Parallelamente al processo di privatizzazione dei pubblici servizi si è trasformato il rapporto di pubblico impiego e con le esternalizzazioni in campo ci sono lavoratori più divisi e con meno diritti.

Alla fine del 1800 emerse la necessità di disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, fino ad allora avente natura puramente privatistica, in maniera differenziata rispetto al privato. Se alcune motivazioni erano ragionevoli (garantire al dipendente pubblico, figura di servitore dello Stato e garante dell’imparzialità della pubblica amministrazione una certa indipendenza dai politici), altre erano completamente negative (evitare la sindacalizzazione, la politicizzazione, il diritto di sciopero ecc). Per cui il rapporto di lavoro, sia collettivo che individuale veniva regolato esclusivamente dalla legge e da atti amministrativi, escludendo ogni forma di contrattazione. E anche il contenzioso fra dipendenti e PA venne demandato alla giustizia amministrativa e non a quella civile. La Costituzione repubblicana confermò i principi di indipendenza del dipendente pubblico. L’art. 54 prevede che i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, quindi sia dipendenti che politici, debbano “adempierle con disciplina ed onore”; l’art. 97 dispone che gli uffici pubblici siano organizzati in base alle leggi e che all’impiego pubblico si acceda mediante concorso; l’articolo 98 che “i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione”. Tuttavia la Carta, affermando il diritto di tutti i lavoratori alla sindacalizzazione e allo sciopero, senza dubbio ha indicato la strada di una equiparazione fra lavoratori dipendenti privati e pubblici per quanto concerne i diritti fondamentali. Ciò nonostante, lo “Statuto degli impiegato civile dello Stato” del 1957, ancora non completamente abrogato, che disciplinò in maniera più organica e dettagliata la materia, era ancora ispirato ai principi in auge prima della Costituzione repubblicana: nel rapporto speciale che lega il dipendente alla PA, non ci sono spazi per i contratti collettivi e individuali. Questa normativa specifica e il fatto che i pubblici dipendenti non producono plusvalore e non hanno da lottare direttamente contro il capitale che li sfrutta, ha favorito che essi si siano caratterizzarti come un corpo separato dal resto dei lavoratori, tutt’al più propenso a rivendicazioni corporative e non a una coscienza di classe. Per questo sono stati per tanti anni terreno di caccia di sindacati estremamente corporativi. Bisogna aspettare il ‘68 e gli anni settanta affinché, sulla scia delle conquiste ottenute dai dipendenti del settore privato, si affermasse il principio che il pubblico dipendente è un cittadino che, pur sottomesso alla PA con obbligo di fedeltà, non può essere privato dei diritti fondamentali. Rimaneva tuttavia in auge un ordinamento particolare, non potendosi applicare automaticamente la disciplina del lavoro privato. Inoltre si avviò un processo di proletarizzazione e si aprì uno spazio perché impiegati, insegnanti, operai addetti ai servizi pubblici potessero diventare alleati della classe operaia. Nel 1983 venne varata la Legge quadro sul pubblico impiego che costituì un ulteriore passo verso il riavvicinamento fra lavoro pubblico e privato e per la prima volta introdusse la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, pur mantenendo per certe casistiche la riserva di legge. Per esempio, gli stessi contratti collettivi non avevano efficacia immediata ma dovevano essere recepiti con provvedimenti legislativi. Dagli anni ‘90 il processo di unificazione dei diritti subisce una torsione. Sull’onda, questa volta avversa, delle culture e delle politiche liberiste, favorite dall’implosione dei sistemi del cosiddetto socialismo reale, si afferma la logica efficientista del New Public Management e la PA diviene una strana sorta di impresa, in cui vengono introdotti i principi di efficienza propri del comparto privato. Ecco affacciarsi le logiche competitive con il privato (la