Parasite ha rotto il tabù hollywoodiano – che perdurava da novant’anni – aggiudicandosi il premio più ambito, l’Oscar come ‘il miglior film’, nonostante non sia prodotto in lingua inglese. La decennale interdizione è ragionevolmente riconducibile al fatto che l’Academy Awardnon è nato per promuovere il cinema, ma il cinema anglo-americano (con tutto il suo corollario ideologico) nel mondo, altrimenti non si spiegherebbe l’esistenza di un premio specifico (e minore) per “il miglior film straniero”, che Parasite ha peraltro vinto. L’evento merita qualche riflessione per comprendere cosa è che rende questo film così speciale.
Come molti sanno, Parasite, ancor prima di essere premiato da Hollywood, aveva già riscosso un ampio successo di pubblico e, soprattutto, di critica in tutto il mondo. A colpire molti recensori, al di là degli apprezzabili aspetti estetici del film, è la coraggiosa rappresentazione della ‘lotta di classe’ attraverso il conflitto generato dall’interazione tra una famiglia molto povera e una molto ricca. I membri della prima, i quali sperimentano una terribile vita di stenti, ai margini di tutto, approfittano di una serie di circostanze per farsi assumere dalla seconda, come tutor, autista, colf. È così profonda e antica la loro ‘fame’ che, per conservare tale condizione di ‘privilegio’, sono disposti a ferire e uccidere altri lavoratori concorrenti, prima di uccidere – quasi per caso – il padrone.
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Considerato che il conflitto di classe è stato bandito dal cinema degli ultimi quarant’anni – al punto che pronunciare oggi la parola ‘classe’ o ‘proletariato’ è peggio di una pacca sul culo nella metro – si può comprendere lo stupore positivo di molti critici, i quali, eccitati dalla novità (wow, la lotta di classe!), hanno finito per espellere dall’analisi altri elementi del film, benché importanti. Ci si è soffermati maggiormente sulla rappresentazione dello stato pietoso a cui è ridotta la coscienza di classe dei proletari (sai che novità se, tra le altre cose, il loro immaginario è imbevuto di film hollywoodiani), sul fatto che il film mostri quanto siano parassiti anche i padroni (anche?), sulle disuguaglianze estreme oppure sulla dimensione universale della condizione proletaria oggi (oggi?).
Riflessioni tutto sommato condivisibili; effettivamente, questi elementi sono presenti nel film, ma non sono stati messi lì per essere spiegati ai proletari, il film non parla a loro, si rivolge alla borghesia. Lo ha svelato, del resto, lo stesso regista quando, dopo aver volteggiato nell’aria le statuette d’oro, ha dichiarato: “Tra ricchi e poveri né buoni né cattivi”. Bong Joon-Ho ha sentito l’irreprimibile esigenza di escludere pubblicamente la presenza di uno sguardo moralistico nel suo film. Così facendo, naturalmente, ha confermato il proprio punto di vista moralistico (che è infine classista): equiparare il bisogno di sopravvivenza dei membri della famiglia super-povera, da cui scaturiscono i comportamenti riprovevoli, alla violenza routinaria e gratuita dei membri della famiglia privilegiata, i quali (insieme ai loro amici della super-borghesia globale) sono la causa primaria della condizione miserabile e precaria dei primi, significa compiere un’operazione di mistificazione. Bong Joon-Ho non è da solo in questo. È diventata oramai una moda l’equiparazione dei comportamenti dei veri violenti con quelli di coloro che reagiscono alla violenza, i fascisti con i partigiani…e giù fino all’istituzionalizzazione della parificazione tra fascismo e comunismo.
Parasite parla alla borghesia perché è la rappresentazione filmica della sua più grande paura, ovvero “quella che i poveri insorgano e facciano cadere i ricchi”, come ebbe a confessare il miliardario Cartier al Financial Times Business of Luxury Summit a Monaco (2015). Il pensiero di un futuro sconvolgimento sociale attanaglia i padroni, l’odio dei proletari li tiene svegli la notte. Per dirla sempre con le parole di Cartier, la domanda che si pongono incessantemente, specie in questi ultimi anni di crisi senza fine, è: “Come la società [ovvero la borghesia] si sta preparando ad affrontare la disoccupazione strutturale e l’invidia, l’odio e la guerra sociale?”. Anche in Italia, di recente, si è parlato di una “emergenza odio” da affrontare, ça va sans dire, con leggi poliziesche.
Tutte le mosse della borghesia dopo la crisi del 2008 sono volte a prevenire, contenere, gestire e indirizzare altrove l’odio dei proletari e la guerra sociale. Hanno ragione Ricardo Antunes e Mikkel Bolt Rasmussen quando definiscono l’attuale internazionale dei movimenti reazionari nel mondo (capeggiati da Trump, Bolsonaro, Orban, Le Pen, Putin, Salvini, etc.) una “controrivoluzione preventiva”, non tanto nel senso che il mondo ora si trovi in una situazione (pre-)rivoluzionaria da contrastare, quanto nel senso che si vuole prevenire perfino ogni desiderio di insorgenza, poiché la borghesia ha compreso bene – al momento molto meglio dei proletari – che il capitalismo ha perso definitivamente la sua magica forza propulsiva, ovvero l’illusione di ottenere una vita migliore lavorando. Il numero dei lavoratori poveri nel mondo, di quelli che pur lavorando dodici ore al giorno non riescono a sfamarsi o vestirsi, cresce in modo esponenziale. In assenza della grande illusione che cosa resta? La verità oggettiva di un’esistenza fatta di dominazione, gerarchia, razzismo e violenza, per non parlare della definitiva distruzione della biosfera. Il velo di Maya è stato spazzato dalle tempeste della crisi e i padroni rischiano di apparire per quello che sono: dei vampiri e torturatori seriali. Ecco cosa li disturba e mette in stato di allarme. Parasite ha calato in un bagno di immagini e linguaggio questa universale angoscia persecutoria dei padroni di tutto il mondo. E lo ha fatto mettendo in scena il rapporto di classe più crudele e inquietante che esista, quello tra padroni e lavoratori domestici. Qui va riconosciuto il merito del regista: il suo sguardo sociologico (il regista, tra l’altro, può vantare una laurea in sociologia) è particolarmente raffinato. Già Harriet Martineau, una delle più importanti madri della sociologia, nel lontano 1838 spiegò come il dominio fosse la cifra del lavoro domestico:
La peculiarità nella vita del lavoro domestico è la sottomissione alla volontà di un altro. […] Un domestico entra in una famiglia proprio per compiere la volontà del padrone. […] Quanto sia complessa e profondamente feroce una simile condizione diventa evidente soltanto quando si considera la difficoltà di stabilire il limite di questa obbedienza alla volontà altrui.
