di Thomas Fazi
Quando si parla di ambientalismo, “green economy”, transizione ecologica ecc. c’è un punto su cui ci si sofferma poco a mio avviso. Le imprese private per sopravvivere – cioè per generare profitto – devono necessariamente immettere continuamente nuovi prodotti sul mercato. L’obsolescenza dei prodotti – cioè la loro durata limitata nel tempo – è dunque una caratteristica intrinseca del capitalismo, con tutto ciò che questo comportata in termini di produzione di rifiuti e di consumo energetico.
Non a caso in tutti i settori ad alta tecnologia è ampiamente diffusa la pratica dell’obsolescenza programmata o pianificata, che consiste nel limitare volutamente la durata di un prodotto a un periodo prefissato (proprio in Italia Apple e Samsung sono state recentemente multate per aver rilasciato «aggiornamenti del firmware dei cellulari che hanno provocato gravi disfunzioni e ridotto in modo significativo le prestazioni, in tal modo accelerando il processo di sostituzione degli stessi»).
Ma si tratta di un comportamento perfettamente razionale – anzi, necessario – dal punto di vista della logica capitalistica. Infatti il termine “obsolescenza pianificata” è apparso per la prima volta nel 1932, quando il mediatore immobiliare Bernard London propose che fosse imposta alle imprese per legge, così da poter risollevare i consumi negli Stati Uniti durante la grande depressione.
Detta in parole semplici, se i cellulari – o i televisori, le lavatrici ecc. – durassero dieci anni o più (e ci limitassimo ad aggiornarli o a ripararli invece di sostituirli), difficilmente le imprese che operano in quei settori riuscirebbero a stare a galla. Hai voglia a dire che bisogna ridurre l’impatto ecologico dell’industria: la verità è che un’impresa veramente “verde” – cioè che puntasse a far durare i suoi prodotti nel tempo il più possibile – non riuscirebbe a stare sul mercato, poiché vorrebbe dire, di fatto, che punterebbe a vendere meno prodotti possibile.
Un’evidente controsenso per un’impresa privata.
Ma lo stesso discorso, sebbene declinato in altri termini, vale per quasi tutti i settori economici. Secondo l’ultimo rapporto del Club di Roma, se le “esternalità negative”, cioè i costi ambientali generati dalla loro attività, venissero inseriti nel calcolo dell’effettivo profitto delle imprese, quasi tutti i settori – dalla produzione di energia da carbone ai fertilizzanti chimici, dalle attività cementifere al comparto agricolo – risulterebbero in passivo.
Insomma, è inutile girarci intorno: un’economia realmente sostenibile dal punto di vista ambientale non è compatibile con la logica del profitto, cioè con la logica del capitalismo. Molti settori andrebbero semplicemente chiusi – tutta l’industria della plastica usa e getta per esempio -, mentre altri andrebbero rivoluzionati a tal punto da non essere più profittevoli (hi-tech ecc.). Ne consegue che un’economia realmente “verde” presuppone che sia lo Stato – l’unico attore che può permettersi di operare in base a logiche alternative a quella del profitto – a farsi direttamente carico di molte attività produttive. Così come presuppone una massiccia espansione dell’occupazione nel settore pubblico, se consideriamo la drastica riduzione dell’occupazione che si verificherebbe nel settore privato.
Non so se questo sia socialismo; mi pare più che altro buon senso