Ciò che non è riuscito a fare il 6 dicembre 2016, quando perse sonoramente il referendum che pretendeva di abolire – sostanzialmente – il Senato della Repubblica, Matteo Renzi vuole farlo ora attraverso una via “più democratica” (rigorosamente tra virgolette), con una azione di governo e passaggi relativi in Parlamento per far approvare un pacchetto di riforme che paiono peggiori del proponimento espresso insieme a Maria Elena Boschi in quel infausto – fausto dicembre (a seconda dei punti di vista).

Un cosiddetto “accordo di legislatura” prevederebbe addirittura l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, cioè del capo del governo italiano.

Non è la proposta classica della destra fascista (oggi sovranista) di mettere sul banco della discussione l’elezione diretta del Capo dello Stato: qui si tratta dell’organo esecutivo, di quello che applica le leggi, che dirige la politica del Paese attraverso anche decreti d’urgenza che, afferma la nostra Costituzione, comunque sia devono transitare ad un certo momento dalle Camere per trovare piena e definitiva applicazione.

Ma il quadro dell’instabilità democratica rischia di aggravarsi ulteriormente se dal referendum che si terrà il 29 marzo prossimo, quello per intenderci sulla riforma che taglia il numero dei parlamentari, dovesse uscire una maggioranza di espressioni favorevoli e quindi il Parlamento venisse amputato di larga parte della rappresentanza territoriale, depotenziato nelle sue funzioni e reso così non più il cuore pulsante della vita istituzionale e sociale della Repubblica Italiana.

Proviamo a sommare una elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, quindi il vero e proprio “premierato” ad una (contro)riforma esplicita che colpisce le Camere ed avremo qualcosa di molto più avanzato (nel senso negativo dell’accezione) di tutte le modificazioni fin qui tentate dai vari governi per screditare l’equipollenza dei poteri costituzionali affidati ai diversi enti dello Stato e dare vita ad una lenta ma progressiva transizione dalla Repubblica parlamentare ad una Repubblica semi o del tutto presidenziale.

Se è pur vero che non si fa nomina delle funzioni del Presidente della Repubblica, è altresì vero che, inserito in questo quadro, il Colle subirebbe un ridimensionamento nelle sue funzioni di garante nella nomina del Presidente del Consiglio. Nomina che avviene, peraltro, non direttamente, come espressione univoca da parte del Capo dello Stato, ma dopo le dovute consultazioni istituzionali e politiche che appaiono spesso come uno stanco rito protocollar-istituzionale, e che invece sono essenziali nella formazione del governo stesso.

L’ipotesi renziana sul premierato non farebbe altro se non rinverdire le gesta di chi tentò, a partire dall’esperimento della Commissione Bicamerale con la “bozza Salvi” di introdurre nell’ordinamento repubblicano l’elezione diretta di quello che veniva sempre più chiamato “primo ministro” al posto della corretta dicitura (non solo formale) “presidente del consiglio” da parte giornalistica e che, del resto, sarebbe stato uno dei correttivi della riforma stessa.

Un secondo tentativo di introdurre un premierato in Italia fu fatto dalle forze del centrodestra berlusconiano nel 2006 che aggiunge come clausola antidemocratica un nuovo espediente per mantenere a galla maggioranze anche in caso di decadenza o morte del capo del governo: venti giorni concessi al Parlamento per proporre al Presidente della Repubblica un nuovo primo ministro.

Questo ennesimo tentativo di stravolgimento della Carta Costituzionale venne impedito con la bocciatura da parte popolare dell’intero impianto di (contro)riforma col referendum del 25 e e 26 giugno indetto quello stesso anno.

Da allora l’unico assalto alla Costituzione promosso peraltro da forze che si proclamavano progressiste, venne messo in atto da Renzi e Boschi. Il plebiscito, richiesto al popolo sulla figura dell’ex sindaco di Firenze, venne cassato con ampia maggioranza di NO e quindi l’assetto parlamentare della Repubblica venne salvato ancora una volta.

