Dopo quattro anni di attesa è stata finalmente presentata la bozza per un nuovo regolamento delle concessioni dei beni appartenenti al patrimonio demaniale e indisponibile di Roma Capitale. E subito si è acceso lo scontro con le realtà interessate

Il tema della gestione del patrimonio indisponibile di Roma è finalmente tornato a esplodere nel dibattito politico e sulle pagine dei quotidiani. Sono cinque anni che gli spazi sociali e le associazioni che hanno ottenuto l’assegnazione di edifici pubblici, sottraendoli spesso all’abbandono e comunque riempiendoli di attività destinate a migliorare la vita della collettività, attendono un nuovo regolamento delle concessioni. È dal 2015 che queste realtà sono minacciate di sgombero e perseguitate da incredibili richieste di presunti arretrati del valore di centinaia di migliaia di euro. Questa vicenda ha subito una nuova svolta la settimana scorsa. Venerdì 31 gennaio la Commissione patrimonio e politiche abitative si è riunita per presentare la bozza di «Regolamento delle concessioni dei beni immobili appartenenti al patrimonio demaniale e indisponibile di Roma Capitale».

Secondo quanto affermato dal presidente Francesco Ardu (Movimento 5 Stelle) era quella l’occasione per invitare la città a un percorso di partecipazione sul regolamento, che intanto sarà anche vagliato dai municipi. «Ascolteremo tutti – ha detto Ardu – anche se poi saremo noi a decidere quali modifiche accogliere e quali no». Le realtà sociali presenti alla seduta, però, hanno duramente contestato il metodo di partecipazione immaginato dai 5 Stelle. Pur riconoscendo l’importanza dell’iniziativa consiliare, che arriva con quattro anni di ritardo ma era molto attesa, associazioni e spazi sociali hanno criticato l’idea dei grillini di aprire a valle e non a monte della scrittura del provvedimento la partecipazione della cittadinanza.

La bozza di testo, infatti, è stata depositata e pertanto non sarà semplice discuterne l’impianto generale, mentre i singoli emendamenti dovranno essere presentati in Aula dai consiglieri (elemento che in molti casi può precluderne l’approvazione). Comunque, sia durante l’incontro che successivamente sui canali online la maggioranza ha ribadito l’apertura al dialogo. Una nuova convocazione della commissione dovrebbe giungere entro quindici giorni. Prima di analizzare il regolamento nel merito è utile riavvolgere il nastro di una storia che inizia più di 30 anni fa.

LE DUE DELIBERE

Il 2 febbraio 1995 la giunta capitolina guidata da Francesco Rutelli approva la storica delibera 26, presto ribattezzata la «delibera dei centri sociali». A Roma è dalla metà degli anni 80 che collettivi e gruppi politici hanno iniziato a occupare. Hai visto quinto?, Blitz, Forte Prenestino e poi Spartaco, Corto Circuito, La Torre, Il Faro sono realtà ormai consolidate che offrono ai giovani spazi di aggregazione e socialità alternativa, ma anche luoghi in cui autorganizzarsi riprendendo in nuove forme la spinta antagonista del decennio ’68-’77 soffocata dalla repressione dello Stato e dalla ristrutturazione capitalista del decennio successivo. Alla metà degli anni ’90, però, questi nuovi soggetti metropolitani danno già troppo fastidio. Quando il 9 agosto 1994 la polizia sgombera a Milano la nuova sede del centro sociale Leoncavallo, in via Salomone 71, il premier è Silvio Berlusconi (Forza Italia) e il ministro dell’Interno Roberto Maroni (Lega Nord). Per chiarire che la nuova occupazione di via Watteau, realizzata l’8 settembre, non deve essere toccata, un enorme corteo sfila nel capoluogo lombardo il 10 settembre. I manifestanti di «opposizione sociale» si scontrano con la polizia, mettono in fuga la celere e riescono a raggiungere il palazzo occupato e tenerlo, nonostante l’assedio della polizia. Il segnale è forte e chiaro: i centri sociali non si toccano. Poche settimane dopo, un’analoga manifestazione di massa, stavolta non violenta, sfila per le strade di Roma.

Qui con il sindaco Rutelli si parla di un laboratorio alternativo alle destre che governano a livello nazionale e in molti regioni. Una parte dei centri sociali sceglie di rivendicare la regolarizzazione, aprendo la strada che porterà alla delibera 26. L’obiettivo è uscire dall’emergenza continua del rischio sgomberi e avere la possibilità di programmare iniziative e attività di medio-periodo negli spazi (dove intanto sono nate palestre popolari, osterie a prezzi accessibili, sportelli per la difesa dei lavoratori, laboratori di produzione informatica e culturale e molto altro). Una parte del movimento critica duramente questa scelta. A molti anni di distanza, però, a Roma e in molte altre città chi allora accusava di negoziare con lo Stato gli spazi di autonomia o è scomparso oppure ha ricercato a sua volta, in alcune occasioni con successo, l’assegnazione di edifici pubblici. Unica eccezione rimane la componente del movimento di ispirazione anarchica.