sanità, purtroppo ne è l’esempio più disastroso, ma anche con la previdenza e l’autonomia scolastica non si scherza) l’abbandono del regime di monopolio pubblico dei servizi essenziali, anche in barba all’esito di un importante quanto stuprato referendum. Parallelamente si fa di tutto, anche manipolando la leva finanziaria, per costringere a privatizzare i servizi. La stessa introduzione del principio di sussidiarietà, mutuato dalla dottrina sociale della Chiesa, vede lo Stato arretrare nell’assicurare i diritti di tutti a vantaggio sia delle imprese che delle organizzazioni caritatevoli. Ma anche in quel che resta di pubblico si proclama l’orientamento ai “risultati”. Visto che nella PA non esiste il profitto quale parametro per misurare i risultati, si esorta l’adozione di bislacchi indicatori quantitativi di efficienza frutto dell’infinita fantasia umana ma che tutto misurano tranne che la quantità e qualità dei servizi prestati. Di conseguenza, spesso, la produzione di maggiore, inutile, carta scritta viene premiata anziché biasimata. Proclamandosi la logica di premiare il risultato, questi indicatori, chiaramente costruibili ad hoc per giustificare a posteriori decisioni già maturate aprioristicamente, saranno anche alla base della determinazione di una componente della retribuzione. Nella sostanza più che l’efficienza si premierà la fedeltà al dirigente di turno, la simpatia soggettiva e soprattutto l’attitudine al servilismo. Una parte del salario viene in sostanza rimessa la buon cuore del dirigente. Il quale a sua volta dovrà ingraziarsi l’amministratore di turno, visto che, sempre scimmiottando l’impresa privata, ai funzionari apicali che avevano funzioni di garanzia vengono ora affidate le posizioni direttive dei vari servizi e uffici sulla base del criterio anglosassone dello spoil system e divengono quindi uno strumento degli amministratori e dei governanti di turno. Un esempio calzante del degrado che ne consegue si può rintracciare nella sanità. Il Servizio sanitario nazionale perde gran parte dei connotati introdotti con la riforma del 1978: universalità, gratuità, prevenzione ecc. Le Usl vengono aziendalizzate e diventano Asl, i rappresentanti elettivi vengono estromessi e rimpiazzati dai manager. I tagli alla sanità pubblica operati dalle Regioni in virtù della riduzione di fondi da parte statale, hanno portato alla chiusura di ospedali, presidi sanitari inficiando anche la prevenzione nella quale erano state riposte numerose speranze per migliorare la qualità delle nostre vite. Non a caso l’aspettativa di vita dopo lustri ha invertito la tendenza. Le stesse organizzazioni sindacali confederali, sottomesse alla cultura dominante, accolgono, nei contratti sottoscritti, la sostituzione dei diritti per tutti con il welfare aziendale, cioè diritti subordinati alle performance delle imprese. Si verifica cioè la prova provata che la logica privatistica nella PA conduce a distorsioni che ne contraddicono la finalità e può portare ad esiti aberranti. Ad esempio, coerentemente con tale logica il cittadino si trasforma in cliente come se fosse per lui possibile scegliere se servirsi o meno dei questa o quella “impresa-PA”, esito raggiunto molti decenni dopo da Bersani con quelle che a quel punto erano diventate liberalizzazioni inevitabili. Anche il comparto della previdenza subisce un attacco e una torsione privatistica. Supportati da conti taroccati, si taglia la previdenza pubblica e si introducono i fondi pensione e la previdenza integrativa. Anche in questo caso le maggiori organizzazioni sindacali, in evidente conflitto di interessi, mentre si apprestano a una debole difesa d’ufficio del welfare universale, partecipano attivamente ai fondi pensione e alla sanità privata. Questa difesa di ufficio non alimenta coscienze e conoscenze, si avvale di rituali stanchi e ben poca convinzione, mentre nei contratti vengono accordati spazi sempre maggiori alla sanità in convenzione, magari sotto l’egida della Coop o di fondi cogestiti tra imprese e