Ben venga la svolta green impressa dalla risoluzione approvata dal Parlamento Europeo, in accordo con la Commissione. Ma prestiamo attenzione alle parole per evitarci nuove cocenti delusioni alle prossime conferenze sul clima. Formule come “Neutralità climatica” o “Emissioni nette zero nel 2050” non dicono nulla sul come raggiungere questo ambizioso obiettivo, lasciano aperte strategie opposte e contengono un messaggio subdolo: non serve diminuire la produzione di gas climalteranti poiché troveremo un modo di neutralizzarli e bilanciarli.
Quella parolina – “nette” – sottintende una scommessa al buio: riuscire a compensare le emissioni attraverso sistemi di “assorbimento”. Ma quali? Il modo più semplice ed efficiente (l’approccio Nature Based, aumentando di molto la fotosintesi) sarebbe senz’altro una gestione agroforestale mirata a massimizzare l’assorbimento del carbonio al suolo. Ma – oltre a impedire gli incendi e le deforestazioni in atto – sarebbe necessario fermare l’espansione dell’industria della carne (60 milioni di bovini al pascolo solo nella regione amazzonica), delle monoculture Ogm, dei biocarburanti. Non mi pare però che gli Stati stiano dimostrando la volontà di contenere le attività delle compagnie multinazionali del calibro di Cargill (fornitore di McDonald’s), JBS (Walmart), Bunge (Nestlè). Oltre a ciò, per riuscire ad assorbire i 2/3 (forse) del gas serra servirebbe riforestare una superficie grande come gli Stati Uniti (vedi Le foreste ci salveranno).
S’avanzano allora strane chimere uscite dai laboratori di geo-ingegneria. Si chiamano Carbon Capture and Storage. Tubi aerostatici, ventole, compressori, pozzi profondi capaci non solo di catturare, distillare e stoccare il biossido di carbonio, ma persino di riutilizzarlo. Nuove tecnologie che vengono presentate come “la frontiera dell’innovazione scientifica e della creatività imprenditoriale (…) Anidride carbonica catturata dall’atmosfera che può diventare combustibile pulito, fibre sintetiche per prodotti di consumo, materiali da costruzione futuristici (…) una grande opportunità per promuovere un’economia circolare” (trascriviamo qui parti del testo dell’articolo a firma Sara Moraca, Il grande affare della CO2, pubblicato sul CorriereInnovazione il 29/03/2019).
Racconta nel suo ultimo libro Naomi Klein (Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il pianeta, Feltrinelli, 2019) che una società finanziata da Bill Gate, la Stratoshield, vorrebbe sperimentare l’immissione nella stratosfera di aerosol di anidride solforosa in modo da creare una barriera che diminuisca l’insolazione sulla superficie della Terra. Un altro signore ha sparpagliato in mare limatura di ferro per aumentare la fioritura algale.
Più prudentemente le strategie di decarbonizzazione della Germania si affidano a progetti faraonici di impianti solari a concentrazione ad alto voltaggio (Desertec, TuNur, Noor Complex Solar Power Plant) da piazzare nel deserto del Sahara (in Tunisia, Marocco ed Egitto, in attesa che la Libia si stabilizzi) e a imponenti elettrodotti sottomarini che attraverserebbero il Mediterraneo. I progetti sono sponsorizzati dalla Trans-Mediterranean Renewable Energy Cooperation (TREC), un’associazione volontaria supportata dal Consiglio tedesco sui cambiamenti climatici, dal Club di Roma, da Greenpeace, dal principe di Giordania Hassan Bin Al Talal, oltre che dai partiti social-democratico e verde. Il continuo aumento dei consumi energetici rende insufficiente (nelle aree geografiche più “sviluppate” e a parità di consumi) persino la dotazione della fonte energetica primaria: il sole. Dopo aver estratto dall’Africa caffè, petrolio, minerali e schiavi, il colonialismo si ripresenta vestito di verde.
Il saccheggio procede anche con le “terre rare”. Un’approfondita inchiesta del giornalista Guillaume Pitron ci rivela su cosa si reggono le green e smart tech: una dozzina di elementi chimici che per le loro proprietà magnetiche, conduttive, ottiche, catalitiche… sono indispensabili a produrre microcircuiti, rotori per pale eoliche, accumulatori, radar, missili e quant’altro serve alla Quarta rivoluzione industriale. Sono il petrolio del XXI secolo. Vengono estratti in quantità e a un ritmo esponenziali. Peccato, appunto, che questi metalli siano rari e immischiati nelle rocce in modo tale che per estrarne una punta di spillo serva frantumare una collina. E non è un modo di dire: servono 200 tonnellate di materiale per ricavare un chilo di lutezio; 50 tonnelate per un chilogrammo di gallio; 16 tonnellate per un chilogrammo di cerio; 8 tonnelate per un chilo di vanadio. A cui vanno aggiunti fiumi di acqua mischiata con solventi chimici necessari per “purificare” i metalli. Pitron giunge alla conclusione che lo sviluppo sostenibile non esiste poiché “nuove risorse vengono a mancare ogni volta che cambiamo modello energetico e tutto ciò non ha fine” (Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss, 2019).
La delocalizzazione delle industrie sporche fa il paio con i meccanismi di mercato inventati con il Protocollo di Kioto nel lontano 1997 e rilanciati con l’Accordo di Parigi cinque anni fa: le quote di emissione consentite (permessi di inquinamento) sono fissate per ogni Singolo stato e si applicano agli impianti di produzione. Ma sappiamo bene che gran parte delle merci vengono poi comprate e consumate in paesi diversi da quelli in cui vengono prodotte. Non sarebbe più equo attribuire il peso dello zaino ecologico sulle spalle dei beneficiari effettivi? Non contenti, gli europei si sono concessi anche la libertà di commerciare i permessi di inquinamento auto-attribuiti (Emissions Trading System e Clean Development Mechanism) come se fossero un titolo finanziario qualsiasi, intermediato da istituti finanziari e quotato in borsa (nel 2018 un permesso di emissione di una tonnellata di CO2 valeva 23,5 Euro).
Non si sa di chi avere più paura, se dei negazionisti della Coalizione fossile guidata da Tramp e dagli emiri arabi, o dei cervelloni delle imprese biotech che vedono nella emergenza climatica una occasione per “giocare a fare dio” e, molto più prosaicamente, una opportunità per far fare nuovi profitti alle loro compagnie. Al dilemma non si scappa: salvare l’economia o il pianeta. La green economy rivitalizzava il mercato, non l’ambiente (leggi anche Il business climatico di Silvia Ribeiro).
https://comune-info.net/il-grande-affare-della-co2/