. Un relatore presente al Climate Camp ha trovato una definizione lapidaria per descrivere gli effetti nefasti del business delle rinnovabili sviluppato su scala industriale, lo ha definito “fossil 2.0”.
Il nuovo governo, a parole, si è presentato come un sostenitore della lotta ai cambiamenti climatici, inserendo tra i punti programmatici l’espressione “Green New Deal”. Quanto, a tuo parere, questa esposizione aprirà a delle contraddizioni nelle future politiche italiane e quali spazi vedi per i movimenti su questo terreno?
Personalmente non mi aspetto nulla da questo governo. Certo l’inciampo di Salvini (che non darei per finito) mi ha procurato un momento di goduria tardo-estiva, ma dubito che una compagine di questo tipo produrrà risultati significativi, tanto meno quello di un nuovo patto verde. Del resto chi crede alla von der Leyen? Non scherziamo, sarà ancora tempo di lotta. Invece il Green New Deal merita di essere discusso nella sua importanza complessiva. Dal punto di vista teorico diremmo, prima di tutto, che non vi sono più le condizioni di un ritorno a ricette keynesiane, diremmo che lo stato nazione ha perso la sovranità necessaria (e che i sovranismi di tutti i colori sono progetti reazionari), che il salario è importante, ma è un’arma spuntata nell’epoca della messa a valore della vita e che un gentlemen’s agreement tra multinazionali finanziarizzate e mondo del lavoro è oggi quantomeno complesso, senza contare il fatto che, ancora troppo spesso, in tema di riconversione ecologica della produzione, padroni e sindacati sono sulla stessa lunghezza d’onda. Però se tornare al passato è impossibile, se il riformismo ha perso le proprie condizioni, una “categoria” come quella del New Deal necessita di venire re-inquadrata.
Se il New Deal si determinò, storicamente, come azione di trasferimento e controllo della lotta di classe nell’alveo dello sviluppo capitalista, oggi, l’ottenimento di un Green New Deal che (mi viene in mente la ricetta di un movimento statunitense) azzeri le emissioni di gas serra nell’arco di dieci anni, beh, sarebbe un risultato rivoluzionario. Rivoluzionario perché il capitalismo del petrolio-silicio non è politicamente disponibile a una ristrutturazione tanto radicale in così breve tempo. Quello a cui dobbiamo mirare è dunque un radical Green New Deal, ovvero un set di politiche i cui costi siano riversati su quei soggetti (politici, economici e sociali) che sono i maggiori responsabili della catastrofe in atto. Andrà tenuto conto, dunque, di tutta una serie di privilegi: di classe, di razza, di genere, di specie. Qualsiasi ricetta che ignori tale urgenza non è solo nemica, ma anche inefficace e foriera di ulteriore sofferenza. Abbiamo, per corroborare tale affermazione, a disposizione moltissimi studi che, prendendo come premessa il riconoscimento della responsabilità del capitalismo (e non della specie umana tout court) nell’aggravarsi del riscaldamento globale, dimostrano come i costi della crisi climatica non colpiscano tutt* allo stesso modo, ma vadano a gravare su quelle linee che già segnano le asimmetrie del neoliberismo: sono i più poveri, i neri o gli asiatici, gli abitanti del sud globale, gli indigeni e le donne indigene, la natura non umana a pagare il prezzo maggiore. Semplicemente, il capitalismo green non prevede più giustizia per questi soggetti.
Non basteranno i riformisti, né tantomeno basterà un rinnovato capitalismo all’insegna del verde, al massimo potranno aprire un’ulteriore ed irresponsabile fase di accumulazione. Dobbiamo rovesciare la prospettiva: un radical Green New Deal è un’arma nelle mani dei movimenti e, a meno di accelerazioni clamorose della catastrofe ecologica in atto, esso si darà in forma disorganica laddove i movimenti riusciranno a ottenere dei risultati sul terreno del blocco delle produzioni climalteranti e sulla redistribuzione verso l’alto dei costi del cambiamento climatico. Un radical Green New Deal o diventa parte del nostro progetto politico o non diventa affatto, la sua realizzazione (per quanto frammentaria e decentrata) segnerebbe un punto di vantaggio a favore del vivente nella sua lotta contro il capitale; finirebbe per minare (e non per consolidare) l’ordine estrattivo, segno il nostro tempo.
Foto di Eleonora Palma, tratte dalla pagina del Venice Climate Camp