sindacato. Il risultato è che si vive meno ma si va in pensione, nonostante la quota 100, sempre più tardi, ormai alle soglie dei 70 anni. Non è facile difendere la previdenza pubblica quando si è accettato lo scambio diseguale tra salario e servizi o sposando la tesi di dirottare il Tfr verso un fondo previdenziale che alla fine non porta benefici maggiori della buonuscita erogata dall’Inps. Nei comuni, nelle provincie e nelle regioni la cultura aziendalistica si accompagna all’elezione diretta di sindaci, presidenti delle province e governatori delle regioni, che assumono sostanzialmente pieni poteri, mentre si indeboliscono i controlli sul loro operato. Franco Bassanini fu il principale apripista di questo processo che vedrà successivamente impegnati governi di centrodestra e di centrosinistra in una sorta di riforma incessante della PA. Le tappe successive più rilevanti sono l’esclusione di discipline del lavoro applicabili ai soli dipendenti pubblici, salva la consueta riserva di legge (1997), e soprattutto, nel 2001, il Testo unico del Pubblico Impiego, poi modificato da Renato Brunetta e successivamente da Marianna Madia. A determinare l’andamento dei servizi alla collettività non ci sono solo gli enti pubblici. Sono state introdotte le cosiddette autorità pubbliche indipendenti, di nuovo sul modello anglosassone, agenzie la cui istituzione è stata motivata dalla necessità di regolare la gestione dei servizi e tutelare i cittadini. Esse, costituite da professionalità di tendenza, hanno ampia autonomia, sono formalmente sganciati dal governo e sono designate dal Parlamento, quali l’Antitrust, la Consob, le agenzie pubbliche che operano nel campo della sanità, della cultura, della previdenza. Ci sono infine le imprese pubbliche o a partecipazione statale, quali le Ferrovie, le Poste, ecc. e altre minori che gestiscono i servizi a rete o di mobilità locali (acquedotti, trasporti, infrastrutture) e che sempre più vengono gestiti con criteri privatistici. Ma la costante dei processi di cambiamento è la privatizzazione dei servizi e anche, per quelli rimasti di pertinenza del pubblico, la loro esternalizzazione, favorita dai tagli alla spesa pubblica che hanno indotto le amministrazioni ad avvalersi, spesso tramite cooperative, di prestazioni di lavoratori sfruttati e precari, sottoposti al rischio di perdita del posto di lavoro a ogni nuova gara di affidamento. Studi rigorosi hanno dimostrato che a parità di trattamento dei dipendenti, l’esternalizzazione è più costosa della gestione diretta perché aggiunge ai costi normali dei servizi quelli di intermediazione fra PA e impresa (costi per effettuare le gare, per controllare la gestione, per seguire i rapporti amministrativi, per movimentare i pagamenti ecc.). Ma la pulsione del capitale è di sottoporre alla sua voracità ogni aspetto della vita. E in tempi di ordoliberismo lo Stato ubbidisce. Così la stessa nozione di pubblico è stata stravolta: pubblico dovrebbe essere un servizio a gestione diretta che riconosce prestazioni, salari e contratti dignitosi. Al contrario, soprattutto ove governa il Pd, pubblico è ritenuto anche il servizio in convenzione o in appalto dimenticando le condizioni di vita e contrattuali della forza-lavoro. Le privatizzazioni, le esternalizzazione dei servizi, la proliferazione di contratti hanno giocato un ruolo determinante anche nel dividere la forza-lavoro. Per mitigare le conseguenze di questa tendenza, da circa 20 anni il sindacato di base sostiene la necessità di intervenire direttamente negli appalti e nelle società partecipate, rivendicare ad uguale lavoro il medesimo salario e i medesimi diritti, impostare le gare di affidamento non sul ribasso economico, che si traduce in un continuo peggioramento della qualità dei servizi, delle retribuzioni e dei ritmi di lavoro, ma sulla qualità e introducendo clausole sociali per la salvaguardia dei posti di lavoro che siano efficaci e non facilmente aggirabili. Purtroppo poco o niente è stato fatto in questa direzione. Mentre