di Sam Pizzigati
I compensi degli alti dirigenti negli Stati Uniti possono aver finalmente superato il limite, da vergognosamente iniqui a intollerabilmente osceni. Nel 2018, dettaglia un nuovo rapporto dell’Institute for Policy Studies, cinquanta grandi imprese statunitensi hanno pagato i loro dirigenti di vertice più di mille volte lo stipendio andato ai loro lavoratori più tipici.
Che cosa possiamo fare riguardo a un’oscenità così cruda? Molto. Possiamo cominciare a determinare conseguenze ai rapporti di remunerazione dirigenti-dipendenti che oggi le società statunitensi quotate pubblicamente devono rivelare annualmente.
In Oregon, la città di Portland lo ha già fatto. Dal 2017 la maggior parte delle imprese che concludono affare a Portland ha dovuto pagare l’imposta cittadina sulle imprese a un’aliquota più elevata se tali società remunerano i loro dirigenti di vertici più di cento volte quanto riconoscono ai loro lavoratori medi, più tipici.
Legislatori statali hanno introdotto leggi simili in sette stati e, in precedenza questa settimana, l’aspirante alla Casa Bianca Bernie Sanders ha annunciato un piano di aumentare l’aliquota fiscale sul reddito di tutte le grandi imprese statunitensi che remunerano i loro dirigenti di vertice più di cinquanta volte lo stipendio dei loro lavoratori. Un po’ di contesto: mezzo secolo fa, poche imprese statunitensi remuneravano i loro alti dirigenti più di 25 volte quanto guadagnavano i loro lavoratori.
Il nuovo piano di Sanders si è attirato il prevedibile sdegno dei soliti sospetti. Un analista del Manhattan Institute di destra, ad esempio, ha dichiarato al Washington Post che un’imposta basata sul rapporto di remunerazione “potrebbe colpire enormemente industrie quali quelle del fast food e del commercio al dettaglio che naturalmente corrispondono stipendi bassi”.
Le imprese corrispondono “quello che il mercato chiede”, ha aggiunto Adam Michel della ugualmente conservatrice Heritage Foundation, “e prelevare nuove imposte da remunerazioni elevati non farà che rendere le aziende statunitensi meno in grado di competere globalmente, di ampliare la propria forza lavoro o di aumentare i salari dei loro dipendenti di base”.
Ma l’idea di tassare società con massimi schemi salariali con aliquote più elevate trova critici anche in circoli che solitamente spregiano il fondamentalismo del libero mercato degli studi di esperti conservatori. Questi critici – come Eric Toder, del Tax Policy Center dell’Urban Institute – considera l’imposta progressiva sul reddito quale l’antidoto più appropriato agli eccessi di remunerazione degli alti dirigenti.
Aliquote fiscali elevate su redditi elevati, segnalano gli analisti che condividono questa prospettiva, possono mitigare le remunerazioni eccessive dei dirigenti. I consigli d’amministrazione delle imprese non si prenderanno la briga di sborsare molti milioni di dirigenti se la maggior parte di tali milioni finirà semplicemente allo Zio Sam.
A metà del ventesimo secolo, con redditi superiori ai 400.000 dollari che subivano un’aliquota fiscale del 91 per cento, tali esborsi furono di certo effettivamente mitigati. I compensi ai vertici delle imprese si appiattirono nei decenni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale e a volte persino scemarono, come lamentò al Congresso il presidente della DuPont, Greenwalt, nel 1955. Il suo predecessore, tre decenni prima, testimoniò Greenwalt, guadagnava due volte quanto lui negli anni Cinquanta.
L’avvocato aziendale Michael Trotter si sarebbe laureato in questo mondo di compensi deflazionati ai dirigenti – dalla Harvard Law School – nei primi anni Sessanta. Le “aliquote fiscali marginali elevate sui redditi”, avrebbe ricordato anni dopo, “hanno tenuto in larga misura sotto controllo i compensi dei dirigenti”.
Ma nel ventesimo secolo quelle aliquote fiscali marginali elevate non hanno potuto essere mantenute né negli Stati Uniti, né in qualsiasi altro paese del mondo che imponesse tasse elevate su redditi elevati. Dunque quale lezione dovremmo ricavare da questa storia di tassare i ricchi? Semplicemente questa: la ridistribuzione, da sola – attraverso aliquote fiscali progressive – non sarà mai sufficiente a costruire e sostenere una società più equa. Dobbiamo anche concentrarci su come le società pre-distribuiscono la nostra ricchezza.
