di Patrick Cockburn 22 Gennaio 2020
Oggi il leader supremo dell’Iran, Ali Khamenei, ha tenuto il suo primo sermone del venerdì a Teheran da otto anni a un uditorio di migliaia di persone, cercando di placare la furiosa reazione pubblica all’abbattimento per errore di un aereo ucraino che trasportava 176 passeggeri da parte delle Guardie della Rivoluzione che poi hanno continuato a mentire per tre giorni sulla loro responsabilità.
Khamenei ha parlato del “vile” assassinio del generale Qassem Soleimani da parte degli USA e dello sfruttamento da parte del presidente Trump della distruzione dell’aereo per “piantare un pugnale avvelenato” nella schiena del popolo iraniano. Florilegi retorici come questi non gli faranno molto bene con i critici che considerano l’abbattimento un esempio dell’incompetenza, duplicità e divisione del suo governo.
Ma la natura della crisi differisce marcatamente dal modo in cui è dipinta all’estero. Poiché è andata storta ben più che una serie di cantonate. Oscurato in mezzo agli applausi e alle denunce dirette a Soleimani e Khamenei c’è il fatto che le politiche di entrambi gli uomini in Medio Oriente erano diventate controproducenti.
Negli ultimi quattro anni l’Iran ha avuto grande successo nell’estendere la sua influenza in paesi con vaste popolazioni sciite. Ma ha mancato di consolidare lo status quo per creare il quale aveva avuto un ruolo così esteso. “Gli iraniani sono in gamba nel raccogliere le carte, ma non nel giocarle”, è un vecchio detto nella regione.
Nonostante i successi iraniani in Iraq, Siria e Libano, la struttura del potere in tutti e tre i paesi è traballante e tendente alla crisi. Negli ultimi quattro mesi Iraq, Libano e Iran sono stati scossi da proteste di massa, mentre la Siria è negli spasimi finali della guerra civile.
Molto dipende da come la dirigenza iraniana reagirà nei prossimi mesi all’assassinio di Soleimani, già il suo viceré di alto profilo che controllava la zona d’influenza iraniana. Potrebbe continuare a dirigersi a un conflitto a tutto campo USA-Iran o, solo forse, virare verso un qualche genere di accordo di compromesso.
Nessuna delle due parti vuole una guerra, come dimostrato dalla tardiva rivelazione statunitense degli undici soldati feriti dall’attacco dei missili balistici iraniani contro due basi USA in Iraq l’8 gennaio. All’epoca Trump aveva rassicurato il mondo che non c’erano state perdite statunitensi e perciò nessun bisogno che lui le vendicasse. Contemporaneamente paramilitari iraniani in Iraq sono stati istruiti di non attaccare strutture statunitensi al fine di ridimensionare la crisi.
Nel più lungo termine, se l’Iran continuerà con le politiche perseguite da Soleimani e Khamenei, si sentirà obbligato a riprendere una guerra a bassa intensità per opporre un contrappeso alle sanzioni statunitensi. Prima che ciò accada, l’Iran dovrà decidere se vorrà usare l’eliminazione di Soleimani per ideare nuove strategie per sostituire quelle che hanno fallito.
Nessuno osserva i mutevoli venti politici a Teheran più degli iracheni, che sanno che il loro paese è dove si risolve la lotta USA-Iran.
“L’Iran è in una posizione molto critica”, dice un eminente politico iracheno sciita a Baghdad sulla rivista in rete Middle East Eye. “La politica perseguita in precedenza da Khamenei nel gestire il dossier iracheno e la regione non è più vincente. Le Guardie della Rivoluzione iraniane hanno contribuito e creare problemi in Iraq che sono diventati un fardello per l’Iran e un ostacolo nel percorso dei suoi negoziati con gli Stati Uniti”.
Le discussioni che ora hanno luogo in Iran riguardano se le Guardie della Rivoluzione debbano conservare il dossier iracheno o se lo stesso sia passato a qualche altro organo, quale lo spionaggio o il ministero degli esteri. L’ex vice di Soleimani e candidato alla sua successione quale capo delle forze Quds, Esmael Ghaani, ha gestito l’Afghanistan e ha meno familiarità con il Medio Oriente.
Molto di lato alla pressione statunitense per il disimpegno, è molto negli interessi dell’Iran in Iraq assumere un ruolo meno concreto e guardare al governo iracheno e ai partiti politici sciiti per cacciare gli USA. In Siria, dove l’Iran aveva orchestrato il sostegno al presidente Bashar al-Assad dopo il 2011, una ritirata iraniana è realizzabile, perché Assad ha in larga misura vinto la guerra per restare al potere e dal 2015 il ruolo principale nel sostenerlo è stato assunto dalla Russia.
Considerati questi sviluppi, dovrebbe essere più facile di quanto sembri per Teheran e Washington raggiungere un accordo o ridurre l’attivismo regionale iraniano. Il problema è che nella politica mediorientale tutti tendono a esagerare una volta o l’altra, solitamente quando finiscono per avere troppa fiducia di potere mettere permanentemente l’avversario al tappeto. Gli USA sono ripetutamente caduti in questa trappola in Afghanistan, Iraq e Siria ed è sin troppo probabile che facciano lo stesso nel loro confronto con l’Iran che, quali che siano le intenzioni delle due parti, rimarrà uno stallo pericoloso, sempre a rischio di sfociare in una guerra vera e propria.
Le pretese massimaliste statunitensi riguardo alle strutture nucleari, missili balistici e influenza regionale dell’Iran in effetti significano che gli Stati Uniti vogliono un cambiamento di regime o una capitolazione. Entrambi gli esiti sono possibili; nessuno dei due è probabile. La dirigenza iraniana tende a compattarsi quando minacciata ed è pronta a usare qualsiasi livello di forza per restare al potere. Le capitali occidentali hanno ottimisticamente cercato una fine del regime clericale a Teheran dopo il rovesciamento dello Scià nel 1979, ma inutilmente.
Il presidente Trump si è ritirano nel maggio del 2018 dall’accordo sul nucleare iraniano senza una spiegazione coerente di che cosa non andasse in esso o con che cosa sarebbe stato sostituito. Da allora, sia l’Iran sia gli Stati Uniti hanno attuato quelli che potrebbero essere considerati atti di guerra, culminati negli ultimissimi mesi negli attacchi iraniani di strutture petrolifere saudite e nell’assassinio statunitense di Soleimani. In ciascuna occasione entrambe le parti hanno evitato rappresaglie a tutto campo, ma tale moderazione resta sul filo del rasoio e non può durare per sempre. La base per un accordo esiste, ma questo non significa che esso si concretizzerà.
da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-us-and-irans-perpetual-almost-war-is-unsustainable/
Originale: The Independent
Traduzione di Giuseppe Volpe