Oggi assistiamo ad un sommarsi di tanti singoli elementi che rischiano di rimettere in discussione quanto è stato messo in sicurezza nel 2016 ancora una volta. Un Cerbero per sovvertire la Repubblica. Un nuovo mostro a tre teste. Eccole:

– riforma delle legge elettorale in senso proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, proposta dalla maggioranza della attuale maggioranza parlamentare e di governo; quindi un proporzionale falso, spurio, perché ancora una volta, introducendo una soglia di sbarramento, vizia il voto e lo rende ineguale rispetto alla scelta che si fa in cabina elettorale.
A partito maggiore corrisponde sempre voto più incisivo nel contesto politico in cui si tiene la formazione della delega parlamentare; a partito minore corrisponde un voto che rischia di stare sotto la soglia prevista di esclusione dalla distribuzione dei seggi e quindi entra in scena il perverso meccanismo dell’utilità del voto e della concentrazione dei consensi su formazioni in grado di superare il 5%, decretando quindi la marginalizzazione e l’esclusione delle minoranze politiche (e sociali) dall’accesso legittimo e costituzionale alle Camere;

– referendum per il taglio dei parlamentari con la perniciosa argomentazione secondo cui il tutto avrebbe come scopo la riduzione dei costi della politica, la decurtazione degli stipendi di deputati e senatori. Un risparmio enorme! Ben lo 0,007% della spesa pubblica nazionale.
Comperare qualche aereo militare in meno, magari introdurre al contempo una bella patrimoniale sui redditi altissimi (oltre gli 800.000 euro annui!) e fare una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, sarebbero sì riforme attuabili senza alcun referendum, soltanto con la volontà politica di metterle in essere.
La vergognosa argomentazione populista del “taglio dei privilegi della casta” è ridicola ma ha una presa emotiva su vasta scala popolare e quindi è giusto anche tenere conto della percezione popolare: si vuole diminuire il “costo della politica“? Bene, si taglino gli stipendi di deputati e senatori ma non si tagli il Parlamento! Si diano a deputati e senatori stipendi pari a quelli di un metalmeccanico di alto livello e alcune esenzioni per poter svolgere le loro missioni nei territori.
Dovrebbe bastare a calmare la sete di vendetta populista e il rancore popolare verso una politica che ha dismesso da tempo di occuparsi delle vere ragioni di sopravvivenza della povera gente, di chi non sbarca il lunario ogni mese se non a prezzo di indicibili sacrifici;

– proposta di “premierato” da parte di Renzi: è l’ultimo (l’ultimo davvero?) tassello che si aggiunge ad un quadro ormai chiaro di retrocessione antidemocratica, di riconduzione della politica nazionale sul terreno sbarrato con la bocciatura del referendum del dicembre 2016.
Un ridimensionamento del ruolo del Parlamento con la riduzione degli eletti e  della rappresentanza territoriale; maggiore potere per i sempre meno delegati dal popolo a costruire gli impianti legislativi; più poteri al Presidente del Consiglio (il nuovo “Sindaco d’Italia” di segniana memoria…).
Salvini e Meloni applaudono sperticandosi le mani. Chi sostiene che Italia Viva rappresenti valori progressisti, si faccia alcune domande…

Ecco che l’equilibrio tra i poteri dello Stato viene nuovamente messo in discussione e alterato a discapito del Parlamento e a tutto vantaggio del Governo.

La Repubblica Italiana verrebbe così ad assumere i tratti di un semi-presidenzialismo tutto italiano, imperfetto, pasticciato, con un potere legislativo decurtato in rappresentanza ma ancora in grado di esercitare il bicameralismo perfetto. E con un potere esecutivo in grado di fregiarsi della delega popolare esso stesso: non più l’ambigua formula dell’indicazione del “leader della coalizione” nella presentazione all’Ufficio elettorale centrale della Cassazione dei contrassegni di coalizione e del programma di governo, ma molto di più: l’investitura diretta del capo del governo che così da Presidente del Consiglio incaricato dal Quirinale diventa Primo Ministro incaricato dal popolo.

Suona bene, vero? Sembra che il popolo decida e conti maggiormente. Invece è l’esatto opposto. Spiegare agli italiani le vere ragioni della controriforma del governo sul taglio dei parlamentari sarà una impresa faticosissima: bisognerà oltrepassare tutto l’odio popolare per la politica di palazzo, per le trame e i giochetti che anche in queste ore la costellano. Che vengono stigmatizzati come “chiacchiericci” da chi poi sostiene un proprio uno di quei giochetti, per compiacere l’alleato di governo e stabilizzare l’attuale ruolo di governo reciproco.

Ad avere buon gioco in tutto questo pasticcio, sarà la destra sovranista che potrà mostrare da un lato compiacenza per l’involuzione oligarchica e il premierato, mentre dall’altro invocherà la peggior retorica possibile per scalzare l’attuale maggioranza da Palazzo Chigi e mettere a pieno regime quelle riforme che chi è sempre stato di destra e ha guidato partiti di presunta sinistra gli ha offerto su un piatto d’argento. Anzi, d’oro.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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