“Sfatare i luoghi comuni sul Pubblico impiego. Fuorviante il dibattito tra garantisti rigoristi”. Il Domenicale di Controlacrisi, a cura di Federico GiustiC
Un luogo comune diffuso ad arte e duro da morire, quello per il quale nella Pubblica Amministrazione tutto sarebbe consentito al contrario del privato dove la forza lavoro avrebbe innumerevoli regole da rispettare.
Niente piu’ di uno stereotipo che non tiene conto della realtà degli ultimi 15 anni omettendo i quasi 9 anni di blocco della contrattazione decisa per legge e senza alcuna mobilitazione dei sindacati complici.
La pubblica amministrazione italiana presenta la forza lavoro piu’ anziana della Ue, meno pagata rispetto a tanti altri paesi, innumerevoli servizi un tempo pubblici sono stati esternalizzati e cosi’ tante professioni sono state condannate ai bassi salari, ai contratti part time, alla precarietà.
Allora non ha senso parlare di rigorismo se pensiamo che nel corso degli anni gli arretrati contrattuali si sono trasformati in indennità di vacanza contrattuale pari a una decina di euro al mese, considerato che, tra codici di comportamento e norme disciplinari, sono in continuo aumento i lavoratori oggetto di sospensione o di licenziamento.
Solo nell’anno 2017 erano quasi 350 i dipendenti licenziati, migliaia quelli sospesi per giorni, settimane o mesi senza retribuzione alcuna, il dipendente pubblico non rischia il posto per crisi aziendale ma al contempo ha dovuto cedere sul salario, sui diritti, sui carichi di lavoro, sulle tutele contrattuali.
Per essere licenziati nel pubblico occorre poco, non parliamo solo dei cosiddetti furbetti del cartellino, basta ad esempio non dichiarare qualche passata denuncia\condanna, rifiutare un trasferimento (magari iniquo e dettato da soprusi), riportare una condanna penale definitiva (ricordiamo i licenziamenti politici avvenuti negli ultimi anni di attivisti processati e condannati per manifestazioni sindacali e politiche), violare ripetutamente il codice disciplinare semplicemente contestando un ordine dirigenziale. Oppure si puo’ essere licenziati dopo anni di valutazioni negative attraverso il cosiddetto ciclo della performance, ad oggi eventi rari ma normativamente possibili dentro la cultura vigente dello pseudo merito. E ben pochi sanno che perfino il dirigente, o funzionario, che non attivi i procedimenti discplinari, rischia lui stesso il posto di lavoro, quasi un invito a segnalare casi alla Procura della Repubblica alimentando cosi’ un clima di paura nella forza lavoro.
Come vediamo, innumerevoli possono essere le cause di licenziamento e conoscerle eviterebbe di cadere nei luoghi comuni che, alimentati da narrazioni tossiche, diventano una sorta di dogma.
Poi esistono altri elementi rilevanti a lungo taciuti, ad esempio se un contratto a tempo determinato è illegittimo (ad esempio nella durata del contratto passato recentemente da 36 a 24 mesi), nel privato scatta la conversione al tempo indeterminato, nel pubblico impiego invece solo il risarcimento economico pari a poche mensilità. E questa disparità di trattamento è stata costruita ad arte, ad esempio ha salvato lo Stato dall’assunzione di circa 150 mila insegnanti supplenti nelle scuole.
Poi la Riforma Madia ha cancellato l’art 18 ma, al contrario del jobs act per il privato, ha stabilito alcune norme vantaggiose e valide solo per il Pubblico e in questo caso esistono tutele reali maggiori rispetto al Privato (dove ormai non esiste piu’ la reintegra ma solo il risarcimento, fermo restando che la normativa, dopo la sentenza della Consulta, sarà rivista nelle prossime settimane).
Sempre confrontando pubblico e privato, da oltre 20 anni non esistono piu’ nel pubblico i mansionari, e cosi’ è decisamente cresciuta la flessibilità del dipendente, maggiori sono le prestazioni esigibili pur dentro le declaratorie proprie di ogni profilo professionale. L’obiettivo di molti è invece andare ben oltre e applicare quella clausola, fortemente voluta da Renzi quando era Presidente del Consiglio, che prevede il declassamento di livello quando si tratta di salvare il posto di lavoro. In questo modo il potere dirigenziale sarebbe cosi’ esteso da decidere vita e morte (professionale e salariale) dei lavoratori pubblici. Alla PA in realtà servirebbe altro, prima di tutto la formazione, carente o addirittura inesistente in tanti settori, l’ammodernamento degli strumenti di lavoro, la informatizzazione di tanti servizi, assunzioni per figure professionali carenti (in primis nella sanità).
Nella Pubblica amministrazione la performance ha anticipato i tempi di quel processo involutivo che ha portato, anche nel privato, a barattare parti di salario con la competizione tra lavoratori e lavoratrici e l’accrescimento dei ritmi e della produttività individuale. Nella Pa non esiste quattordicesima ma una sorta di produttività determinata dal fondo del salario accessorio, la produttività per contratto deve essere diseguale, sono sempre piu’ numerosi i casi di dipendenti valutati negativamente o con votazioni basse determinando cosi’ la perdita salariale. Vogliamo asserire che sia giusta la disuguaglianza salariale ? Pensiamoci bene perchè a determinare il salario accessorio non sono criteri oggettivi e correggibili ma le valutazioni discrezionali dei dirigenti. E la performance non ha accresciuto la produttività dei dipendenti pubblici, piuttosto è servita come strumento ricattatorio.
Vogliamo infine parlare delle fasce di reperibilità che scaturiscono dallo stereotipo Brunettiano del dipendente pubblico fannullone? Nel pubblico la reperibilità giornaliera in malattia è di 7 ore, nel privato invece 4.
Nel pubblico impiego si lavora male, talvolta anche poco perchè non ci sono stati investimenti reali e il personale è sempre piu’ demotivato.
Per capirlo basta vedere la quota 100, i dipendenti pubblici in uscita anticipata sono cresciuti di oltre il 300%, nel privato aumentano solo del 33%. Dato rilevante se pensiamo che tra i luoghi comuni duri da morire c’è quello del lavoratore pubblico privilegiato. Se tale fosse, allora, perchè vorrebbe scappare via anche a costo di subire il taglio dell’assegno previdenziale?
L’aumento dei dipendenti pubblici che vanno in pensione è senza dubbio legato alla finestra semestrale che ha spinto molti ad anticipare la richiesta di pensione, tuttavia ci sono anche altre spiegazioni, prima tra tutte il fatto che nella Pa si sta male, si lavora in condizioni di disagio, i carichi di lavoro sono in continuo aumento, sono in molti a non sentirsi valorizzati e motivati, aumenta lo stress, l’impotenza e la demotivazione da cui scatta la necessità di anticipare l’uscita dal lavoro anche a costo di pensioni piu’ basse.
Ma complessivamente, se guardiamo ai numeri dei pensionati in quota 100, l’aumento della spesa èpari al 5%, giusto per confutare il luogo comune dell’anticipo previdenziale come “salasso” per le casse Statali. E a proposito di presunti privilegiati, i dipendenti pubblici impiegano due mesi per la liquidazione delle pensioni, nel privato basta un solo mese.
Cui prodest allora lo stereotipo del dipendente pubblico fannullone, privilegiato e garantito?