Da un’economista di Princeton che non ha risparmiato critiche al fallimentare progetto europeo di unione monetaria, un quadro crudo dei disastri presenti e prevedibili per l’UE negli anni a venire. Con una presidente della Commissione per nulla adatta a gestire il campo di battaglia in cui si è trasformata la gestione del bilancio comune europeo. Come era stato previsto, le sempre maggiori divisioni, aggravate dai meccanismi disfunzionali dell’eurozona che hanno allargato le differenze tra paesi, stanno dilaniando l’Europa, in conflitto praticamente su tutto. E i fantomatici stati uniti d’Europa vagheggiati dai tanti sognatori nostrani sono sempre più improbabili e lontani.
Di Ashoka Mody,
L’Europa sta chiaramente perdendo la sua strada. La sfiducia e le divisioni sono aumentate in modo allarmante, aggravate dalla conflittuale scelta di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione e in previsione di un dibattito controverso sul bilancio dell’UE. Oggi è ben difficile identificare un obiettivo strategico su cui i leader europei siano uniti per migliorare la vita dei cittadini europei.
Ursula von der Leyen è stata una scelta poco condivisa per la successione a Jean-Claude Juncker come presidente della Commissione europea. Emersa dopo trattative ferocemente conflittuali come compromesso dell’ultimo minuto, è incappata immediatamente in una tempesta di critiche. Perfino i membri del suo stesso partito, l’Unione Democratica Cristiana (CDU), l’hanno presa di mira. Nel ruolo ingrato di ministro della Difesa tedesco, non è stata in grado di superare gli ostacoli posti dal pacifismo tedesco del dopoguerra e dall’insensata austerità nella spesa pubblica, tanto che un ex ministro della Difesa le ha addossato la colpa dello stato “catastrofico” dell’esercito tedesco. Un membro del Bundestag ha dichiarato sarcasticamente: “È utile per l’esercito… che se ne vada.” Il ministero della Von der Leyen è stato colpito da accuse di clientelismo e scorrettezze nell’assegnazione di contratti di consulenza. La cancelliera Angela Merkel, benché già suo premier, decise addirittura di non votarla per la Presidenza della Commissione, pur di non scontentare gli alleati di coalizione socialdemocratici della SDP, furenti per la bocciatura del loro candidato.
La Von der Leyen ha ricevuto il voto di conferma del parlamento europeo con un margine strettissimo. Dopo il voto segreto, i parlamentari più europeisti di tutti, i Verdi, hanno comunicato di avere votato contro di lei. Per superare l’ultimo ostacolo, ha quindi avuto bisogno dei voti dei partiti di governo xenofobi e scettici in Polonia e, soprattutto, in Ungheria.
L’aspro e opportunistico mercato delle vacche scatenato in occasione della nomina della Von der Leyen è stata la dimostrazione su scala ridotta del profondo malessere europeo: l’incapacità di agire con una voce comune nell’interesse comune. Von der Leyen è un prodotto di questo sistema. È abile nella retorica e nelle tattiche di combattimento da guerra intestina. Ma per riuscire, ora, deve miracolosamente trovare un terreno comune, se vuole agire meglio di quanto non abbia fatto al ministero della Difesa tedesco.
Un aspro dibattito sta imperversando sulla dimensione e sulla destinazione del prossimo bilancio dell’UE. E con gli Stati membri che mettono al primo posto i loro interessi nazionali, l’agenda strategica dell’UE è nel caos.
Il budget europeo: scorrerà il sangue
La Von der Leyen ha lanciato un “Nuovo corso verde europeo” (New Green Deal) da trilioni di euro, da pagare con i fondi del prossimo ciclo di bilancio dell’UE, che andrà dal 2021 al 2027. “Scorrerà il sangue”, ha pronosticato oscuramente un alto funzionario dell’UE, dopo che la Von der Leyen aveva lasciato il ricevimento per festeggiare l’anno nuovo della Commissione europea. Il precedente bilancio dell’UE, che va dal 2014 al 2020, ha registrato un trilione di euro, circa l’uno per cento del PIL dell’UE nello stesso periodo. Il prossimo bilancio inizia con un buco di 94 miliardi di euro dovuto all’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Eppure i “contribuenti netti” – gli stati del Nord (ma lo è anche l’Italia – NdVdE) – hanno escluso di aprire ulteriormente i loro portafogli; i “destinatari netti” – gli Stati membri meridionali (esclusa l’Italia, che in assoluto versa più contributi di quanti ne riceva – NdVdE) e orientali – stanno lottando per mantenere i loro benefici fiscali. I coltelli sono già stati sfoderati, mentre lo sforzo porterà ad aumentare il bilancio comune, nella migliore delle ipotesi, di un misero decimo dell’uno per cento del PIL.
