Fallita la spallata di Salvini (per merito suo), ma restano tutti i problemi del governo e del Pd, anche se l’ipotesi di elezioni anticipata è stata abbandonata. E adesso, che comincino le lotte vere

Che il destino crudele e la madonna fasulla di Medjugorje ce lo conservino a lungo, il volpino stratega Salvini, che per la seconda volta ha buttato via i frutti di una bulimica fatica e di una criminosa demagogia per eccesso di iattanza e carenza di prospettiva politica. Con tutto il riconoscimento al pragmatismo centrista di Bonaccini e al soccorso insperato delle Sardine, il Pd stava con l’acqua alla gola e nel fine settimana i sondaggi preannunciavano, ben censurati, un crollo rovinoso che ormai Zingaretti aveva messo in conto. Scampato pericolo e grazie Matteo. Che ha perso, ma senza che si possa parlare nel caso emiliano di una vera vittoria del Pd, che si è limitato ad arginare il declino, per fortuna sua, degli emiliano-romagnoli e degli italiani tutti, inclusi i migranti con e senza permesso di soggiorno.

Intendiamoci: nel breve-medio periodo aver confermato una Regione diventata contendibile non è cosa da poco per il Pd, ma l’affanno con cui ci è arrivato e l’accurata messa in ombra sia del simbolo che della connessione con il governo nazionale, nonché il ruolo giocato dalle Sardine e dall’invocazione del voto disgiunto, inibiscono smisurati entusiasmi. Si è trattato di una buona difesa locale e il dato saliente a livello nazionale per i Dem è la dissoluzione dei 5 Stelle e il ritorno tendenziale al bipolarismo.

Non sentiremo più parlare in stile talk show di Bibbiano e ci saranno meno citofonate (Conte, per esempio, ha scampato quella annunciata per lunedì mattina), ma i problemi di governo, al di là della tenuta immediata, restano tutti in piedi. E restano le sconfitte nelle altre Regioni e nella stessa Emilia-Romagna la perdita di amministrazioni comunali storiche e di intere aree.

Se la Lega arretra in Emilia-Romagna rispetto alle Europee e cede il primo posto di nuovo al Pd, in Calabria si dimezza, per di più a favore della rivale e resuscitata Forza Italia. Il risultato è significativo perché stronca a mezza strada quella conquista del bacino di voti meridionale che costituiva l’unica possibilità di un trionfo elettorale leghista a livello nazionale. Nella penosa dichiarazione di Salvini domenica notte, in mezzo a sproloqui ecumenici sulla partecipazione, l’amore, il festival sessista di San Remo e la guida turistica alle bellezze regionali, spiccava un silenzio: il Truce non ha più chiesto elezioni anticipate e il primo a notarlo è stato l’abbacchiato direttore di “Libero”, Senaldi.

La “cavalcata emozionante” è diventata non tanto una traversata nel deserto quanto una ritirata nella palude, con i cecchini di Giorgetti pronti a sparare, se non oggi domani.

Sempre per restare in Calabria, oltre al sorpasso locale della ‘ndrina affarista forzitaliota sulla ‘ndrina sanguinaria leghista, constatiamo che il civismo di centro-sinistra di Tansi (quasi al 10%) ha scavalcato alla grande il M5s e ha strappato parecchi voti al listone padronale piddino inscatolato da Callipo – e sembra un buon auspicio in controtendenza all’immagine troppo discreditata o rassegnata di quella regione.

E adesso? Prevedere cosa avverrà nel M5S, che ha ancora la maggioranza parlamentare relativa e (in apparenza) il Presidente del Consiglio, supera ogni capacità razionale. Però molto potrà il terrore di nuove elezioni che spedirebbero il grosso della truppa alla fruizione del reddito di cittadinanza, visto che le liste della Lega saranno avare dopo questa battuta d’arresto.

Cresce il potere di ricatto di Renzi, non a caso il più euforico, ma anche lui atterrito dalla parola “scioglimento delle Camere”, però il vero dilemma si pone ora per il Pd. Che fare? Puntare all’abrogazione dei decreti Salvini o trattare sulla prescrizione? Sono due scelte tutt’altro che rivoluzionarie in sé, ma di diversa qualità e impatto. Dopo i risultati regionali la prima via sembra l’unica fruttuosa, in cui cioè l’interesse soggettivo del Pd e quello dell’Italia un poco coinciderebbero ­– purtroppo anche sulla razionalità politica di un gruppo dirigente debole poco si può contare, anche se Zingaretti e Franceschini non sono Di Maio e Crimi. E infatti le prime prese di posizione (Orlando, che non è nemmeno il più di destra) vertono sulla modifica dell’asse politico e sulla giustizia.

Passata la paura, la logica di élite tende a rinsaldarsi e all’ordine del giorno balza l’idea di “stressare” il partner di governo con aggiustamenti di compatibilità. Tocca invece alle lotte e ai movimenti “stressare” il governo per infrangere e demolire le gabbie costruite per impoverire e discriminare gli sfruttati e i poveri di ogni tipo ed etnia: cancellare, con i decreti sicurezza, le misure vessatorie nei confronti dei migranti e dei loro soccorritori e le pene spropositate messe in campo per frenare la conflittualità sindacale e urbana, le vertenze sociali, le manifestazioni, i picchetti e le occupazioni, ristabilire sistemi umani di accoglienza e rilanciare quote per migranti e ius soli, spezzare la mafia degli appalti e delle cooperative farlocche, sabotare i meccanismi “legali” che incentivano la precarietà, il lavoro nero e gratuito, le discriminazione per sesso e titolo di cittadinanza e soggiorno. Uno stress test che verifichi l’affidabilità e l’utilità del governo in carica, come si fa per le banche. Altrimenti tutta questa saga regionale finirebbe con l’essere solo un espediente per galleggiare.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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