Se il governo non riuscisse a dirimere la questione della dismissione unilaterale del contratto su Ilva da parte di ArcelorMittal, sarebbe anche giusto che “ballasse” sul vulcano e che la maggioranza si facesse qualche domanda per capire se è in grado di gestire emergenze nazionali come questa, sul piano del lavoro e dell’economia che lo riguarda, ma se soprattutto ha una visione di insieme dello stato occupazionale in questo Paese.
Le carte si scoprono velocemente: 5.000 esuberi sembra la richiesta centrale di un gruppo che vuole ottenere profitti maggiori da un comparto produttivo che è in declino in quanto a domanda, che pretende uno scudo legislativo per evitare denunce per le bonifiche ambientali comunque necessarie e che, terzo punto non meno importante, vuole poter utilizzare l’altoforno numero 2, quello posto sotto sequestro dalla magistratura.
Sembra che la visione anche politica della battaglia mondiale sull’acciaio, ArcelorMittal la abbia. Ha capito che se vuole rendere redditizio il sito di Taranto e tutto l’indotto che va da Genova a Novi Ligure, non può fare altro se non forzare tempi e mano al governo per cambiare le clausole contrattuali precedenti e ottenere quelle garanzie di tutela della produzione che fino ad oggi sono state garantite a singhiozzo.
Questo il punto di vista dei padroni: la spregiudicatezza con cui si trattano i lavoratori non va vissuta e giudicata con i metri della moralità. Il capitalismo è di per sé immorale in quanto non rispetta nessun diritto singolare e nemmeno collettivo e rivolge ogni sua funzione e funzionamento al solo scopo che persegue per potersi perpetuare e mantenere quanto meno vivido: generare ad ogni costo quel profitto che consenta al tale padrone, al tale sito produttivo di rimanere sul mercato e di essere concorrenziale.
Il comparto dell’acciaio oggi non lo è più, anche se in nazioni come la Francia e la Germania si registra un certo rilancio del settore e i governi provvedono a tutelarlo quanto basta per evitare recessioni economiche anche su quel versante.
Il governo italiano ha fatto bene a respingere “senza se e senza ma” alla richiesta dei 5.000 esuberi come conditio sine qua non di ArcerlorMittal per non abbandonare lo stabilimento e rimettere il tutto all’amministrazione commissariale straordinaria.
Stando ai dati che si possono trarre dai bilanci consolidati della multinazionale in questione, nel 2017 era prima per fatturato e dipendenti in tutta Europa nel ramo siderurgico e di produzione di materiali: 60.794 miliardi di euro prodotti da 197.000 operai (con un decremento di impiego della forza lavoro pari al 1% rispetto al 2016). Uscendo dai confini della UE, ArcelorMittal, stando alle fonti reperibili in rete (“Il Sole 24 Ore” dello scorso mese di febbraio), avrebbe ad oggi 209.000 addetti nelle proprie industrie che produrrebbero per i padroni un fatturato pari a 76,03 miliardi di dollari statunitensi.
Il che significa in euro qualcosa come 69 miliardi all’anno (le cifre si riferiscono al 2018). Stando a quanto sappiamo, ogni volta che sorge il sole, a Taranto ArcerloMittal perde 2 milioni e mezzo di euro visto il calo della produzione. Moltiplicati per 365 giorni, fanno 912 milioni e mezzo di fatturato in meno. Si tratta di una bella cifra, pur tuttavia lontana da intaccare un patrimonio solidamente attestato su quasi 80 miliardi di dollari americani…
Non si può dunque affermare, alla luce dei numeri, che il sito di Taranto sia un punto di crollo rovinoso per Arcerlor Mittal. Ma indubbiamente, se faticosamente ci mettiamo nei panni di un capitalista, ridurre i propri profitti di quasi un miliardo all’anno non sono certo bruscolini. Ne consegue, a cascata, un ridimensionamento del valore aziendale complessivo e quindi si intacca la disposizione sul mercato, la concorrenzialità che può generare e alimentare.
Ma dal punto di vista nostro, quello del lavoro, quello operaio, una soluzione esiste e può salvare capra (i padroni) e cavoli (gli operai). Servono investimenti governativi, di Stato, un impegno mediante la Cassa deposito e prestiti a gestire nazionalmente l’Ilva di Taranto, a recuperarla al pubblico e nazionalizzarla.
La “partecipazione statale” un tempo è stata un compromesso utile di salvataggio di numerose imprese proprio del settore siderurgico. Ne ha trattato ampiamente uno dei padri della Legge 300 (lo “Statuto dei lavoratori“), Gino Giugni nel suo librp “Le imprese a partecipazione statale” (Napoli, Jovene, 1972) e ad oggi rimangono (anche con la forma della “golden share“) uno strumento per intervenire in situazioni di crisi come quella dell’Ilva di Taranto.
Ma il punto dirimente di tutta questa vicenda è una programmazione economica che rimetta lo Stato al centro della gestione economica dei grandi settori produttivi del Paese e, quindi, per il Paese stesso. Senza questa predisposizione alla rivalutazione, del tutto costituzionale, del ruolo statale nella grande economia nazionale, non si può intervenire seriamente né nel salvataggio dell’Ilva né tanto meno in situazioni di manifesta crisi come Whirlpoll, né alla Perugina e tanto meno in stabilire una connessione tra tutte queste dinamiche purtroppo discendenti e depauperanti per l’intero cosiddetto “sistema-Italia“.
Va da sé che ipotizzare un piano di nazionalizzazioni delle industrie in crisi vorrebbe dire avere a monte un governo veramente di sinistra, quindi capace di scontrarsi con gli alti vertici di Bruxelles proponendo una alternativa al liberismo invasivo che tanti danni ha prodotto e produce e molti Stati ha fatto fallire sotto il peso di debiti accumulati per sopperire a cattive gestioni di larghi settori dell’economia privata.
Siccome ci troviamo innanzi ad un esecutivo di compromessi, tra cui quelli che derivano da una visione triplice di un liberismo un po’ temperato per i Cinquestelle (decrescita felice…), gestibile per il PD e un po’ più impetuoso (Italia Viva), privo quindi di qualunque tendenza anche pallidamente socialdemocratica (visto il ruolo irrilevante di LeU in questa compagine…), è evidente che si tenterà prima di forzare la mano con i padroni di ArcerlorMittal e, in subordine, preparare l’arrivo di una nuova azienda che escluda quanto meno la cassa integrazione per 5.000 operai e accetti condizioni più miti.
Ci si affiderà sempre e comunque ad un privato, nonostante lo Stato possa sostenere questa incombenza e lo debba fare anche moralmente, rispondendo a princìpi costituzionali secondo cui “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.“. Così dice la Carta. Così raramente è stato fatto nella storia italiana degli ultimi trent’anni…