L’UE spende il suo fossilizzato bilancio con molti sprechi, anche notevoli. Oltre il 40% delle spese è destinato a sussidi agricoli. In una denuncia scioccante, il New York Times ha riferito che i sussidi agricoli “sostengono oligarchi, mafiosi e populisti di estrema destra”. La corruzione parte dal vertice: “I leader nazionali usano i sussidi per arricchire amici, alleati politici e familiari”, riporta il documento. Il parlamento europeo è complice. Ha respinto sommariamente l’ultimo tentativo di cancellare alcune delle elargizioni previste. In poche parole, troppi mediatori influenti hanno le loro mani privilegiate nella cassa. Il New York Times ha anche rivelato una preoccupante sovrapposizione geografica tra il versamento dei sussidi e l’inquinamento ambientale, una sovrapposizione di cui i funzionari dell’UE sembrano essere consapevoli.
I “Fondi strutturali e di coesione”, costituiscono un altro terzo del bilancio. Questi fondi hanno contribuito a risollevare le regioni più arretrate dell’UE. Ma, come riconosce la stessa Commissione europea, questi fondi sono stati a lungo associati alla corruzione attraverso, ad esempio, tangenti e falsificazione di documenti. D’altra parte, sembra che nessuno voglia disturbare questo pacifico status quo. I cosiddetti “amici della coesione” tra i “contribuenti netti” condizionano la continuazione dei contributi al fatto che le loro imprese nazionali traggano vantaggio dai contratti che nascono grazie ai fondi di coesione nell’Europa orientale. Altrimenti, avvertono cupamente, i piani per il bilancio dell’UE sono “destinati a fallire”.
Quindi tre quarti del bilancio sono intoccabili. In questo caos, Von der Leyen vuole un quarto del budget per dare il via a un trilione di euro di spesa verde. Inoltre vuole più soldi per l’immigrazione e la gestione delle frontiere, la sicurezza e la difesa e un programma per una “Europa digitale”.
Per quanto riguarda la protezione ambientale, l’UE sta cercando di stabilire standard molto sfidanti di riduzione delle emissioni, soprattutto perché gli americani stanno arretrando. Ma gli ambiziosi progetti non coincidono con la scoraggiante realtà. Gregory Claeys e Simone Tagliapietra, del Bruegel (un think tank con sede a Bruxelles), prevedono che le autorità europee, in assenza di maggiori fondi, etichetteranno come “verde” la spesa già esistente. In una discussione su Twitter, Claeys ha concluso tristemente: “L’UE è davvero [il] campione del mondo nel rimescolare I (piccoli) fondi che girano per fingere di avere delle politiche. E questo è un problema, perché porta a grandi aspettative ma a scarsi risultati.”
La fantasia” geopolitica”
La Von der Leyen ha promesso di guidare una Commissione europea “geopolitica”. I leader europei adorano coniare nuove espressioni, alzando continuamente la posta: da una “Unione sempre più vicina” a una “Unione politica”, fino alla “sovranità europea”, l’espressione preferita da Emmanuel Macron. Ora è la volta dell’Europa come forza “geopolitica”. La baldanza del “Progetto europeo” è confortante perché la sostanza è esasperante.
Nella sua crociata geopolitica, Von der Leyen tiene d’occhio la Cina. “Dobbiamo definire e far rispettare i nostri interessi nei rapporti con la Cina insieme, come europei”, ha dichiarato in un’intervista a Die Zeit. “La Cina ci intrappola subdolamente”, ha dichiarato. “Ed è per questo che spesso non ci rendiamo conto della coerenza con cui persegue i suoi obiettivi e con quanta intelligenza.” Ha messo in guardia soprattutto contro il coinvolgimento nel progetto cinese Belt and Road Initiative (BRI), un programma di infrastrutture transcontinentali, noto per avere incastrato i paesi che l’hanno accolto in debiti insostenibili nei confronti dei cinesi.
