Ormai sono passate quasi due settimane dal primo caso di Coronavirus in Italia e dalla letterale esplosione mediatica che ne è venuta fuori: un attorcigliamento di opinioni, di consigli e di misure da adottare che ha scatenato una vera e propria isteria individualistica ma di massa. Un paradosso che pure è stato e rimane tale perché il sistema dell’informazione, amplificato imprudentemente dai social network, è diventato ancora più dirompente rispetto al passato e ha finito per alterare tanto la percezione della realtà quanto la corretta attenzione verso minime misure di sicurezza sanitaria che sono state prese fin da subito.
Quindi, se la sopravvalutazione è stata certamente messa in campo da una distorsione dei canali di comunicazione ufficiali, spesso incappati – non di meno dei singoli cittadini – nelle cosiddette “fake news” su vasta scala diffuse ad arte per creare panico, allarmismo e confusione mentale e aumentare gli assalti ai supermercati e alle farmacie, è altresì corrispondente a verità il fatto che l’incertezza sull’evolversi della situazione ha creato una sottovalutazione del fenomeno Coronavirus.
Probabilmente era impossibile prevedere lo sviluppo dell’epidemia, anche dopo averne individuato i cosiddetti “focolai” nelle zone rosse del lodigiano e del Veneto.
Ma, lasciando queste considerazioni alla scienza medica, invece si poteva contenere almeno una altalena impazzita di commenti che inducevano a pensare piuttosto che ad agire e che hanno sviluppato una ansia costante, quotidiana, collettiva, che si respira mentre si cammina per strada, se si entra alle Poste per fare un bollettino o una raccomandata, se si va dall’edicolate e si porge ormai il braccio teso per pagare e mantenere la distanza di un metro tra noi e lui.
Molti si vergognano di dire che seguono queste regole di contenimento dell’epidemia. Probabilmente si sentono sciocchi, forse creduloni e minimizzano: “Ah, io sono fatalista!“. Un simpatico signore dall’accento toscano a domanda del giornalista, risponde: “M’importa ‘na sega!“. Fa pure ridere a crepapelle, ma il problema rimane. Che ci importi o meno, che ci si vergogni o meno d’essere ligi alle disposizioni sanitarie, il virus esiste, nonostante Sgarbi vada dicendo di no, nonostante tutte le spallucce fatte in queste ore con una sufficienza tipica di chi, anche cinicamente, pensa di essere superiore a tutto questo allarmismo e di aver capito ogni cosa, di essere depositario di una verità che non gli appartiene e che è solo uno scudo nei confronti della paura che tutte e tutti abbiamo e che è giustificata e giusta.
La paura ci fa bene, ci rende responsabili. Il menefreghismo mette in pericolo tanto chi lo esercita e lo ostenta con una sicumera ridondante, quanto chi se lo deve sorbire e in qualche modo accettare come ineludibile comportamento del tutto umanoide.
In questi giorni si assiste ad un vero e proprio cambiamento nei comportamenti sociali: si potrebbe dire ad una trasformazione che nasce dalla continuità con cui le notizie negative ci vengono riportate. E’ una spirale da cui non si esce e che determina i nostri tempi nel pensare, le nostre dinamiche di vita che, oggettivamente, sono cambiate a causa del Coronavirus, ma che stanno cambiando veramente troppo sul piano della singolarità individuale.
Chi fa finta di non farsi fagocitare dalla macchina tritura-menti dell’informazione totalizzante (televisione – computer – telefono cellulare – tablet e ancora… radio a casa – radio in macchina… poi di nuovo a casa… televisione… eccetera…) sviluppa un’ansia doppia rispetto a chi è consapevole della propria fragilità dettata dalla paura del contagio.
Dovremmo ammettere di essere spaventati, se lo siamo. Dovremmo ammettere di non esserlo, se non lo siamo, senza frasi altezzose come imperativi categorici che crescono rossinianamente nel tono della voce che diventa non più affermazione ma proclama: “Io non ci penso!“, “Non me importa niente!“, “Per me! Succeda quel che succeda“.
Una delle vittime dei rapporti umani al tempo del Coronavirus è l’umiltà, del resto già tanto mortificata grazie alle moderne tecnologie di scambio di pensieri sovente equivocati ed equivocabili poiché in una chat di WhatsApp, a meno che non sia vocale, non si percepiscono i toni della voce nei messaggini scritti, anche perché la maggior parte delle persone evita di mettere le dovute pause grammaticali e magari una “emoticon” per far capire meglio ciò che intende.