Non c’è lavoro che riveli meglio l’intensità della tensione di classe tra padrone e lavoratore. Gli ordini del primo, che è vicino e si può sentire e toccare, suscitano emozioni e sentimenti profondi nel secondo, chiamano in causa una profondità del sentire che in altri lavori, nei quali il padrone è lontano, invisibile e intoccabile, non si riscontra con facilità. La distanza sociale ravvicinata con il padrone (che dà gli ordini) trasforma il luogo di lavoro in un luogo d’incontro di cause nascoste, di impulsi, ma, ovviamente, anche di cause di ordine sociale ed economico. La tensione di classe è qui composta da stimoli che vengono da dentro il corpo e dall’ambiente. I padroni la sentono addosso questa estrema tensione che si sviluppa dentro le loro case e, per tale motivo, molto spesso provano a nasconderla perfino a loro stessi, a mascherarla, a rimuoverla. Non a caso, infatti, si sentono ovunque frasi del tipo: “Mi ha fatto causa per i mancati contributi, ma io la trattavo come una sorella”; “Io e la mia colf siamo amiche, sono andata al battesimo del figlio”; “Con Maria andiamo spesso a cena fuori, le ho regalato dei miei vestiti”.
Dentro uno spazio limitato come quello della casa, la tensione scaturita dal sacrosanto odio che il lavoratore domestico prova lavorando nelle case dei padroni è potente, perché egli vede questi nella loro dimensione più intima, perché sente fin dentro le ossa il loro profondo disprezzo e razzismo.
Tutto ciò emerge molto bene in uno dei dialoghi emblematici del film, quello tra i coniugi Park, i quali, sdraiati al buio sul divano del salotto, parlano del disgusto che provano ogni giorno sentendo l’odore dei loro domestici (pecunia non olet, stracci invece olent) e questo li eccita sessualmente:
Sig. Park: Da dove viene questo odore?
Sig.ra Park: Quale odore?
Sig. Park: L’odore del signor Kim.
Sig.ra Park: Sig. Kim?
Sig. Park: Sì.
Sig.ra Park: Non so cosa intendi.
Sig. Park: Davvero? Devi averne sentito l’odore. Quell’odore che si diffonde nell’auto, come descriverlo?
Sig.ra Park: L’odore di un vecchio?
Sig. Park: No, no, non è quello. Che cos’è? Come un vecchio ravanello. No, sai quando fai bollire uno straccio? Puzza così.
La puzza dei poveri che sentono i coniugi ricchi proviene da sotto il tavolo del salotto, laddove si era nascosto l’autista Kim, il quale, insieme a tutta la famiglia, sente le parole (e lo schifo) dei padroni sul proprio odore. Questa vicinanza fisica tra padroni e lavoratori domestici crea un campo magnetico che intensifica le nevrosi dei padroni (già create dalla competizione del mercato) e provoca i loro incubi, la loro tremenda paura di essere sgozzati di notte dai domestici. Paradossalmente, è in casa loro che si sentono meno protetti, più esposti all’odio degli sfruttati. Per lo spazio fuori c’è sempre lo Stato con tutto il suo apparato ideologico-repressivo, ma in casa no, in casa sono vulnerabili e a stretto contatto con i loro odiatori.
Che il film parli ai padroni lo si capisce anche dal finale distopico: il padre di famiglia finisce murato vivo nella villa dei ricchi (ormai abbandonata), la figlia muore, la moglie e il figlio processati e poi condannati a ritornare nella loro estrema miseria. Il figlio, disperato e traumatizzato, continuerà a sognare a occhi aperti un futuro da ricco. Il film è un’apocalisse senza via d’uscita per la famiglia povera. L’orizzonte che viene loro assegnato è quello della rassegnazione al dominio e allo sfruttamento. Non c’è altro.
Il film racconta gli incubi dei padroni nel mondo contemporaneo e i padroni dell’Academy li hanno riconosciuti, nonostante espressi in coreano. Si può comprendere così l’eccitazione generalizzata per un film che pone sullo stesso piano le condotte di padroni e lavoratori, creando una voluta confusione cognitiva ed emotiva nello spettatore. Parasite ha un solo messaggio importante, e questo messaggio è per i borghesi di ogni latitudine: presto l’odio estremo e brutale che abbiamo messo in circolazione ci tornerà contro, presto i proletari si sveglieranno dal sonno e ci “faranno cadere”. Da un punto di vista psicoanalitico, si potrebbe dire che si tratta di un desiderio inconscio di punizione.
Accontentiamoli!
Melania Piccolo