E se Verdi per il finale del terzo atto di Nabucco avesse scritto un coro “normale”? Poteva succedere, i versi di Temistocle Solera non sono proprio indimenticabili, bastava che il Maestro componesse un coro come ne aveva già fatti – e come ne avrebbe poi fatti tanti – e non quella “cavolata”, come diceva Rossini, in cui tutti, dai tenori ai bassi, cantano la stessa nota. E comunque Nabucco è piaciuto molto al pubblico della Scala e di tutti i grandi teatri italiani a metà dell’Ottocento – ma a Parigi è stato un fiasco – non perché c’era il Va, pensiero, e infatti – al di là dei racconti di chi non c’era – in quegli spettacoli non ne hanno mai chiesto il bis, come facciamo invece noi moderni, che quando assistiamo a Nabucco, aspettiamo frementi quel coro e pretendiamo di riascoltarlo. Perché intanto Va, pensiero è diventato non solo quel capolavoro musicale che indubbiamente è, ma il coro più famoso del mondo, perché intanto è diventato una leggenda. E’ successo già durante la vita del Maestro, che peraltro – da comunicatore scaltro com’era – ha saputa alimentarla. Va, pensiero è la musica giusta arrivata al momento giusto. Come Imagine di John Lennon e altri pochissimi brani che condividono questa assoluta perfezione di essere la musica che il mondo stava aspettando.
Proviamo allora a parlare di Nabucco, immaginando che sul finale del terzo atto ci sia un coro “normale”. Che storia ci racconta quel gran teatrante di Verdi? E’ la storia del personaggio che dà il titolo all’opera, il re degli assiri che a scuola abbiamo imparato a conoscere come Nabucodonosor II, la storia di un re potente e spietato che, a causa della sua sfrenata ambizione, smarrisce la ragione e per questo finisce per perdere ciò a cui tiene di più, ossia il potere, perché nella storia c’è un altro personaggio, sua figlia Abigaille, che è ancora più ambiziosa e spietata di lui; ma alla fine, proprio per combattere questa nuova regina, ossia quello che lui era prima, Nabucco rinsavisce, torna a combattere e riacquista il potere perduto. Mentre la regina cattiva muore. Questa è in sostanza la storia di Nabucco, almeno la storia che interessa a Verdi, che sa raccontare come pochi altri il potere. Poi naturalmente c’è dell’altro, perché il pubblico non paga il biglietto per vedere solo questo: va a teatro per vedere la storia d’amore tra il buono e la bella, storia che naturalmente deve essere contrastata, in questo caso dalla cattiva, che è naturalmente Abigaille: è già pronta, non occorre inventarla. Quindi la sua morte risolve anche questo problema e permette ai due eroi di vivere il proprio amore.
Perché – ed è questo un altro punto che occorre sottolineare – Nabucco, al di là di quello che spesso succede nell’opera, finisce bene: l’unica che muore è la regina cattiva, che peraltro non è neppure la vera figlia del re, ma solo una schiava arrivata non si sa come in quel posto prestigioso. Tutti gli altri vivono felici e contenti. Certo a Babilonia non c’è un cambio di regime, caduta Abigaille non nasce la repubblica, rimane la monarchia autocratica, ma visto che il re è diventato buono – almeno si spera sia così – dovrebbe essere migliore di quella che c’era prima. E anche a Gerusalemme continua a prosperare la teocrazia oscurantista e fanatica di Zaccaria. Solo che si suppone che i due regimi – almeno per qualche anno – rimarranno in pace, in nome dell’unico dio che ora le élite dei due paesi congiuntamente venerano, magari per attaccare insieme qualche altro popolo, che si rifiuta di riconoscere quel dio. Evidentemente non è questo finale in cui si celebra l’immenso Jeovah che interessa all’agnostico – o forse addirittura ateo – Verdi.
Il giovane di Busseto – non ha ancora trent’anni quando debutta Nabucco – oltre all’ambizione di diventare un gran compositore, anche se certamente non poteva immaginare che sarebbe diventato il Giuseppe Verdi delle mille lire, attraverso una storia piena di passione, in cui la musica accende gli animi, ci dice che il potere è una bestia terribile, che gli uomini – e le donne – non riescono a domare. E ci mette in guardia, perché il potere è qualcosa a cui anche noi aspiriamo. Certo nessuno di noi diventerà mai re di Babilonia, ma molti di noi hanno esercitato – o ancora esercitano – il proprio potere, in famiglia, con i colleghi di lavoro, con gli studenti, semplicemente con quelli che vediamo essere più deboli di noi. E tutti noi possiamo in un attimo diventare Nabucco, possiamo impazzire per quel potere, possiamo usarlo nel peggiore dei modi possibili, possiamo causare dolore, financo lutti, perché siamo inebriati di quel potere, ci piace quando gli altri ci adulano, quando ci chiedono protezione, quando invocano la nostra pietà. E facciamo di tutto per conservarlo, mettiamo anche a rischio noi stessi e le persone a cui diciamo di voler bene. E sempre incombe su di noi un’Abigaille, pronta a essere perfino peggiore di noi.

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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