Il 2020, anno di elezioni presidenziali, si avvicina e il Partito Democratico si appresta ad affrontarlo in una situazione particolarmente incerta e complessa, caratterizzata dal secondo tentativo di impeachment nei confronti del Presidente Trump per la vicenda denominata Ukraniangate, dopo quello fallito quest’estate per il c.d. Russiangate, e da una pletora di candidature, mai forse nella storia così numerose e che ancora non tendono a semplificarsi.
Sono ben 18 al momento i candidati in lizza, una buona parte dei quali si sono recentemente affrontanti in un confronto televisivo, già il quinto nel corso del 2019, che si è tenuto ad Atlanta il 17 novembre, ospitato dal canale televisivo WNBC. Ma la notizia più sensazionale, e che sicuramente introduce una svolta nella vicenda, è rappresentata dall’entrata in campo del multimiliardario newyorkese Michael Bloomberg, 77 anni, che lo scorso 24 novembre ha ufficializzato la sua candidatura, già nell’aria da qualche settimana.
Bloomberg diventa così l’ultimo dei candidati attualmente in lizza, ma sicuramente la sua candidatura acquista un peso ed un significato ben diversi. A capo di un impero imprenditoriale nel settore dei media e della finanza viene ricordato a livello politico per la sua esperienza di ben 12 lunghi anni come Sindaco di New York, tra il 2001 ed il 2013, eletto tra le fila del Partito Repubblicano. Nel corso di quell’esperienza Bloomberg non si è certamente distinto per aver adottato delle politiche progressiste, anzi, al contrario, per aver continuato la linea del suo predecessore repubblicano Rudolph Giuliani nella repressione poliziesca a danno dei quartieri popolari e abitati soprattutto da cittadini di etnia afroamericana e ispanica. Non meraviglia quindi che i media mainstream e soprattutto il Wall Street Journal, portavoce del capitale finanziario dominante, abbiano accolto molto positivamente la notizia e gli abbiano già dato un grande risalto mediatico.
Fino ad oggi la situazione delle candidature, al netto dell’entrata di Bloomberg, ha evidenziato nei sondaggi una spaccatura del fronte democratico con una polarizzazione attorno a 3 nomi principali: da una parte abbiamo l’ex Vice Presidente dell’era Obama, Joseph R. Biden Jr., che ultimamente si sarebbe attestata intorno al 27% delle preferenze, e che deve fronteggiare le due candidature della sinistra del partito, in primis Elizabeth Warren che starebbe intorno al 22% e poi Bernie Sanders dato al 18%.
Joe Biden rappresenta notoriamente la componente centrista e più legata all’establishment tradizionale del partito. Vi sono poi due candidature che si potrebbero considerare “outsider”, quella del giovane Pete Buttigieg, dato all’8% dei consensi, e quella di Kamala Harris, al 4%. Per le posizioni assunte sui vari temi in discussione questi ultimi due candidati possono essere definiti anche loro di “centro”. Tutte le altre candidature si attestano al di sotto del 3% e dovrebbero quindi essere destinate a andare ben presto fuori gioco. Ma a volte queste candidature assumono un ruolo di disturbo rispetto ai candidati principali.
In ogni caso è fuor di dubbio che il fronte democratico è ad oggi caratterizzato da una spaccatura che si sta sempre di più polarizzando su due schieramenti contrapposti: progressisti da una parte e centristi e conservatori (o moderati) dall’altra.
Le principali divisioni vertono su temi importanti quali, ad esempio, l’assistenza sanitaria, la politica ambientale e l’interventismo militare all’estero. In particolare, il tema dell’assistenza sanitaria suscita sempre un forte scontro tra le due componenti ed è stato portato al centro del dibattito principalmente da Bernie Sanders, il quale, questa volta, più ancora che nel 2016, ha inteso farne uno dei suoi principali cavalli di battaglia, proponendo una radicale riforma per adottare un sistema di assistenza sanitaria pubblica e universale come nella stragrande maggioranza dei paesi europei e di quelli occidentali [1].
Un recente intervento attribuito a Joe Biden ha suscitato controversia, avendo sostenuto che la maggioranza degli americani è soddisfatta dell’attuale sistema assicurativo sanitario, che come noto è imperniato sul ruolo centrale delle compagnie assicurative private, un settore che peraltro negli ultimi decenni ha subito una sempre maggiore concentrazione in pochi grandi colossi assicurativi [2]. Anche quando era in vigore il sistema denominato Obamacare, adottato durante l’amministrazione Obama di cui Biden era Vice Presidente, i sussidi federali o statali, limitati soltanto alle fasce meno abbienti, passavano sempre attraverso le assicurazioni private. L’amministrazione Trump ha nel frattempo abbandonato quel sistema e promette di adottare il c.d. Medicareche venne lanciato ai tempi della presidenza di Reagan.