Ma nessuno le ha prestato attenzione. L’elenco di chi ha aderito al BRI comprende Austria, Bulgaria, Repubblica ceca, Grecia, Portogallo, Ungheria, Polonia e Slovacchia. L’unità su questo fronte è crollata completamente quando anche gli italiani hanno aderito alla BRI, nella speranza che ciò aiutasse la loro economia in difficoltà a migliorare le infrastrutture e ad espandere le esportazioni verso la Cina.
Le differenze di posizione tra gli stati membri europei su questioni strategiche e politiche sono innumerevoli. Charles Grant del Centre for European Reform avverte che Francia e Germania operano sempre più unilateralmente, perseguendo ognuna il proprio interesse nazionale. “La Germania”, sottolinea, “non ha consultato i suoi partner dell’UE in merito al sostegno da lei dato al gasdotto russo Nord Stream 2, anche se questo aumenterà la dipendenza dell’UE dall’energia russa e causerà tensioni con gli Stati Uniti”. Sul coinvolgimento controverso di Huawei nelle reti europee, Grant osserva che “a marzo 2019, la Merkel ha tenuto il francese all’oscuro del fatto che avrebbe permesso a Huawei di concorrere alle gare per alcune parti della rete tedesca 5G; e ha ignorato l’opinione francese secondo cui Huawei rappresentava una potenziale minaccia alla sicurezza e che avrebbe dovuto esserci una risposta comune dell’UE alla società cinese “.
Macron ritiene che ciò che è buono per la Francia debba essere buono anche per l’Europa. Ha posto il veto all’inizio dei colloqui sull’adesione della Macedonia del Nord all’UE, sebbene il paese aspirante avesse compiuto un enorme sforzo preparatorio, compreso l’accettare un controverso cambio di nome, per raggiungere i requisiti stabiliti per poter avviare i colloqui. Il veto di Macron è stato uno shock, soprattutto per la Germania, a causa del suo interesse strategico nei Balcani. Macron ha anche allarmato gli altri Stati membri con la sua apertura a sorpresa alla Russia, suggerendo nuove relazioni tra questa e l’UE.
Insieme, la fine posta da parte di Macron al processo di adesione della Macedonia del Nord e la sua mano tesa verso la Russia hanno contribuito alle tensioni tra Francia e Paesi di Visegrad: Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia. Macron ha preso l’abitudine di opporsi a questi paesi. Subito dopo essere diventato presidente, nel maggio 2017, ha spinto la Commissione europea a limitare lo spostamento di lavoratori dell’Europa orientale in Francia. Questi lavoratori – come il leggendario idraulico polacco – rappresentavano una forma di “dumping sociale”, accusò Macron. Per cercare di guadagnare punti nella sua battaglia politica, Macron ha fatto una mossa meschina, poiché il numero di lavoratori che si sono spostati in Francia è piccolo rispetto alla forza lavoro francese.
Un continente a pezzi e in declino
Alla base di questi drammi ricorrenti su questioni di alta politica e strategie c’è una realtà irremovibile: l’UE è una confederazione di stati, proprio come gli Stati Uniti lo erano dopo la guerra di indipendenza del 1776. Nel 1786, diversi stati membri minacciarono di paralizzare gli Stati Uniti appena nati. Madison, un orgoglioso Virginiano, scrisse una storia delle confederazioni, in cui catalogava senza pietà tutte le aspre divisioni che le fecero più volte esplodere. Madison si unì quindi a George Washington e, con probabilità zero di farcela, nel marzo del 1789 riuscirono a installare un governo federale con autorità fiscale coercitiva e responsabilità di difesa nazionale assoluta secondo la costituzione degli Stati Uniti.