In ogni caso, la potenza che il movimento dei centri sociali aveva a Roma negli anni ’90 ha permesso di trasformare la legalità esistente e scrivere dal basso una delibera che ha garantito a decine di altre realtà sociali, politiche e culturali meno combattive la possibilità di ottenere uno spazio in cui portare avanti attività mutualistiche, solidali, di volontariato. Associazioni che non avevano la forza o la volontà di occupare e praticare il conflitto hanno così avuto la possibilità di usufruire in maniera più semplice rispetto al passato di una parte di patrimonio indisponibile del comune, pagando un canone calmierato.

Che la delibera 26 abbia avuto un effetto moltiplicatore del tessuto sociale romane è diventato lampante vent’anni dopo, quando il combinato dell’azione del magistrato della Corte dei conti Guido Patti e gli effetti della delibera 140/2015 votata dalla giunta Marino ha fatto partire oltre 200 lettere di sgombero nei confronti di associazioni e spazi sociali che grazie a quella misura normativa avevano ottenuto una casa. Tra loro c’erano scuole di musica, associazioni di persone malate o che assistono bambini con gravi problemi, palestre, gruppi di volontariato e molto altro. Praticamente tutta la parte di città più attiva è finita sotto attacco e sotto accusa. Secondo Patti, infatti, queste realtà avevano causato un danno erariale al Comune al pari di coloro che, abusando di concessioni privatistiche di beni indisponibili, le avevano utilizzate a scopi individuali o addirittura commerciali.

Il magistrato ha anche provato ad affermare la responsabilità in solido dei dirigenti che avevano firmato le assegnazioni, rischiando così di paralizzare completamente la macchina amministrativa con la minaccia che di ogni atto fosse responsabile, anche economicamente, il funzionario che lo adotta. Per fortuna, questa linea non è passata e con numerose sentenze la Corte dei conti ha rigettato la linea di Patti, asserendo con incredibile nettezza che gli immobili appartenenti al patrimonio indisponibile erano e sono, in quanto tali, destinati esclusivamente a finalità sociali e culturali. Dunque in nessun caso l’Amministrazione avrebbe potuto trarne una qualche redditività economica.

Intanto però le richieste di sgombero erano partite e anche quelle di risarcimento danni. Associazioni e spazi sociali, infatti, alla luce delle loro riconosciute attività sociali e culturali avevano pagato per anni, su bollettini regolarmente inviati dal Comune, un canone calmierato al 20%, previsto dalla delibera 26 come da tutte le altre delibere analoghe di ogni città italiana. Nella logica – perversa e illegale – in cui anche il patrimonio indisponibile ha una funzione economica, però, questo tipo di regime è sembrato ai funzionari non solo illegittimo ma anche dannoso per le casse pubbliche. Alla faccia di tutto il valore sociale prodotto gratuitamente, attraverso l’impegno di volontari e militanti, la Corte dei conti ha ricalcolato i canoni di affitto a prezzo di mercato (100%) e chiesto indietro cifre da capogiro. Sei milioni di euro ad Auro e Marco, 220 mila a Esc atelier, altrettanti a La Torre, e così via.

Questa vera e propria persecuzione amministrativa, anzi questa sorta di truffa amministrativa, peraltro risultata illegittima già in diversi casi, sarebbe potuta essere interrotta da un atto politico dell’amministrazione comunale. Che non è mai arrivato, almeno fino a venerdì. La bozza di regolamento delle concessioni presentata dalla commissione, però, rischia di non risolvere i problemi delle realtà associative e anche di crearne di nuovi, aprendo nuove occasioni alla speculazione immobiliare che allunga le mani su Roma e frapponendo inutili ostacoli economici e burocratici alla cittadinanza che rivendica spazi da restituire alla comunità.

IL MERITO DELLA PROPOSTA

Nonostante venerdì scorso non tutti avessero letto il testo, sia tra i consiglieri che tra le realtà sociali presenti, da un rapido sguardo sono emerse subito numerose problematicità, immediatamente segnalate al presidente della commissione Ardu. Sono principalmente di due tipi: di impianto; relative ad alcune singole previsioni.

