Al lavoro di elaborazione di una nuova strategia nella e per la sinistra comunista, di classe, di alternativa e di opposizione vengono attribuiti stereotipi che pretenderebbero di relegare il tutto in una sorta di vecchio baule con cassette di attrezzi ormai logori e privi di utilità: vetusti arnesi di un passato che andrebbe – secondo i moderni interpreti di una sinistra invece utile allo scopo che si prefigge (salvare l’Italia dai sovranisti e far progredire i diritti sociali e civili), quanto meno retrocesso al ruolo di mera memoria, di indicazione da considerare però surrettizia, occultabile al momento opportuno per non infangare le nuove parole, i pragmatissimi concetti di chi ritiene che solo sposando grandi alleanze con forze moderate e dichiaratamente filo-centriste si possa far avanzare le rivendicazioni degli sfruttati di oggi e di domani.

Se rimane vera l’affermazione, suffragata dallo studio scientifico marxista dei rapporti sociali e di produzione che si intersecano e si condizionano con una certa vicendevolezza, secondo cui tutte le problematiche che l’umanità deve affrontare in termini di differenza nello stile di vita, dal migliore possibile (il lusso sfrenato), al peggiore immaginabile (la miseria più nera), sono riconducibili alla lotta di classe, se ne conviene che fare finta che non esista o che sia un accidente cui si può rimediare con qualche riforma “voce dal sen sfuggita (che) poi richiamar non vale” è niente altro se non l’ennesimo tentativo di ricerca di uno spazio di potere e niente di più.

Tutti i tentativi di insinuarsi nelle stanze istituzionali di governo e di provare a gestire le crisi economiche con politiche di riforme anche strutturali, sono miseramente falliti e hanno dimostrato che non esiste sinistra sociale e di classe (quindi anticapitalista, antiliberista, ergo comunista nel giusto e vero senso del termine) se non nella determinazione di un livello di empatia pluriconnettiva con tutta quella grande massa di lavoratori e lavoratrici (quindi di cittadini) che si sono ribellati all’omologazione della sinistra ad una politica che era il suo esatto contrario e che è stata tale fino a quando il tema del rovesciamento dei valori democratico-costituzionali non si è posto con la discesa in campo berlusconiana prima, renziana poi, salvianiana adesso.

Fino a che la destra fascista in Italia è rimasta minoritaria, rinchiusa (si fa per dire) tra i fuochi fatui del MSI e delle micro organizzazioni nostalgiche del ventennio dittatoriale, fino a che al governo sedeva una destra liberale (magari con qualche tratto monarchicheggiante, ma certamente non così di spessore da minacciare l’assetto repubblicano), il tema dei grandi assemblaggi di partiti e movimenti così tanto differenti tra loro non si era mai posto.

I confini politici venivano rispettati e, anzi, erano essi stessi una sorta di delimitazione anche culturale che permetteva civicamente di comprendere le geopolitica del Paese e di sentirsene parte stando dall’una o dall’altra parte, in questo o in quel partito.

Poi tutto, come sappiamo, è mutato e davvero una sorta di rivoluzione istituzional-politica si è fatta avanti spinta da una classe padronale che ricercava – dopo Tangentopoli – nuovi punti di riferimento. Fu Berlusconi a trovare questo fulcro su cui imperniarsi ed agire. Anche qui per oltre un ventennio, con sorti alterne.

Mentre a sinistra ci si divideva e si dibatteva incessantemente su quale ruolo avere: sbarrare la strada alle destre facendo parte di coalizioni come L’Ulivo o L’Unione? Oppure starne fuori ed esercitare una funzione di sinistra di opposizione e di classe.

All’epoca non si poteva sottrarsi facilmente al richiamo di una sorta di unità nazionale contro la prepotenza delle panzer-division della destra: ex socialisti craxiani, liberali di ogni sorta, monarchici, neofascisti, fascisti un po’ pentiti passati dalle Terme di Fiuggi, una marea nera sembrava poter essere fermata prima dai Progressisti della sinistra comunista e moderata unita all’ambientalismo e al cristianesimo sociale, poi dalle coalizioni prodiane allargate spudoratamente al centro più vicino alla destra possibile per contenderle il maggior numero di voti fino a rasentare l’equipollenza all’uscita dalle schede nelle urne nel 2006.

Oggi la rivoluzione italiana post-Milano da bere e post-craxiana sembra molto lontana, superata dai tanti indegni scimmiottatori di un potere pubblico commistionato con gli interessi privati che hanno solcato la scena della politica italiana tanto da allontanarla progressivamente dalle grandi masse di cittadini che, nel bene o nel male, con spirito forse di rassegnazione piuttosto che di fiducia, si recavano al seggio per provare a “contare qualcosa”.

