Massimo Civitani

Gli studi scientifici più recenti, come quello del Climate Accountability Institute, confermano che i responsabili del cambiamento climatico e della catastrofe ambientale all’orizzonte sono un pugno di grandi aziende. C’è un problema di sistema, il capitalismo, e non di comportamenti individuali delle persone comuni.


Lo scorso 9 ottobre è stato pubblicato (e rigirato da diversi quotidiani tra i quali il britannico Guardian e l’italiano Sole 24 Ore) un report del Climate Accountability Institute –un istituto di ricerca indipendente – in cui si evidenzia che il 35% delle emissioni di gas serra nell’atmosfera dal 1965 al 2017 sono state prodotte da sole venti grandi aziende del petrolchimico di diversi i paesi con in testa Usa (con Chevron e ExxonMobile) e Russia (con Gazprom) ma anche Gran Bretagna, Cina, aziende mediorientali e di paesi del Sud del mondo con imponenti apparati industriali come India e Brasile. Altro dato interessante che emerge dallo studio dell’istituto di ricerca è che la metà di tutte le emissioni dal 1751 a oggi sono state immesse nell’atmosfera solo negli ultimi 30 anni.

Il report, partendo dalla teoria per cui tali emissioni hanno avuto ed hanno tutt’oggi un reale impatto sul cambio climatico, arriva a concludere che tali aziende abbiano gravi responsabilità morali, finanziarie e legali per la crisi climatica, precisando come già dalla metà degli anni ’60 politici e manager aziendali erano ampiamente a conoscenza dell’impatto delle emissioni sull’ambiente.

Da una parte è evidente che le grandi aziende, per usare un eufemismo, non brillino per accortezza e moralità nei confronti del pianeta e di tutti gli individui che vi abitano, dall’altra però questa ricerca ci fa notare una cosa che invece è forse meno evidente a tutti, ovvero quale modalità sia la più corretta per affrontare il problema. Quando si parla di difesa dell’ambiente, infatti, si tende spesso a enfatizzare lo sforzo e le responsabilità personali, del “comune cittadino”, piuttosto che fare un ragionamento più di largo respiro, complessivo, in una sola parola: politico.

Ci si potrebbe chiedere quale effettiva controtendenza potrebbe mai innescare lo sforzo anche di milioni di famiglie sul riciclo, l’utilizzo limitato di macchine a benzina e altri accorgimenti di questo genere, se poi non si toccano le grandi aziende multinazionali e la loro produzione (e in definitiva i loro profitti), se non si pone una riflessione politica. La crisi climatica, per le sue stesse proporzioni globali, non è un problema che può essere affrontato in un modo tanto superficiale: va messo in discussione tutto il sistema del libero mercato basato sul profitto, perché nessuna misura parziale, specifica è riuscita né riuscirà a risolvere la questione. È d’altronde evidente a tutti che il capitalismo, basato su un’espansione illimitata della produzione e del consumo, non solo sia dannoso, ma materialmente incompatibile con la vita su un pianeta. Per definizione, la Terra è un sistema limitato nelle sue risorse e, se anche si sviluppasse molto velocemente il mercato sulle fonti di energia alternativa, non esiste che grandi aziende in continua lotta fra di loro per mangiarsi fette di mercato sempre più grandi sottopongano i propri bilanci a considerazioni di ordine morale riguardo il clima. Le attuali leggi di funzionamento dell’economia non glielo permettono, se intendono rimanere sul mercato.

Non è nemmeno l’utilizzo di questo o quel combustibile fossile, o la riconversione di un ramo di produzione particolarmente dannoso per l’ambiente a poter eliminare il problema. Se è il sistema che non può fare a meno di mettere il profitto al di sopra di ogni questione, allora è il sistema nel suo complesso che va messo in questione, rimpiazzato da un altro sistema sostenibile.

E allora che si dica, chiaramente e senza girarci attorno: il capitalismo, e non “l’essere umano”, è responsabile della crisi climatica, dell’innalzamento dei mari, delle catastrofi ecologiche e dell’aumento della temperatura terrestre. Sono i capitalisti che devono pagare e il sistema che va cambiato alle sue fondamenta per non compromettere ulteriormente la possibilità di tutti di vivere su un pianeta sano.

L’unica via d’uscita dalla catastrofe che ci minaccia è prendere in mano il presente e il futuro attraverso una pianificazione razionale dell’economia mondiale. E questo può essere possibile solo se la pianificazione dell’economia è nelle mani dell’unica classe sociale che, a causa della sua situazione oggettiva e dei suoi interessi materiali, ha interesse ad evitare la catastrofe: la classe operaia

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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