Per quanto riguarda la struttura del regolamento, la prima critica sollevata è quella di non trattare in alcun modo la questione del patrimonio indisponibile all’interno della cornice dei beni comuni. Peccato, la commissione avrebbe potuto semplicemente fare riferimento alla legge recentemente votata a livello regionale, e dunque sovraordinata. Lo ha fatto notare lunedì scorso la consigliera regionale Marta Bonafoni, auspicando maggiore coraggio da parte dell’amministrazione comunale e accogliendo positivamente le aperture al dialogo da parte della maggioranza capitolina. Ardu, però, ha risposto sul suo profilo Facebook sostenendo che la consigliera avrebbe confuso i «beni comuni al centro di un dibattito tuttora aperto, sia in Parlamento che in Regione» con il «regolamento di beni indisponibili e demaniali di Roma Capitale».

Il tema, in effetti, è delicato: il Parlamento – dopo il fallimento della prima Commissione Rodotà – sconta oggi un ritardo mostruoso nel riconoscimento giuridico di questa terza forma di proprietà, ma ciò non ha impedito che in più di cento comuni in Italia venissero adottati regolamento amministrativi che riconoscono e promuovono la gestione del patrimonio pubblico (demaniale e indisponibile e, in alcuni casi, anche di quello disponibile) come «bene comune». A Roma, invece, questa possibilità continua a essere scandalosamente negata. In altri termini, la maggioranza a cinque stelle avrebbe potuto scegliere di dare agli immobili del demanio e del patrimonio indisponibile comunale una destinazione di gestione comune, come avviene ovunque in Italia, ma sta invece preferendo l’opzione di uno schema da un lato molto antiquato (la classica concessione amministrativa) e dall’altro molto pericoloso (la valorizzazione economica).

Erano state proprio le diverse reti di associazioni, come ad esempio Decide Roma e il Coordinamento Valore Sociale, o i vari gruppi di ricerca attivi sul tema, dal laboratorio Labsus al collettivo Reter, a spingere per interpretare la questione del patrimonio indisponibile attraverso la lente dei beni comuni. Questo perché soltanto così è possibile sottrarre davvero gli immobili alle mire della potente speculazione finanziaria e stabilire modalità di (auto)gestione di quella ricchezza in cui la cittadinanza sia effettivamente protagonista. Non si tratta di distinzioni concettuali o teoriche, ma di differenti impostazioni che hanno ricadute pratiche molto concrete.

Leggendo la bozza di regolamento presentata dai 5 Stelle lo si capisce subito, già dalla quinta riga. Lì è esplicitata la seconda premessa, molto importante per comprendere la ratio complessiva della norma. Dice così: «il patrimonio immobiliare capitolino costituisce una fondamentale risorsa economica, strumentale a garantire l’autonomia finanziaria della comunità locale». Queste due frasi sono semplicemente il capovolgimento di anni di battaglie che su vari livelli hanno detto che «Roma non si vende». È innegabile che una delle funzioni del patrimonio di Roma Capitale sia anche quella economica. È però significativo che in un regolamento sulle concessioni del patrimonio indisponibile, cioè quello che il codice civile vincola a una funzione pubblica, sia menzionata esclusivamente la funzionalità economica e non venga nemmeno fatto cenno a quella sociale, che dovrebbe invece essere assoluta in questo caso (ferma restando la possibilità di definire alcuni usi eccezionali anche di tipo commerciale, ma solo in quanto eccezioni alla regola appunto).

Collegato a quella premessa c’è l’articolo 24 sulla «Valorizzazione del patrimonio capitolino» che prevede collaborazioni tra pubblico e privato e la partecipazione di fondi di investimento immobiliari istituzionali «al fine di incrementare il valore economico e sociale del patrimonio». Questo articolo sembra il perfetto cavallo di Troia per aprire ai privati e alla speculazione la porta della gestione di edifici pubblici. A pensar male sembra anche tagliato sugli interessi di Cassa depositi e prestiti.

In maniera analoga è poi prevista la possibilità di utilizzare a scopi commerciali una parte di patrimonio, non certo residuale. Anzi, il regolamento non sembra porre alcun ordine di priorità tra uso commerciale e uso sociale. Tale questione è particolarmente complessa perché in passato vigili urbani e tribunali hanno tentato di usare il presunto utilizzo commerciale di un bene contro gli assegnatari che lo gestivano senza scopo di lucro. La presenza di un bancone per spillare qualche birra a sostegno delle attività gratuite che si tengono nello spazio, però, è cosa ben diversa dalla sua completa configurazione allo scopo di favorire gli interessi di privati o aziende. Con questo regolamento quegli interessi sarebbero perfettamente compatibili con la concessione di quote di patrimonio indisponibile, alla faccia della sua funzione pubblica che dovrebbe essere vincolante.