Scrive André Breton: “Dal nostro posto, sosteniamo che l’attività di interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata all’attività di trasformazione del mondo. Che sta al poeta, all’artista, approfondire il problema umano in tutte le sue forme, che appunto il procedere illimitato del suo spirito in questo senso ha un valore potenziale di mutamento del mondo, che quel modo di procedere – in quanto prodotto evoluto della sovrastruttura – non può non venire a corroborare la necessità del mutamento economico del mondo“. (“Azione e sogno”, discorso pronunciato nel 1935 a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori).

Vi è un punto centrale nella riflessione che si sta facendo e che deve poter trovare il suo sviluppo senza essere tacciato di deviazionismo rispetto alle serie problematiche sociali che viviamo quotidianamente: è il tema della cultura generalmente intesa, ma in particolare sociale.

Il tema di una nuova cultura politica e della politica, di un ripensamento tanto delle categorie cui siamo abituati a riferirci non per sostituirle con nuove formulazioni riformistiche ma semmai per far loro trovare posto in un movimento anticapitalista moderno, per un nuovo comunismo che includa il ruolo tanto del sindacalista, dell’operaio, del lavoratore, del precario e del disoccupato quanto quello dell’intellettuale, dello scrittore, del poeta, del pittore e del regista; in sostanza di tutti coloro che sono stati e possono ancora essere una sovrastruttura utile, quella che Breton definisce molto bene attribuendole “un valore potenziale di mutamento del mondo“.

Azione e sogno possono vivere insieme, coabitare nello stesso ambiente di emersione di una nuova coscienza critica di classe e alimentarsi l’una con l’altro senza dimenticare le proprie origine e la propria essenza, ma sapendo bene che nessuna azione è veramente mai rivoluzionaria se non punta ad un rilancio volutamente eccessivo per ottenere quell’impossibile: una esigibilità macroscopica che deve contenere una dirompenza eclatante, una provocazione sconcia agli occhi di tanti perbenisti dell’etica moderna di adeguamento ad una società tanto priva di umanità quanto ricca di materialità comperata a suon di rate e di furti su furti.

L’azione della sinistra di opposizione e di classe dunque deve ben guardarsi dal fare l’errore della sua cugina, la sinistra moderata, di governo, frontista a tutti i costi: espungere il sogno per fare spazio ad una sano pragmatico vero senza errore, senza margine di sbaglio, perché fuori da qualunque utopia.

La spocchiosa alterigia di coloro che si dichiarano più responsabili perché vanno ad ingrossare le fila delle truppe pronte a contrastare il salvinismo e le destre sovraniste, prima o poi deve fare i conti con tutta la sua insufficienza nel determinare rapporti di forza di coalizione che conquistino spazi agibili per l’avanzamento delle istanze e dei bisogni di quegli sfruttati che pretenderebbero di rappresentare. Tanto sul terreno dei diritti sociali quanto su quello dei diritti civili.

Invece sembra proprio non essere così: né al governo, né nelle amministrazioni regionali rimaste in mano ad un centrosinistra incapace di trovare la via quanto meno mediatica del mostrarsi come alternativa se non inventandosi il mare magnum delle sardine. Un surrogato pseudo movimentista, frutto di uno spontaneismo incredibile (nel senso che per davvero non gli si può credere quando afferma di essere nato tale e cresciuto allo stesso modo), per paradosso, dovrebbe far apprezzare l’originale politico: il PD e i suoi piccoli, fedeli alleati.

La sinistra di opposizione deve invece lasciarsi alle spalle non il baule con la cassetta degli attrezzi classici e riconoscibili, ma semmai tutto l’armamentario fintamente moderno di un progressismo servile, pronto a subordinare i diritti sociali all’esigenza della stabilità del potere gestito e garantito sempre e soltanto dalla classe dominante, dai poteri economici: dal padronato alla grande finanza italica ed europea.

La sinistra di opposizione non deve avere il timore di essere accusata di “minoritarismo” da chi è minoritario dentro a coalizioni che fagocitano tutti i buoni propositi della sinistra moderata. Dobbiamo essere una sovrastruttura intelligente, come sosteneva Breton, consapevoli che come partiti, come comunisti, possiamo dare molti tipi di contributi alla lotta per la rinascita della sinistra anticapitalista in Italia e nel necessario e più ampio contesto continentale: un contributo intellettuale, uno pratico nella lotta politica istituzionale ed uno nella collegamento con la lotta sindacale, direttamente legata alla straordinaria e terribile catena di produzione del profitto.

Ma senza una nuova cultura, senza una consapevolezza di ciò che si è, si vuol essere e di quel che si intende conquistare, si lascerà solo campo al vuoto borioso della sinistra governista che altro non farà se non continuare ad infangare il buon nome della sinistra stessa facendo credere ai moderni proletari di essere al loro fianco, mentre starà sempre un passo avanti per farne due indietro.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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