La “prima fase” dell’accordo raggiunto nei giorni scorsi tra gli Stati Uniti e la Cina sulle questioni commerciali è stata propagandata a Washington dall’amministrazione Trump come un vero e proprio trionfo politico ed economico. I dubbi sull’effettiva implementazione dell’intesa sono tuttavia molteplici e lo stesso governo di Pechino è apparso molto più cauto rispetto alla Casa Bianca.
Dopo più di due anni di trattative, i risultati per ora raggiunti consistono, da parte americana, nella sospensione e nella riduzione di alcuni dazi doganali imposti o minacciati da Trump. La Cina, invece, si impegna ad aumentare sensibilmente le importazioni dagli USA di prodotti di varia natura, in particolare nel settore agricolo, e a soddisfare altre richieste di Washington su questioni come l’apertura del proprio settore finanziario e il rispetto della proprietà intellettuale.
Già i numeri presentati dalla Casa Bianca in merito all’acquisto di beni prodotti dagli agricoltori americani suscitano parecchi interrogativi. La Cina dovrebbe aumentare le importazioni in questo settore dai 24 miliardi di dollari del 2017, cioè prima dell’esplosione della “guerra commerciale” in atto, a 40 o forse addirittura 50 miliardi nei prossimi due anni. In totale, le importazioni cinesi dagli USA dovrebbero toccare i 200 miliardi in due anni, in modo da ridurre il deficit della bilancia commerciale americana a circa 420 miliardi.
Che questa impennata sia improbabile appare chiaro praticamente a tutti gli osservatori e alle stesse parti interessate, ad esclusione dell’amministrazione Trump. Il governo cinese, per cominciare, ha chiarito che le importazioni aumenteranno solo per quei prodotti agricoli USA “competitivi sul mercato” e al momento non è chiaro quali saranno le cifre in gioco. Questa prudenza rispecchia l’atteggiamento generale delle autorità cinesi sull’intesa nel suo insieme. La Cina non intende ad esempio violare le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), soprattutto in un frangente nel quale il governo di Pechino sta combattendo l’offensiva USA anche promuovendo la propria immagine di difensore del sistema consolidato di scambi internazionali.
Soprattutto, resta da capire come l’economia cinese possa raggiungere un livello di importazioni come quello annunciato da Washington. Nei primi mesi del 2019, l’agricoltura americana ha venduto beni solo per dieci miliardi di dollari alla Cina e, oltre all’ostacolo dei dazi, ciò è dovuto ad altri due fattori che peseranno anche sugli scambi dei prossimi mesi, indipendentemente dai termini dell’accordo appena raggiunto.
Il primo è una conseguenza proprio delle tariffe doganali di Trump, vale a dire la già avvenuta diversificazione dei mercati verso cui vengono esportati i prodotti agricoli americani, mentre il secondo ha a che fare con la quasi certa impossibilità di aumentare in maniera sensibile la domanda cinese. Secondo quanto riportato lunedì dalla Nikkei Asian Review, infatti, la Cina ha registrato un calo delle importazioni di beni e servizi del 5% tra gennaio e settembre 2019 e un’ulteriore contrazione è prevista per il prossimo anno.
A rendere precaria la “prima fase” dell’intesa sono anche le trascurabili concessioni fatte dagli Stati Uniti. Trump ha cancellato la minacciata imposizione di dazi del 15% su 160 miliardi di dollari di importazioni cinesi che avrebbe dovuto entrare in vigore il 15 dicembre. Inoltre, le tariffe doganali implementate all’inizio di settembre su altri 120 miliardi di dollari di merci cinesi passeranno dal 15% al 7,5%, ma rimarranno intatte quelle del 25% su 250 miliardi di ben importati dagli USA. Per il vice-ministro del Commercio cinese, la Casa Bianca si è impegnata a rimuovere i restanti dazi “in modo graduale”, ma la delegazione americana ha smentito che questa promessa faccia parte dell’accordo.
Al di là di ciò che è stato realmente concordato tra le due parti, un problema ulteriore e ben più significativo è rappresentato dalla “seconda fase” del negoziato. In esso dovranno essere affrontate alcune delle questioni alla base della “guerra commerciale” scatenata da Washington contro Pechino, come l’appoggio del governo alle grandi aziende di stato e, soprattutto, il piano di sviluppo industriale che intende fare della Cina la prima potenza tecnologica del pianeta, sfidando la supremazia degli Stati Uniti.
Alcuni argomenti non direttamente legati alle dinamiche commerciali sono stati in realtà presi in considerazione dalle discussioni appena concluse. La Cina avrebbe in proposito offerto di impegnarsi per risolvere nodi quali la presunta manipolazione al ribasso della propria valuta per favorire l’export, l’apertura del settore bancario e finanziario e il trasferimento forzato di tecnologia che Pechino imporrebbe alle aziende operanti sul proprio territorio.
Un discorso più approfondito su questi temi è probabile che dovrà essere affrontato nel prossimo futuro, visto anche il probabile emergere di tensioni attorno alle modalità di implementazione e verifica delle misure concordate. Soprattutto, ampi settori della politica, dell’economia e dell’apparato militare e dell’intelligence negli Stati Uniti insistono per risultati concreti in questi ambiti, considerati cruciali per la salvaguardia della posizione di dominio internazionale degli Stati Uniti.
Il vero ostacolo a una risoluzione concordata dello scontro Washington-Pechino è da ricercare appunto negli obiettivi più profondi degli Stati Uniti, legati al tentativo di contenere la crescita e le aspirazioni della Cina, escludendo o limitando il ruolo di questo paese nei processi di integrazione economico-commerciali in atto nel pianeta e l’accesso o l’acquisizione di tecnologia occidentale. Uno sforzo di questo genere è molto probabilmente destinato a fallire o, comunque, a risolversi in un conflitto rovinoso.
La tendenza al peggioramento del quadro complessivo è confermata anche dalla realtà che si prospetta sul fronte puramente commerciale. Se anche, a livello teorico, l’accordo USA-Cina dovesse andare in porto e le condizioni concordate venissero applicate, ciò avverrebbe a discapito di altri paesi con forti interessi nel mercato cinese, come quelli europei, acuendo perciò le tensioni e peggiorando comunque il clima globale.
Che si stia andando verso uno sconvolgimento del quadro entro cui il capitalismo ha cercato di autoregolarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale, con tutte le conseguenze del caso, è confermato da un altro importantissimo evento dei giorni scorsi. L’amministrazione Trump ha cioè di fatto compromesso una delle funzioni principali dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ovvero quella di dirimere le dispute commerciali tra i vari stati membri.
Con un’azione deliberata, Washington ha bloccato la nomina dei nuovi giudici che dovrebbero sostituire quelli il cui mandato nell’apposito organo del WTO risulta scaduto. L’assenza di uno strumento condiviso in grado di conciliare gli scontri in ambito commerciale rischia seriamente di accelerare le spinte centrifughe, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, e di accentuare la tendenza degli Stati Uniti a cercare di invertire il proprio declino internazionale imponendo condizioni commerciali favorevoli in maniera unilaterale ai propri rivali internazionali.
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