Al World Economic Forum di Davos sembra essersi insinuata tra i potenti la consapevolezza che per il capitalismo globale i nodi siano arrivati al pettine
«Al congresso sono tanti / dotti, medici e sapienti / per parlare, giudicare / valutare e provvedere». Non serve scomodare Edoardo Bennato per percepire come a Davos, tra sorrisi rassicuranti e sguardi cortesi, la paura dei potenti abbia assunto, per la prima volta, le vesti della padrona di casa. Il fatto è che sono giunti contemporaneamente al pettine due nodi potenzialmente devastanti per il destino del capitalismo, tanto caro ai partecipanti, accorsi da tutto il pianeta.
Il primo nodo è paradossalmente dovuto al successo del sistema che, nell’epoca della finanziarizzazione spinta, ha prodotto un tale accentramento di ricchezze e, specularmente, una tale diffusione di povertà, da scatenare rivolte di massa in diversi paesi e regioni (dal Medio Oriente all’America Latina, dall’India alla Francia), contro le politiche di austerità e contro le élite politico-economiche, divenute, in questi decenni, vere e proprie oligarchie.
Ecco allora Klaus Schwab, nientemeno che fondatore e direttore del World Economic Forum, fare un accorato appello (intervista a ‘La Repubblica’ 18 dicembre 2019) affinché inizi l’«era del capitalismo responsabile», motivandola con il fatto che oggi il mito della globalizzazione positiva non regge più perché «grazie al web c’è una nuova consapevolezza per cui l’accesso a salute, scuole e condizioni di vita decenti per tutti è diventato fondamentale. Nessuno può essere lasciato indietro. E chi resta indietro ha la capacità di mobilitarsi con facilità, come dimostrano i gilet gialli».
A questa prima preoccupazione, se n’è aggiunta con prepotenza un’altra, dettata dall’accelerazione della crisi climatica, inizialmente vista come una nuova prateria per l’espansione degli interessi finanziari, il decantato capitalismo “verde”, benvoluto da un ampio arco di soggetti che va dal re dei fondi di investimento, BlackRock, fino ad alcune delle maggiori associazioni ambientaliste. Ma anche su questo versante il panico inizia ad emergere: da una ricerca prodotta proprio dal WEF, risulta come settori interi dell’economia – edilizia, agricoltura e alimentare – potranno essere «significativamente sconvolti» dalla crisi climatica, con la messa sicuramente a rischio di attività pari al 15% del Pil globale e impatti negativi su altre attività pari ad un ulteriore 37% del Pil globale. «Per non mettere a repentaglio la nostra sicurezza economica, dobbiamo non considerare più come esternalità i danni che l’attività economica arreca all’ambiente», conclude la ricerca.
Gli ha fatto immediatamente eco un recente rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), secondo il quale la prossima devastante crisi finanziaria potrà essere provocata da un evento catastrofico legato al cambiamento climatico, in grado di innescare effetti drammatici sul sistema finanziario, assolutamente impreparato, visto che già oggi, secondo la ricerca, solo il 44% delle perdite finanziarie causate da eventi di questo tipo sono coperte negli Usa (in Asia l’8% e in Africa il 3%). Insomma, all’ormai classico “cigno nero” (evento economico straordinario e traumatico), sta sostituendosi il “cigno verde”, con potenzialità ancor più negative.
Tutto bene, dunque, visto che anche i ricchi hanno finalmente capito? Non scherziamo. La preoccupazione degli accoliti di Davos è unicamente legata al buon andamento dei titoli di Borsa e, come diceva il compianto Valentino Parlato, «la borghesia è illuminata finché qualcun altro paga la bolletta della luce».
Ciò che in realtà va bene è che il re sia finalmente visto nudo e che l’estrattivismo finanziario (trappola del debito), naturale (saccheggio dei beni comuni) e relazionale (patriarcato) di cui si nutre sia sempre più chiaro nella consapevolezza dei popoli.