Altro tema contestato è quello dei bandi. Teoricamente dovrebbero garantire trasparenza nelle assegnazioni, ma di fatto mettono in concorrenza tra loro e con altri soggetti le realtà associative. La logica che dovrebbe governare il patrimonio indisponibile, al contrario, deve essere quella di favorire la cooperazione, lo scambio, il rafforzamento reciproco tra simili esperienze. I bandi, poi, dipendono sempre da come e da chi vengono scritti. Stimolare la concorrenza nel settore dell’associazionismo può tranquillamente significare mettere in competizione realtà molto piccole con altre molto grandi, enti no profit con aziende che hanno scopi commerciali e quindi patrimoni finanziari con cui non c’è gara. Esisterebbero molte altre modalità di calcolare il valore sociale prodotto dalle singole esperienze e su quella base definire le concessioni e garantire la possibilità che le attività che offrono maggiori benefici alla collettività vadano avanti. Succede già in molte città italiane ed europee, non si capisce perché a Roma sarebbe impossibile.

La logica del bando, tra l’altro, parte da due presupposti completamente assurdi: il primo, che l’Amministrazione pubblica abbia una qualche idea di quali funzioni, servizi, attività, sperimentazioni abbiano bisogno i territori, e dunque sappia giudicare i progetti; il secondo, che il patrimonio pubblico sia un bene scarso e che dunque il suo utilizzo debba avvenire su base competitiva. La realtà dei fatti dimostra esattamente il contrario: da un lato, l’Amministrazione si è dimostrata negli anni assolutamente incapace di immaginare e costruire persino singoli progetti di uso socio-culturale del patrimonio, figurarsi elaborare un piano complessivo per l’intera città; dall’altro, il patrimonio pubblico è immenso e per la maggior parte, ancora oggi, del tutto vuoto e abbandonato e pertanto di competizione si potrebbe (forse) parlare il giorno – lontanissimo – che tutti i beni fossero ripristinati all’uso pubblico, oltre che alla decenza urbanistica.

In fondo alla bozza di regolamento, poi, è contenuta l’attesa norma transitoria che dovrebbe traghettare chi al momento si trova nella zona grigia delle concessioni «anche se scadute, revocate con provvedimenti sottoposti a gravame non ancora passato in giudicato o relative, in analogia, a titoli di assegnazione divenuti nel tempo inefficaci». La formulazione sembra relativamente vaga e comunque tale da lasciare eccessivi margini di esclusione, ad esempio dei soggetti che – per vicende diverse – abbiano già ricevuto sentenze passate in giudicato. È il caso di alcune associazioni che, solo per un caso temporale (un provvedimento arrivato un anno prima, una sentenza con qualche mese di anticipo), hanno visto concludere i loro procedimenti giudiziari, identici nella sostanza agli altri ancora aperti. Quel passaggio, quindi, produrrebbe un’ingiusta discriminazione, che apre la strada a ricorsi e vertenze.

Sono esclusi dalla norma transitoria anche «i soggetti nei cui confronti è stato accertato, anche mediante atti della pubblica autorità, l’esercizio di attività non autorizzate ovvero non conformi al contenuto dei pregressi titoli di assegnazione». Anche questa formulazione è ambigua. In molti casi, infatti, simili accertamenti non sono univoci, ma esistono atti diversi di differenti pubbliche autorità che affermano tesi contrapposte. In molti spazi polifunzionali alcuni hanno visto il bancone del bar e altri le decine di attività culturali (che da quello sono sostenute).

Anche chi alla fine riuscirà ad accedere alla norma transitoria, comunque, potrà beneficiarne per soli tre anni. Poi dovrà andare a bando. Parziale eccezione potrebbe essere la presentazione di un progetto sulla cui base definire i criteri del procedimento di evidenza pubblica. Se questo sarà considerato o no, però, rimane inspiegabilmente a discrezione dei dirigenti di dipartimento.

Per concludere, il regolamento presenta numerose criticità sia rispetto all’impianto generale che a diverse singole misure. Il fatto che sia stato presentato, comunque, è un’occasione per le realtà interessate. Se la maggioranza cinque stelle darà prova di effettiva apertura alla partecipazione di questa cittadinanza attiva lo vedremo nelle prossime settimane. Di certo, anche per quella parte politica l’occasione è grossa: mentre a livello nazionale e locale i suoi consensi crollano, potrebbe per una volta dare seguito ad alcune delle parole d’ordine intorno cui ha avviato la sua iniziativa politica.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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