Di quella bomba alla Banca dell’Agricoltura alcuni di noi che si trovavano nella redazione de Il Manifesto rivista, la storica sede di piazza del Grillo, a 200 metri da Piazza Venezia, sapemmo quasi in tempo reale. Era venuta a trovarci Franca Rame, perché fin dall’inizio con lei e Dario Fo avevamo collaborato. Stavamo chiacchierando attorno al grande tavolo coperto di panno verde dove la nostra avventura fece le sue prime prove, quando si sentì un botto fortissimo, vicino.

Una bomba? Sì, era la bomba posta all’Altare della Patria, uno scoppio tremendo quasi in contemporanea con quello, ben più luttuoso, di Piazza Fontana. Di cui sapemmo subito perché Franca chiamò Dario per raccontare e invece fu lui che ci riferì dell’orrore di Milano.

Non capimmo che era l’inizio di quella che si chiamò strategia della tensione, la nostra stessa fantasia non poteva arrivare ad immaginare che a tanto si sarebbe ricorsi per fermare una generazione – operaia e studentesca – scesa in strada per chiedere che la modernità appena intravista acquisisse il volto umano della liberazione reale e non quello di una più raffinata ma non meno pesante oppressione. Ma lo capimmo presto; e sempre di più, via via che quella strategia dilagava. Ogni 12 dicembre più consapevolezza e dunque più rabbia si sono impadronite delle tante migliaia di persone che da tutta Italia sono sempre accorse all’annuale appuntamento milanese.

Per noi de il manifesto quella vicenda fu ancora più sconvolgente, perché decidemmo di mettere a capo delle nostre liste elettorali Pietro Valpreda (quanti millennials ne conoscono il nome?), l’anarchico innocente subito imprigionato che i servizi segreti avevano deciso di indicare come l’autore della strage. Non riuscimmo, come si sa, a liberarlo eleggendolo al parlamento, perché non raggiungemmo il famoso «quorum», ma con la sua immagine esposta nelle piazze di tutta Italia rendemmo, credo, più vera e umana quella storia.

Ieri a Milano anche le autorità hanno positivamente ricordato quel 12 dicembre e il presidente Mattarella ha denunciato i «depistaggi». Bene. Ma è francamente possibile che anche tutt’ora su quella stagione di stragi di Stato non si sia fatta luce? È possibile che ogni volta che vengono declassificati documenti che a chiare lettere ci dicono di Gladio, non se ne traggano le necessarie conseguenze processuali?

Che solo qualche anno fa ,senza che sia emersa una qualche scandalizzata reazione, sia emerso, sempre per via di declassificazione di documenti americani, che il consigliere del presidente americano, Kennan alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948 aveva suggerito al suo capo di indurre De Gasperi a mettere fuori legge il Pci, un gesto che avrebbe certo prodotto la guerra civile e dunque legittimato una rinnovata presenza militare degli Stati uniti in Italia ?

E ancora, è possibile che sia uscito da qualche mese un film della figlia del regista Franco Rosi che ripercorre 70 anni di storia d’Italia, in cui si racconta dei tanti eccidi e assassini in cui si intrecciano servizi Usa e italiani, ognuno dei quali non è un «mistero» ma drammatica documentazione per processi e indagini che non sono mai stati fatti sul serio, e nessuno abbia detto: accidenti, forse si dovrebbe fare qualcosa?

La memoria è fondamentale. Ma guai se si continua ad accompagnare a voluta smemoratezza. Tanto più grave se perdura in una stagione così torbida come quella attuale, quando i rischi sono così alti. La svolta necessaria e non più procrastinabile è questa: l’impegno a rendere pubblica la verità. (E perlomeno potremmo cominciare a declassificare davvero anche noi i nostri documenti. Vediamo se l’impegno di Fico in questo senso sarà serio).

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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