Murales cileno. Immagine tratta da Desinformemonos.org, spazio di comunicazione indipendente
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Poche settimane fa i social sono stati invasi da post attorno alla vicenda della morte avvenuta in Cile di Daniela Carrasco, attivista e artista di strada soprannominata El mimo che, secondo l’iniziale denuncia del collettivo Ni Una Menos, sarebbe stata violentata, torturata e uccisa dalla polizia. Diverse invece le convinzioni e dichiarazioni della famiglia e di un’associazione di avvocate, propense a credere a un suicidio. La questione è poi tracimata anche su media tradizionali, ma è sui social che, con i consueti meccanismi virali e di schieramento, si sono immediatamente scontrati i sostenitori dell’una o dell’altra tesi e versione, come fosse sempre e comunque obbligatorio e necessario dividersi in opposte fazioni e tifoserie. Sino a porre in secondo piano la vera e centrale questione (oltre a quella di una giovane donna che, in ogni caso, è morta, per propria o altrui mano): i diritti umani e la sanguinosa repressione con cui il Cile del presidente Sebastián Piñera ha cercato di soffocare le grandi lotte e proteste sociali in corso dallo scorso ottobre.

Ora l’intensità, la violenza e le cifre di quella repressione sono certificate da un report dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (United Nations High Commissioner for Human Rights, UNHCHR), ma non se ne è accorto quasi nessuno, compresi quelli che si sono appassionati alla contesa sulle differenti ricostruzioni della morte di Daniela Carrasco. E così pure di quella, analoga, di Albertina Martínez, fotografa cilena divenuta famosa per i suoi scatti nel corso delle proteste, trovata uccisa nella propria abitazione di Santiago attorno alla quale, di nuovo, si sono diffuse ipotesi contrastanti sulla responsabilità o meno delle forze di polizia.

Foto di Carlos Figueroa, licencia Creative Commons Atribución-CompartirIgual 4.0 Internacional

Il Rapporto descrive in dettaglio accuse e casi di tortura, maltrattamenti, stupri e altre forme di violenza sessuale da parte della polizia contro persone in detenzione, molte delle quali sembrano essere state trattenute arbitrariamente. Il numero complessivo di persone fermate o arrestate, tra il 18 ottobre e il 6 dicembre, è enorme: oltre 28.000. L’UNHCHR documenta poi 113 casi specifici di tortura o maltrattamenti e 24 casi di violenza sessuale (inclusi stupri e minacce di stupro) contro donne (14), uomini (6), ragazze adolescenti (3) e ragazzi adolescenti (1) nel contesto delle proteste. Il National Human Rights Institute (NHRI), con cui il team delle Nazioni Unite si è incontrato durante le tre settimane di ricognizione trascorse visitando sette regioni cilene, ha presentato 108 denunce penali per tortura riferite a 166 casi di presunta violenza sessuale (in 47 casi verso donne, in 28 verso ragazze e adolescenti, in 52 verso uomini, in 27 verso adolescenti maschi); si tratta di cifre quadruple rispetto alle cause legali presentate per tortura con violenza sessuale negli ultimi nove anni. I presunti autori sono membri della polizia e dell’esercito.

Secondo informazioni fornite dalla Procura della Repubblica, dal 26 novembre sono state aperte 44 inchieste relative alle accuse di tortura e 90 in relazione a episodi di nudità forzata. Sono in corso indagini su 26 decessi avvenuti nel contesto delle proteste. Migliaia di feriti, compresi circa 350 persone ferite agli occhi e al viso per un uso «non necessario e sproporzionato di armi meno letali, in particolare fucili anti-sommossa, durante manifestazioni pacifiche e/o al di fuori del contesto di scontri violenti tra manifestanti e forze di sicurezza». Una pratica, quest’ultima, divenuta una costante anche più vicino a noi, ovviamente e però invisibile ai media, invece appassionati – anche giustamente, non fossero strabici e autocensuranti – a registrare le violenze poliziesche contro i giovani di Hong Kong. In Francia, difatti, sono tantissime le gravi ferite agli occhi causate dei proiettili di gomma sparati da poliziotti nel corso delle manifestazioni dei gilet gialli e di altri movimenti.

Tutto il mondo sta esplodendo, diceva il ritornello di una canzone di lotta degli anni Settanta del secolo scorso. Lo sta facendo anche oggi, dove però, nonostante Internet, social e la comunicazione globale sembriamo accorgercene di meno, incapaci di sguardo critico e di collegamenti tra i pezzi di una stessa realtà.

Dall’Ecuador alla Bolivia, dalla Colombia al Brasile, dal Cile ad Haiti, dall’Iraq all’Iran, dal Libano all’Arabia Saudita, dalla Turchia alla stessa Francia, dove la convergenza delle lotte contro la riforma delle pensioni sta paralizzando il Paese e mettendo in difficoltà Macron e il suo governo (l’erba del vicino, ahimè, è sempre più verde). Naturalmente, si tratta di realtà differenti, come diverse sono le cause scatenanti e quelle remote, i contesti politici, le caratteristiche sociali, ma comune è la rivolta contro le ingiustizie e le iniquità, la spinta al cambiamento da parte di coloro che “stanno in basso” (leggi anche Un grande disordine sotto i cieli di Raúl Zibechi, ndr).

Il dato comune, se vogliamo trovarlo è che ovunque la repressione e le violenze poliziesche sono cresciute in modo esponenziale, con centinaia e centinaia di uccisi tra i manifestanti, con arresti di massa e torture. Questo dovrebbe infiammare i social, assai più delle ipotesi sulla causa di morte di Daniela e Albertina.

Le più pericolose fake news sono le notizie (e le realtà) di cui non ci accorgiamo, che vengono sottaciute dal mainstream, di cui non sappiamo individuare la valenza, che non sappiamo e vogliamo andare a cercare, anche perché costa impegno e fatica e ormai leggiamo solo i titoli, peraltro di notizie che seleziona al posto nostro il misterioso algoritmo, mentre ci dilettiamo nelle polemiche facili e sterili da tastiera a fare l’esame del sangue e delle intenzioni all’unico movimento (leggi anche Il grado zero della politica di Guido Viale, ndr) che per il momento ci è toccato (e di nuovo cresce l’indivia per l’altrui giardino), rinchiusi nelle nostre solipsistiche bolle digitali. Una volta c’era la rivoluzione e non sapevamo che abito metterci. Ora il mondo esplode (e, surriscaldato, brucia) e non ce ne stiamo neppure accorgendo. Auguri.

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Pubblicato anche su Dirittiglobali.it con il titolo Tutto il mondo sta esplodendo, ma noi guardiamo il nostro ombelico.

Sergio Segio è curatore dell’annuale Rapporto sui Diritti globali, edito da Ediesse e promosso dalla Cgil (l’edizione 2019 sarà pubblicata nel gennaio 2020). Ha aderito alla campagna di Comune “Ricominciamo da 3“.

https://comune-info.net/il-mondo-esplode/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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