Verso il 26 gennaio. Perché il governo di una delle Regioni meglio amministrate e più ricche d’Italia dovrebbe essere sfiduciato? Il nodo irrisolto delle diversità territoriali «identitarie»

Le elezioni regionali in Emilia-Romagna rappresentano uno spartiacque, qualunque sarà l’esito elettorale. Il centro-sinistra mette in scena un cauto ottimismo, da cui traspare più timore che sicurezza. La Lega morde il freno e Salvini batte il territorio tenendo nelle retrovie la candidata Borgonzoni.

Gli ultimi sondaggi restituiscono una situazione di parità: Bonaccini è dato in vantaggio di 1-2 punti percentuali, ma il margine di errore della stima è di circa 3 punti. In altre parole, i sondaggi sarebbero corretti anche con una vittoria della Borgonzoni con un margine di 1-2 punti a suo favore. Tecnicamente, Bonaccini non è in vantaggio. E c’è di più.

Confrontando la distribuzione del voto delle europee 2014 e 2019 in Emilia-Romagna, rileviamo una crescita della Lega più evidente nelle zone dell’Appennino – soprattutto nelle province di Parma e Piacenza – e in prossimità del delta del Po. Vale a dire, nelle aree meno densamente abitate della Regione e in quelle lontane dai poli di offerta dei servizi: le Aree interne del Paese.

Sono queste le aree più difficili da mappare per gli istituti di sondaggi. È come se lo strumento (il sondaggio) vedesse “meno bene” proprio nelle aree dove la Lega è più forte, sottostimando quindi il vantaggio della Borgonzoni. Inoltre, i sondaggi – al netto di quanto sin qui evidenziato – rilevano il gradimento nei confronti del candidato al governo della Regione, non il consenso al partito o alla coalizione. A riguardo, in Emilia-Romagna il Pd non è il primo partito e il centrosinistra non è la prima coalizione.

Per questo Salvini è in campo. Non per accentuare il carattere nazionale della consultazione elettorale quanto piuttosto per spostare il “quadro di senso”, la cornice, all’interno della quale le persone decideranno se e per chi votare: dal candidato al partito, terreno dove la Lega può vincere.

Perché l’elettorato di una delle Regioni meglio amministrate e più ricche d’Italia dovrebbe sfiduciare il governo regionale in carica? L’Emilia-Romagna funziona bene in almeno tre aspetti importanti per la vita delle persone e delle imprese, come ci ricordano F. Ramella e A. Bosco su La Rivista de Il Mulino.

La ragione ha buone performance economiche; genera inclusione e coesione sociale; dimostra un’elevata qualità della governance locale. L’export tira, le imprese innovano, ci sono investimenti importanti, l’occupazione è cresciuta. Dall’analisi di Baldini e Patriarca, pubblicata su La Voce.info, emerge che è una delle Regioni italiane dove tra il 2007-2008 e il 2016-2017 la diseguaglianza nei redditi è addirittura diminuita. E i tassi di povertà assoluta e relativa risultano inferiori alla media nazionale. In questo quadro, già nel 2016, l’Emilia-Romagna aveva varato un Reddito di Solidarietà per sostenere le famiglie in difficoltà, a rischio di esclusione sociale.

Se non dalle diseguaglianze economiche o da quelle sociali, quindi, il possibile sgambetto al governo regionale in carica potrebbe venire dalle cosiddette “diseguaglianze di riconoscimento”, un tema questo caro al Forum diseguaglianze e diversità. Siamo di fronte a questo tipo di diseguaglianze quando le persone sentono che le proprie domande sono misconosciute – dalla politica, dalla amministrazione, dalla cultura, dalla classe dirigente – vuoi perché non comprese nelle loro specificità, vuoi perché apertamente ignorate.

Le diseguaglianze di riconoscimento funzionano come un Robin Hood al contrario: non riconoscere che la tassazione – almeno quella sotto il controllo regionale – deve essere diversa tra chi vive in Appennino e chi sta in pianura, che un Comune lontano dai servizi debba avere risorse dedicate, infatti, può configurare un danno economico importante che risulta del tutto inaccettabile dal punto di vista simbolico e identitario.

Si tratta, poi, di diseguaglianze di riconoscimento non solo “verticali”, tra territori più e meno fortunati, ma anche “orizzontali” tra pezzi del ceto medio e della classe dirigente. Diseguaglianze, queste, che si annidano nei luoghi centrali, forti economicamente ma esclusi dalle filiere di cooptazione della classe dirigente regionale. Voglia di cambiare dopo decenni, ma non solo o tanto per “vedere l’effetto che fa”, ma per il controllo delle risorse e delle decisioni nei luoghi che contano. Una saldatura, questa tra luoghi marginali e homines novi, che potrebbe avere conseguenze importanti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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