Foodinho: per la Cassazione hanno ragione i cinque ciclo-fattorini di Torino a rivendicare un trattamento da dipendenti

Ai rider vanno applicate le tutele del lavoro subordinato, quindi ha torto Foodinho, l’azienda che ha rivelato Foodora, e hanno ragione i cinque ciclo-fattorini di Torino a rivendicare un trattamento da dipendenti. La Cassazione chiude una vicenda che era iniziata due anni e mezzo fa. Nella sentenza si spiega come già perfino il Jobs act nella versione originaria garantiva l’inquadramento di quel tipo di lavoro nella subordinazione. Figurarsi adesso che nel decreto salva-imprese sono state inserite salvaguardie ad hoc che assicurerebbero ai ciclofattorini tutte le tutele del lavoratore dipendente: dalle ferie alla malattia alla maternità. Nel dettaglio, nella pronuncia si spiega che c’è un confine valicato il quale le cose cambiano. Linea che si oltrepassa quando l’etero-organizzazione del lavoro «è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente». A questo punto «si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato». Ed è quanto è accaduto, sempre secondo i giudici di ultimo grado, ai cinque rider in questione che attraversavano la città in sella alla bicicletta, munita di box per il trasporto del cibo, e con in mano lo smartphone per ricevere gli ordini sulle consegne tramite apposita piattaforma digitale. Già la Corte di appello di Torino aveva in parte riconosciuto ciò ma adesso la Cassazione va oltre, sostenendo che non sia necessario fare riferimento a una terza via, intermedia tra autonomia e subordinazione. Semplicemente quando nella collaborazione continuativa è il committente a stabilire luogo e tempi, e c’è un rapporto one to one, scatta un altro pacchetto di tutele, che è, appunto, quello che hanno i dipendenti.

Da novembre sono in vigore norme che rendono ancora più ampia la platea dei co.co.co a cui assicurare il trattamento della subordinazione. Il decreto prevede inoltre per tutti i ciclo-fattorini il superamento del cottimo, una paga agganciata ai contratti collettivi e tutele sanitarie e previdenziali. Per quanti portano piatti pronti sulle due ruote con regolarità, insomma per i rider di professione, vale il trattamento da lavoro subordinato. Quindi un doppio binario: un nocciolo di garanzie che vale per chi svolge il servizio occasionalmente e le condizioni del lavoro dipendente per quanti sono impiegati in modo continuativo. Sempre la legge stabilisce che da febbraio parte la copertura Inail mentre entro novembre di quest’anno dovrebbe essere determinato il compenso minimo. I sindacati leggono la sentenza come una vittoria e ora chiedono in coro di trasferire al settore gli standard del contratto collettivo relativo alla logistica. «Il sistema delle multinazionali del Food Delivery non può più nascondersi dietro il falso mito del nuovo lavoro e della completa autonomia della prestazioni», incalza la Cgil. E per la Cisl va «subito insediato presso il ministero del lavoro l’Osservatorio previsto». Lo scontento si leva invece proprio dai rider, o meglio da una loro corrente, a cui la subordinazione sta stretta. «Siamo lavoratori autonomi», insiste il rider Nicolò Montesi presidente dell’Anar che, fa sapere, conta oggi 500 iscritti. «Noi chiediamo maggiori tutele ma ci dissociamo dal definirci adesso come in futuro subordinati perché il lavoro in sé non può essere concepito diversamente». Montesi, insomma dice sì a «più tutele» ma «definendoci comunque lavoratori autonomi», spiega il rider protagonista delle proteste che avevano accompagnato l’iter del dl imprese, il provvedimento, diventato legge a fine ottobre, che riserva un capitolo proprio alla disciplina di ciclo-fattorini. «Noi possiamo interrompere in qualsiasi momento la collaborazione e collaborare nel frattempo con più piattaforme decidendo quante ore lavorare, dove lavorare e potendo rifiutare ordini», spiega il rider dopo la sentenza della Cassazione. «La piattaforma in questione, in questo caso Foodora era organizzata in modo completamente diverso rispetto alle altre piattaforme» e «non possiamo paragonare le loro modalità di assunzione con quelle di oggi», dice sempre con rifermento alla pronuncia della Corte.

In attesa delle contromosse dei padroni del settore, la decisione dei giudici accende però anche il dibattito politico e fa profondere fiato a esponenti di Italia Viva e del Pd che vorrebbero attribuire la vittoria in Cassazione alle virtù del jobs act, una delle controroforme del lavoro di dubbia costituzionalità e più feroci, passata come un coltello nel burro grazie alla sostanziale inerzia dei sindacati confederali. Prima del jobs act non c’era alcun contratto, nel codice civile, in cui non fosse previsto il risarcimento integrale della parte lesa tra i contraenti. Ora, anche con l’abolizione del jobs act, il lavoratore vale meno di una merce difettosa, sempre più solo di fronte al datore di lavoro. E’ un ribaltamento del senso stesso del diritto del lavoro: una branca del diritto civile sorta per riequilibrare i rapporti nell’evidenza di uno squilibrio tra il datore di lavoro e chi deve vendergli le sue braccia.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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