Quella sera a Milano era caldo,
Calabresi, nervoso, fumava.
Tu Lo Grano apri un po’ la finestra,
una spinta e Pinelli va giù…
“.

Con una vena di ironia volutamente tragica, Lotta continua nel suo canzoniere sintetizzava così la vicenda di un innocente cui era toccata la sorte di divenire il capro espiatorio di una strage compiuta invece dai fascisti di “Ordine nuovo“: la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969.

Le sentenze si altalenarono tra condanne all’ergastolo e assoluzioni, per finire con la Cassazione che confermò le pene che, a quel punto, avevano perso la loro efficacia per via dei tempi lunghi dei processi e così alla tragedia subentrò anche la farsa: i parenti delle vittime di una strage fascista, una strage compiuta per destabilizzare l’ordine democratico dell’Italia repubblicana, venivano ad essere responsabili delle spese processuali.

La galassia del neofascismo nero, che fu artefice di altre stragi, come quella alla stazione di Bologna, ha lavorato alacremente nel corso di decenni per creare le condizioni affinché la giovane democrazia subisse una torsione autoritaria e si attuassero piani di trasformazione in senso presidenzialista, esautorando il Parlamento dal ruolo centrale che gli viene assegnato dalla Costituzione nel complesso delle istituzioni della Repubblica.

Non si tratta qui di fare la storia dell’eversione nera, sostenuta da servizi segreti cosiddetti “deviati” o da tanta parte politica (ed economica) al di là dell’Oceano atlantico… Non si tratta nemmeno di fare riferimento ai due tentativi di colpo di stato non riusciti che tentarono di prendere il potere rinverdendo l’uno le glorie fasciste con Junio Valerio Borghese e l’altro quelle della Loggia P2 con il “Piano Solo” del generale De Lorenzo.

Ma è invece il caso di ricordare che in questo disgraziato Paese, sebbene il terrorismo sia stato “nero” e “rosso“, i tentativi di sovvertire l’ordine repubblicano nato dalla Resistenza furono esclusivamente da parte fascista, mediante alleanze con la peggiore malavita e con tutta una serie di poteri economico-politico-militari che, pur essendo maggioranza, pur non avendo dalla loro il consenso popolare, provarono a divenire la leva di un cambiamento in seno ad una divisione del mondo tra due sfere avversarie, contrapposte e in perenne “guerra fredda“.

50 anni dopo la strage di piazza Fontana, la notte della Repubblica non è venuta meno, perché siamo sempre invischiati in una serie di chiaroscuri che non lasciano mai posto ad una vera chiarificazione di quanto avvenne allora e di tutte le conseguenze che ne derivarono.

Non soltanto è giusto, doveroso, civico, morale e opportuno sul piano storico ricordare tutta la tragica parabola involutiva dello Stato italiano dal 1919 al 1945, ma è altrettanto necessario iniziare a studiare a fondo la prossimità di una concatenata serie di vicende che hanno lasciato il segno nel dopoguerra e che hanno rappresentato, per troppo tempo, quel legittimo dubbio anche sulla verità dei processi che veniva smentita ad ogni grado di giudizio e non permetteva di mettere la parola “fine” a grandi misteri non solo degli anni ’60, ma pure di fine secolo.

Non sarà un caso che, dopo gli avvenimenti del G8 di Genova, serviranno quindici anni per poter costruire una logica sequenzialità di fatti accertati che determini le responsabilità oggettive del potere in quanto avvenuto in piazza Alimonda e nelle manifestazioni successive, nonché alla Scuola Diaz e alla Caserma di Genova Bolzaneto.

50 anni dopo la strage di piazza Fontana sappiamo che la ricerca della verità è un esercizio che si deve alla tenacia di chi la cerca – mettendo la sua esistenza a rischio e pericolo, ed oggi anche nel tritacarne dell’odio mediatico dei “social” -, al cedimento di teoremi inverosimili costruiti con prove inventate (bottiglie molotov, ricostruzioni false e concordate dai più diversi rappresentanti dello Stato, omissioni, mezze verità, cameratesmi smontati da qualche scrupolo davanti agli anni di prigione e al disonore prospettato in sede giudiziaria, eccetera…), ad un giornalismo di inchiesta che finisce a sua volta sotto processo (da Camilla Cederna a Lorenzo Guadagnucci), fino all’organizzazione di comitati in sostegno delle vittime.

Sia che si tratti di stragi neofasciste o di tentativi di colpi di Stato; sia che si tratti di limitazioni della libertà di manifestazione e di opposizione a politiche criminali contro i popoli o di pestaggi di singoli giovani, tanto con Franco Serantini ieri quanto con Stefano Cucchi oggi; sia che si tratti di Giorgiana Masi ieri o di Carlo Giuliani oggi, la lezione che tutti dobbiamo ricordare è che la costruzione cronologica e logica dei fatti è un dovere morale che spetta non soltanto alla magistratura ma anche a tutte e tutti noi: nel non tacere, nel sostenere – quando non possiamo fare altro – ogni lotta che sia volta a trovare verità e giustizia, sempre e comunque.

Perché è così che si costruisce la storia, è così che si fanno mettere radici alla memoria.

Senza il processo di Norimberga, senza altre decine di processi su quanto avvenuto nei dodici anni del Terzo Reich, noi avremmo tardato molto nel conoscere tutto quanto avvenuto nei campi di sterminio e di concentramento nazisti. La storia della Seconda guerra mondiale avrebbe perso la sua motivazione fondamentale: la realizzazione del delirio hitleriano di espansione germanica verso est e la conseguente liquidazione di ogni presenza ebraica in quei territori, oltre agli omicidi di massa delle Einsatzgruppen.

Piazza Fontana è, dunque, nonostante la verità piena di contraccolpi giudiziari che conosciamo, una memoria da conservare al pari di quella che ci deve portare alla piena consapevolezza del portato storico delle leggi razziali del 1938, del criminale regime fascista che disfece l’impianto liberal-democratico del Paese nei vent’anni di dittatura, visto il rigurgito antisemita e l’orgoglio di dirsi fascisti e persino nazisti nel mentre si allontanano le date di quei periodi della storia europea dove il baratro era tutto intorno a chi viveva, a chi tentava di sfuggire alle persecuzioni, a chi provava a cercare ancora un po’ di umanità laddove vi era solo discriminazione, odio e repressione violenta.

Abbiamo a lungo forse ritenuto che l’immane tragedia del Novecento avesse impresso in modo indelebile tutte le sue sfaccettature più buie nella mente e nella coscienza delle generazioni successive ad ogni singolo fatto: ci sbagliavamo.

Dall’Olocausto a piazza Fontana, dall’Italicus a Bologna, da Ustica al G8, nessuna verità storica è mai al sicuro se non esiste, non soltanto la necessaria verità processuale, ma più ancora una senso comune di appartenenza a valori che sono nella Carta costituzionale e che, infatti, contraddicono ogni atto che ha generato vittime innocenti nel cammino insicuro di una democrazia ancora tutta da costruire e sempre sotto la minaccia di una involuzione autoritaria: ieri con il fascismo in camicia nera, oggi col sovranismo e le tante sue felpe colorate.

Perché la pretestuosità è sempre attuale. Perché la 18esima vittima, un anarchico “distratto” che cade da una finestra di una questura, è sempre pronta da aggiungere al conto di quelle ufficiali. Ed anche la 19esima: l’insabbiamento della verità, la troncatura della futura memoria.

Scior questore io ce l’ho già detto,
le ripeto che sono innocente.
Anarchia non vuol dire bombe,
ma uguaglianza nella libertà.“.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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