Un altro tema molto dibattuto è quello della politica fiscale, in questo caso la proposta più radicale è portata avanti da Elizabeth Warren, che propone una tassazione supplementare del 2% su tutti i redditi che eccedono una certa soglia e che viene vista come misura per contrastare una disuguaglianza costantemente in aumento secondo tutti i dati e che sta diventando la maggioranza della popolazione americana. Le entrate fiscali dovrebbero andare a finanziare l’accesso gratuito alle università almeno per gli studenti a reddito più basso. Su questa proposta Sanders si è dichiarato d’accordo, anche se un altro dei suoi cavalli di battaglia, analogamente al sistema sanitario universale, è quello dell’accesso gratuito all’educazione universitaria per tutti.
Il dibattito tra i candidati democratici tuttavia da alcune settimane è tornato a concentrarsi principalmente sulla procedura di impeachment a Trump, tema sul quale vi sarebbe una sostanziale unanimità di consensi, anche se non mancano i distinguo [3]. La sensazione è che da parte dell’establishment democratico si stiano compiendo tutti i tentativi possibili per compattare il partito attorno ad una candidatura moderata e che però possa allo stesso tempo assicurare la sconfitta di Trump, che rimane il vero ed unico obiettivo. In tal senso si può leggere anche il recente intervento dell’ex Presidente Barack Obama, da una prospettiva tipicamente centrista e interclassista, che si è appellato a tutti i candidati chiedendo loro di mettere da parte le differenze e trovare nella sconfitta di Trump il minimo comun denominatore.
Di fronte a questo scenario, la principale osservazione che viene da fare è quella della potenzialmente pericolosa competizione a sinistra tra Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Si tratta sicuramente di uno dei principali nodi da sciogliere per comprendere quale sarà l’andamento delle primarie democratiche che in ogni caso si annuncia quanto mai controverso e incerto. Da una parte Bernie Sanders mostra ancora di poter riuscire a coagulare un elettorato più radicale e meno legato alla fedeltà al partito democratico, recuperando consensi tra le nuove generazioni e tra alcune fasce di lavoratori immigrati.
Al momento tuttavia il sostegno dei sindacati, che sarà una delle componenti essenziali per i candidati della sinistra democratica, è ancora fondamentalmente indeciso. Solo pochi hanno già manifestato il candidato che intendono sostenere. Tra questi si sono già pronunciati a sostegno di Bernie Sanders il sindacato dei lavoratori del settore elettrico (UEW) e uno dei principali sindacati degli infermieri. Ma la partita è ancora molto aperta. E non bisogna dimenticare che Joe Biden, soprattutto con l’entrata in campo di Bloomberg, proverà, come a suo tempo riuscì a Hillary Clinton, ad ottenere il sostegno di molte delle federazioni sindacali tra quelle tradizionalmente più legate all’establishment del partito.
Un’altra componente molto importante dell’elettorato democratico è rappresentata dal voto degli afroamericani che, secondo una recente analisi sarebbe ancora molto incerto ed oscillante. Bisogna ricordare che nel 2016 l’establishment del partito riuscì ad assicurare una parte consistente di questo voto a sostegno di Hillary Clinton, e questa è stata forse una delle chiavi della sconfitta di Bernie Sanders alle primarie. Quest’ultimo non è mancato di porre l’accento sulle tematiche più care agli afroamericani, in particolare il contrasto al razzismo che ancora caratterizza la repressione poliziesca, dalla quale è nato il movimento “Black Lives Matter” e collegato al problema della ghettizzazione urbana.
Mentre per quanto riguarda i giovani, che nel 2016 rappresentarono sicuramente una delle colonne portanti dell’elettorato di Sanders, questa volta potrebbero risultare maggiormente indecisi, poiché alcuni degli argomenti della Warren fanno molto presa su questa fascia, in particolare la tassazione ai super-ricchi per finanziare l’accesso alle università e il forte accento sul tema dei cambiamenti climatici e quindi del contrasto ai colossi dell’energia a combustibili fossili (petrolio e carbone) e del sostegno alle energie rinnovabili.
Un fatto comunque è certo: la concorrenza tra Sanders e Warren a sinistra finisce di fatto con l’indebolire entrambi, a fronte di un establishment che è intenzionato a contrastare a tutti i costi un pericoloso sbocco a sinistra.
La rivista The Jacobin ha recentemente analizzato l’atteggiamento di alcuni importanti media mainstream, nel corso di questa prima fase di pre-campagna presidenziale, in particolare il New York Times, il Washington Post e il canale televisivo MSNBC, che è considerato il più a “sinistra” nel mainstream, che si sono già distinti chiaramente nel contrastare la candidatura di Bernie Sanders, come evidenziato da un’approfondita analisi attraverso l’utilizzo di diversi indicatori [4].