la situazione oggettiva parrebbe favorire una unificazione degli interessi dei lavoratori e la costruzione di un fronte comune fra dipendenti pubblici e privati, i lavoratori sono sempre più frammentati e divisi. Quelli pubblici sono anch’essi colpiti dalla logica del risparmio: con una serie di decreti-legge e finanziarie è stato bloccato il turn-over, bloccato l’importo dei buoni pasto, fermo a una misura inadeguata a coprire il costo del pranzo, congelato per anni il fondo della produttività, posti in essere una serie infinita di vincoli alla contrattazione decentrata. In assenza di un sindacato conflittuale la frustrazione si traduce in una logica di chiusura, dove ognuno si sente più legato all’ufficio particolare che all’ente di appartenenza. Le Rsu, già succubi delle centrali sindacali, sono state private di numerose materie oggetto di contrattazione e si sono adeguate a questo loro peso irrisorio, limitandosi a contrattare la divisione, spesso iniqua, degli spiccioli, senza entrare nel merito delle questioni normative e rinunciando a lavorare per l’unificazione delle rivendicazioni dei lavoratori pubblici con quelle degli esternalizzati. Non mancano tuttavia alcuni tentativi di invertire la tendenza per uscire da questa avvilente situazione. Nel comune di Pisa, per esempio, si sta costruendo una vertenza sull’appalto delle pulizie, aggiudicate con una gara da cui è risultato un risparmio di spesa del 20% in meno di spesa, che le cooperative hanno potuto offrire aumentando i carichi di lavoro e lo sfruttamento delle lavoratrici part-time. A peggiorare le cose gli uffici avevano redatto un capitolato di gara che prevedeva meno prestazioni, e quindi ambienti di lavoro dei dipendenti pubblici più sporchi e malsani. Riuscire a mettere insieme i sindacati dei lavoratori pubblici con quelli delle ditte affidatarie dà luogo a una prassi conflittuale che pone sul tavolo anche le problematiche degli appalti. Su questo tema il sindacalismo, sia quello confederale che quello di base, è abbastanza inerte. Anche nel campo della sanità le istanze dei lavoratori del Servizio Sanitario Nazionale e di quelli delle imprese responsabili dei servizi per gli ospedali sono strettamente connesse. Il Ministro Speranza ha promesso di non tagliare i fondi, ma basterà la conferma dei fondi previsti a mantenere il livello dei servizi e a garantire ai lavoratori condizioni ragionevoli? È lecito dubitarne: sono stati soppressi ospedali nei territori più disagiati, abbattuto il numero di posti letto, falcidiati i servizi territoriali, si è risparmiato perfino sulle pulizie quando la salute e la sicurezza dei pazienti e della forza-lavoro dovrebbe essere un elemento cardine su cui costruire i servizi. Veniamo infine alla previdenza. Anche in questo campo l’equiparazione fra dipendenti pubblici e privati avviene al ribasso: ne è un caso la previdenza integrativa. Nel corso degli anni sono stati costruiti meccanismi, introdotti perfino dalle leggi finanziarie, per indurre al ricorso ai fondi previdenziali. I risultati concreti, che parlano di gravi perdite da parte dei lavoratori dovute alle varie crisi della finanza mondiale, smentiscono le proclamazioni ideologiche dominanti. E anche su questo le organizzazioni sindacali dovrebbero prendere le distanze da queste ideologie ed entrare nel merito delle questioni, cercando quantomeno di erigere qualche barriera a tutela dei diritti dei lavoratori. Le forze politiche e i sindacati di classe dovrebbero rileggere criticamente il pubblico impiego e le sue trasformazioni, entrare nel merito della performance, dei processi di riorganizzazione, nell’ottica di unire istanze della forza-lavoro pubblica ed esternalizzata. Occorre provare a raccogliere questa sfida se non vogliamo finire nella residualità e ai margini del mondo del lavoro.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/dipendenti-pubblici-di-uno-stato-privatizzato

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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