Ma anche solo qualche virgola, punto esclamativo o interrogativo in più non guasterebbero. Il giusto. La normale scrittura che si metterebbe in una lettera… Ma tutto va molto veloce e, insieme all’umiltà, anche la grammatica italiana fa le spese dell’immediatezza come pietra fondante di una nuova società globale.
La piena consapevolezza della portata – diciamolo tranquillamente – antisociale del Coronavirus, intesa come effetto negativo sui rapporti collettivi ma pure come riflesso sugli ambienti di lavoro e sulle difficoltà a gestire il fattore economico di per sé, la si inizia ad avere ora, ad un mese dalle prime notizie di casi in diffusione da Wuhan. Le notizie si susseguono e si sovrappongono: dall’Italia vista come centro dell’unzione europea, si viene a conoscenza del fatto che il primo cittadino del Vecchio Mondo a importare suo malgrado il virus è stato un tedesco.
Ma poco importa la nazionalità; davvero sono risibili e trascurabili le polemiche con la scadente presunta satira transalpina di un canale a pagamento che ha letteralmente sputato sulla pizza e sulla difficile situazione del nostro Paese. Se mettiamo dei confini anche in questo frangente, se prevale la superiorità che il sovranismo assegna all’identitarismo nazionalitario, allora significa prima di tutto che non ci accorgiamo del fatto che il Covid-19 travalica ogni confine, proprio come le merci del moderno capitalismo liberista: solo che queste ultime sono volontariamente destinate dall’importatore al paese cui devono fare riferimento. Il virus no. Viaggia in sordina, beffa i controlli aeroportuali, gli scanner e qualunque altro marchingegno sia utile a rilevare la temperatura corporea.
La scienza inizia ora a muovere i primissimi passi sulla sua conoscenza: dalle reazioni che manifesta nei corpi che infetta, il virus offre ai medici la possibilità di essere studiato e capito. Come in una partita a scacchi. Magari non con la morte… come ne “Il Settimo sigillo“… Magari una partita a scacchi più rilassante, meno cupa, senza tinte grigie e deprimenti chiaroscuri.
Non dobbiamo perdere lo spirito critico, la voglia di conoscere e di interrogarci su quanto avviene. Ma dobbiamo evitare la presunzione che aumenta esponenzialmente i casi di “fake news” e che alimenta le dicerie e deteriora la verità dei pochi fatti concreti di cui siamo consapevoli.
E’ necessario mantenere la calma, anche se nessuno può dirsi scevro dall’ansia: tutti siamo contagiabili. Nessuno è immune. Non siamo innanzi ad un virus che possiamo scansare con precisi comportamenti da adottare, come con l’HIV. Il contenimento dell’epidemia si fonda sul modo in cui ognuno di noi intende affrontarla: se adottando tutte le prescrizioni del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità; oppure se puntare, come alla roulette, sulla sorte.
Con la sola, importante differenza che il banco che vince non è quello di un casinò che ti porta, al massimo, ad una ludopatia curabile con la buona volontà (non certo senza sofferenze psicologiche…): qui il banco che vince è quello del Coronavirus che si espande maggiormente a causa dei comportamenti egoistici e individualisti che ostentano quel menefreghismo tipico degli altezzosi e degli idioti.
Recuperare l’umiltà dell’uguaglianza di tutte e tutti davanti al possibile contagio è il primo passo per mettere in pratica quelle norme di salute pubblica che in una popolazione civicamente abituata ad osservare i fondamentali per la salvaguardia dei beni comuni dovrebbero essere la normalità quotidiana.
L’aver atomizzato la società dietro tanti piccoli e grandi egoismi ha rallentato quella capacità di acquisizione delle problematiche sociali che, per una volta, non sono ascrivili alle mera polemica politica fatta sui fronti opposti della destra, della sinistra, dei poli che si attraggono e respingono a seconda degli interessi che intendono proteggere.
Per una volta, possiamo pensarci come popolo, senza invocare “unità nazionali” governative, ma semplicemente avendo ben chiaro che non esiste un Nord e un Sud, non esistono confini regionali o provinciali. Esiste un mondo globale che deve affrontare una emergenza. Il contributo personale di ciascuno di noi è fondamentale. Almeno in questo momento, in cui la paura ci rende più consapevoli, sviluppiamo quei naturali anticorpi sociali che tutte le altre volte reprimiamo per primeggiare gli uni sugli altri.
Almeno ora lasciamo cuocere nel loro brodo i sovranisti e pensiamoci come reciprocamente indispensabili. Tutti per uno e uno per tutti.