È evidente, quindi, che il blocco delle classi dominanti, soprattutto nella sua componente che si auto-etichetta come progressista, è fortemente preoccupato dalla minaccia che può rappresentare Sanders, alla luce dell’esperienza del 2016, ma questa volta il rischio potrebbe essere addirittura maggiore. Anche perché, nel frattempo, ci sono state le elezioni del 2018, per il rinnovo parziale del Congresso, che hanno visto emergere – sia pur come piccola minoranza ma molto combattiva e molto visibile a livello mediatico – il gruppo dei cosiddetti Democratici Socialisti.
Questi ultimi peraltro si sono già pronunciati, con una consultazione della propria base militante, a sostegno di Bernie Sanders. Peraltro, l’esponente più in vista di tutti, Alexandria Ocasio-Cortez, proviene dalle fila dei militanti pro-Sanders nel 2016 e lo scorso ottobre ha voluto dichiarare apertamente il suo sostegno a Sanders, l’unico candidato ad essere effettivamente un indipendente e ad aver utilizzato, sia pur sempre in maniera molto generica, il termine “socialista” per autodefinirsi, pur non facendo formalmente parte del gruppo dei Democratici Socialisti.
Un calcolo che i settori più avveduti delle classi dominanti potrebbero fare, laddove le candidature di Biden e Bloomberg non dovessero inizialmente riuscire a contrastare efficacemente un’eventuale marea montante a sinistra, sarebbe quello di sostenere la progressista Elizabeth Warren, nonostante uno dei suoi cavalli di battaglia sia la tassa speciale sui redditi più alti, poiché sarebbe comunque la candidata con un seguito popolare meno radicato di quello di Sanders e portando poi la competizione a spostarsi sul terreno puramente mediatico, la stessa Warren potrebbe poi essere più facilmente sconfitta da un candidato sostenuto dai media mainstream come potrebbe essere Biden, ma ancora di più come è probabile che alla fine diventi Michael Bloomberg.
Per quanto riguarda invece il confronto tra Biden e Bloomberg, l’establishment democratico potrebbe permettersi il lusso di non dover scegliere subito ma vedere come si svilupperà la campagna delle primarie. Sicuramente entrambi, come già sopra evidenziato, punteranno soprattutto su una campagna tutta centrata sull’opposizione a Trump, che vede al momento nell’impeachment lo strumento principale.
Ma in realtà anche se la procedura di impeachment dovesse fare il suo decorso, esito ancora per nulla scontato considerata la maggioranza repubblicana che ancora domina il Senato, non è possibile ad oggi stimare quanto questo esito possa eventualmente ricompattare verso il centro il partito democratico, dove peraltro sussistono delle divisioni anche sull’impeachment di Trump, ed anzi la candidatura di Bloomberg può essere letta persino come un tentativo di “pacificazione” del paese, compattando piuttosto il fronte del capitale e delle classi dominanti che invece proprio Trump era riuscito a dividere, anche se soltanto in superficie e sul piano politico, poiché sul piano strutturale le politiche di Trump, come sappiamo e come abbiamo più volte evidenziato sulle colonne de La Città Futura, sono sempre andate nella direzione di consolidare il blocco sociale dominante, per quanto diviso politicamente, ma unito su alcuni temi di fondo, quali, ad esempio la riforma fiscale, il sostanziale via libera alla crescita esponenziale dei mercati finanziari e l’ostilità alla riforma sanitaria.
La strategia di contrasto a Trump sul suo stesso terreno passa anche attraverso una metodologia elettorale spregiudicata, come dimostra un recente annuncio da parte del gruppo editoriale Bloomberg News, uno dei più importanti non solo a livello nazionale, che ha deciso di estendere anche agli altri candidati democratici la “tradizionale” linea editoriale di non effettuare indagini sulle vicende personali e di affari del proprietario, Michael Bloomberg e sulla sua famiglia, adducendo la necessità di assicurare un trattamento equo e paritario a tutti i candidati. Naturalmente viene fatta eccezione per Trump e per altri eventuali candidati repubblicani.
Peraltro questa linea sarà tutta da dimostrare perché la decisione di evitare di fare indagini sul conto dei candidati non garantisce che il gruppo editoriale si asterrà anche dallo screditare alcune posizioni politiche agli occhi dell’elettorato, magari mettendo in evidenza aspetti controversi delle loro posizioni su vari temi.
In ogni caso le insidie che si pongono rispetto alla prospettiva di una candidatura di rottura e da sinistra sono veramente tante e la sproporzione delle forze in campo, in un sistema politico come quello americano, dove il peso delle risorse mediatiche e finanziarie è quasi sempre decisivo rispetto agli esiti elettorali.
Se dal punto di vista delle classi dominanti sarà quindi possibile giostrare su più scenari e candidati tutto sommato favorevoli (Trump, Biden, Bloomberg), dal punto di vista delle classi subalterne e soprattutto dei lavoratori, l’unica speranza rimane quello di condurre una battaglia fino in fondo e con tutte le forze disponibili, ma per la quale gli elementi dell’unità e dell’organizzazione dal basso risulteranno decisivi. Le prime scadenze elettorali, in programma a febbraio del 2020, potranno cominciare a dare le prime risposte.