L’impulso alla ridistribuzione si basa sull’idea che possiamo usare aliquote fiscali graduate ripidamente per alleggerire la disuguaglianza generata dal nostro sistema. La ridistribuzione, in effetti, dà la disuguaglianza per economicamente scontata. Il nostro compito diviene ripulire il casino.
I promotori della pre-distribuzione sottolineano l’importanza di fare tutto il possibile per prevenire che le economie creino casini – profonde disuguaglianze – tanto per cominciare. Penalizzare le imprese che ricompensano i dirigenti di vertice in misura fenomenalmente superiore a quanto ricompensano i lavoratori fa progredire questa missione pre-distributiva su tre fronti chiave.
Primo: se preleviamo imposte severe su imprese con ampi rapporti di remunerazione dirigenti-dipendenti finiremo con minori dirigenti pagati eccessivamente – e migliori paghe per i lavoratori – con le imprese che si dimeneranno per evitare penali fiscali per il rapporto tra le remunerazioni, riducendo i divari di remunerazione.
Secondo: Remunerazioni vergognosamente elevate ai dirigenti delle imprese li incoraggiano a comportarsi vergognosamente e a fare ogni sorta di cose, dall’esternalizzare posti di lavoro a tagliare pensioni, che aumentano la disuguaglianza. Penalizzare le imprese che remunerano in eccesso i dirigenti modererebbe le strutture premianti delle imprese e ridurrebbero gli incentivi a cattivi comportamenti industriali da “tutto è permesso”.
Terzo: penalizzare le imprese che remunerano i dirigenti inconcepibilmente più che i lavoratori darebbe anche una mano a cooperative e aziende di proprietà dei lavorati, imprese che solitamente remunerano i loro dirigenti di vertici solo moderatamente più che i lavoratori. Negare contratti governativi alle imprese con ampli rapporti di remunerazione dirigenti-lavoratori – o negar loro l’accesso a sovvenzioni governative – darebbe un chiaro vantaggio sul mercato alle cooperative e alle imprese di proprietà dei lavoratori. Con tale sostegno queste imprese potrebbero diventare una fondamentale mattone di un’economia nuova e più equa.
Nulla in queste tesi a favore dei passi pre-distributivi per combatter la disuguaglianza ovvia alla necessità di attuare anche passi ridistributivi. Gli eccessi di reddito derivano da molte fonti diverse, non solo dalle politiche salariali delle imprese. Una grande quantità di eccessi deriva, ad esempio, dagli intrallazzi compiuti dai portafogli gonfi. Molti altri miliardi in eccesso provengono dal ricavare valore da beni di proprietà, quali affitti, dividendi e interessi. Ancora altri miliardi provengono da grandi fortune private ereditate. Abbiamo bisogno di imposte progressive per mettere un freno a tutti questi miliardi eccessivi.
La pre-distribuzione e la ridistribuzione insieme, in breve, costituiscono un potente uno-due contro la plutocrazia e la ricchezza concentrata. Ma la ridistribuzione da sola non può tagliarle. Quelli che accumulano vaste ricchezza saranno sempre restii a cederne una parte apprezzabile agli esattori fiscali. Picchieranno insistentemente contro le aliquote fiscali elevate fino a quando le abbatteranno, proprio come hanno fatto nei decenni finali del ventesimo secolo.
Come possiamo prevenire il collasso di sistemi fiscali futuri ripidamente progressivi? Solo facendo deragliare le imprese che sono divenute la locomotiva della disuguaglianza. Penali basate su rapporti di remunerazione altri passi pre-distributivi contribuirebbero a tale deragliamento. Ridurrebbero il numero – e il potere – dei nostri enormemente benestanti e, nel processo, rederebbero elevate imposte ridistributive sui redditi alti molto più politicamente sostenibili.
Tutti riconosciamo che economie sane hanno bisogno di investimenti in ricerca e sviluppo che passano sotto l’etichetta di “R&D”. E’ ora di riconoscere che economie sane hanno anche bisogno di “R&P”: “ri-“ e “pre-“distribuzione.
Sam Pizzigati è co-redattore di Inequality.org. Il suo libro più recente è: The Case for a Maximum Wage. Tra i suoi altri libri su reddito e ricchezza maldistribuiti: “The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph over Plutocracy that Created the American Middle Class, 1900-1970” e “Greed and Good:Understanding and Overcoming the Inequality that Limits Our Lives”. Seguitelo su @Too_Much_Online.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-key-to-distributing-wealth-more-equitably/
Originale: inequality.org
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2019 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.