La Von der Leyen parla apertamente di Stati Uniti d’Europa. “Tutti gli stati membri dovranno essere pronti a contribuire a una più profonda integrazione”, dichiara, senza spiegare perché gli stati membri, bloccati dalle politiche fiscali, estere, di difesa e migratorie, dovrebbero abbandonare i loro confliggenti interessi nazionali per avanzare sul cammino verso una maggiore integrazione.
Gli europei si allontanarono con forza dagli Stati Uniti d’Europa, anche all’ombra della seconda guerra mondiale, quando la spinta a unirsi per cancellare i sanguinosi ricordi del passato era al suo massimo. Oggi le circostanze sono particolarmente avverse a questo obiettivo e probabilmente non faranno che peggiorare.
L’Europa è un continente in rapido declino in termini di influenza economica e politica, come sottolineato da Jean-Claude Juncker. Famoso per avere bevuto in qualche occasione un drink di troppo, Juncker, che dice la verità, ha brutalmente notato che la quota europea di valore aggiunto globale scenderà dal 25% di oggi a circa il 15% nella prossima generazione; per allora, nessun paese europeo probabilmente sarà più membro del gruppo elitario del G7. E mano a mano che anche le popolazioni in calo dell’Europa invecchieranno, sarà sempre più difficile arginare la tendenza al declino.
Una conseguenza del declino economico e politico è la crescente ansia sociale e alienazione politica all’interno degli stati membri, che porta alla frammentazione politica interna. L’Italia è il classico caso di coma economico, diffusione del lavoro precario e politica disfunzionale. La Germania, pericolosamente in bilico verso un punto di non ritorno economico, si sta sbriciolando politicamente. Inevitabilmente, la frammentazione a livello nazionale si riflette nel parlamento europeo, dove i partiti euro-scettici hanno guadagnato terreno e così anche i Verdi, a spese dei tradizionali partiti conservatori e socialdemocratici.
La frammentazione politica diventa una trappola. Gli stati-nazione fanno fatica ad articolare le loro priorità. A livello europeo, i compromessi per realizzare politiche lungimiranti diventano più difficili. Le azioni unilaterali e il blocco della griglia diventano la norma su questioni delicate che incidono sulla sovranità nazionale fondamentale. Il declino economico persiste. L’evoluzione europea si ferma. L’ossessione per le forme e la cerimonia diventa la regola.
Nel gennaio 2018, quando ho completato il manoscritto per la prima edizione del mio libro “EuroTragedy: A Drama in Nine Acts” (Eurotragedia: un dramma in nove atti, NdVdE), la mia critica era rivolta all’euro. Ho sostenuto che il più ampio progetto europeo era in gran parte uno sforzo positivo per risolvere le differenze nazionali e raggiungere obiettivi comuni, in particolare su questioni relative al commercio e alla politica di concorrenza. Anche allora era chiaro che le differenze inconciliabili su come trattare i migranti avrebbero afflitto l’UE per anni. Ma a luglio 2019, quando ho redatto la postfazione dell’edizione tascabile, l’Europa stava chiaramente perdendo la sua strada.
Come a conferma di questa visione più pessimistica, la sfiducia e le divisioni sono cresciute in modo allarmante. Ciò è stato solo aggravato dalla conflittuale scelta di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea e in previsione di un dibattito controverso sul bilancio dell’UE. Oggi è difficile identificare anche un solo obiettivo strategico su cui i leader europei siano uniti per migliorare la vita dei cittadini europei.
Gli Stati membri riconoscono che, anche collettivamente, possono a malapena influenzare i risultati internazionali. Il grande mercato comune europeo consente ai leader politici e ai burocrati di esercitare una certa influenza in materia di scambi commerciali. Ma questa leva diminuirà con la posizione economica globale dell’Europa. Gli stati-nazione saranno ulteriormente spinti ad azioni unilaterali nei loro interessi nazionali percepiti. Nel frattempo, le strutture europee, che gestiscono compulsivamente i loro processi e le loro cerimonie, rimarranno in piedi per molto tempo, dopo aver perso il loro scopo e la loro capacità di tenere uniti gli europei.
Ashoka Mody insegna alla Princeton University. L’edizione tascabile della sua EuroTragedy: A Drama in Nine Acts è disponibile negli Stati Uniti e presto nel Regno Unito.
Pubblicato per gentile concessione di The Spectator Coffee House