I dati sui consumi delle famiglie evidenziano una recrudescenza della crisi scoppiata nel 2008. Le politiche dei governi si sono dimostrate inefficaci e dannose. Sono state utili però a ficcare la coscienza e la resistenza dei lavoratori.

 di Federico Giusti 

Se volessimo valutare lo stato di salute dell’economia dovremmo guardare, fra l’altro, ai consumi familiari. Ma prima dobbiamo intenderci sulle voci che concorrono alla spesa media delle famiglie italiane, ebbene l’abitazione continua ad assorbire una parte rilevante (35,1% della spesa totale), seguita dall’acquisto di generi alimentari (18,0%) e dai Trasporti (11,4%).

La spesa delle famiglie cambia a seconda della fascia sociale. Sicuramente un nucleo agiato tende a spendere di più per viaggi, istruzione, acquisto di case laddove invece i ceti popolari impegnano le poche risorse a loro disposizione per i generi alimentari e di prima necessità. La tavola degli italiani cambia da regione a regione ma anche in base al potere di acquisto, alla consapevolezza alimentare che porta alcuni a privilegiare cibi sani, freschi e genuini che poi costano decisamente di più.

Anche accedere ad alimenti sani è una questione di classe, non a caso i disturbi dell’alimentazione colpiscono le famiglie Usa a basso reddito e, sia pure in misura diversa, il fenomeno si ripete anche in terra italica.

Stando ai dati delle ultime settimane, diciamo tra dicembre e febbraio, il calo delle vendite si aggirerebbe intorno al 25%; il trend negativo dalla fine dell’estate ad oggi avrebbe cancellato i cosiddetti effetti benefici derivanti dalla ripresina del primo semestre 2019.

Il lavoro e l’economia non ripartono, la cassa integrazione è in aumento, sia quella ordinaria, sia soprattutto la straordinaria. Nel solo 2019 le domande di disoccupazione superano 2 milioni, i contratti a tempo indeterminato calano di oltre 75 mila unità.

Non ci soffermeremo sulle statistiche aggiornate dell’Inps o dell’Istat che evidenziano la stagnazione dei consumi e un incremento considerevole del ricorso alla cassa integrazione, dovremmo piuttosto valutare se gli attuali ammortizzatori sociali sono sufficienti e adeguati a fronteggiare una crisi sempre più profonda e se le politiche di sostegno alle famiglie sono giuste o da rivedere.

Se guardiamo al lavoro, in un solo anno le domande di sussidio disoccupazione sono cresciute di circa 130 mila unità, la cassa riguarda per lo più industria e commercio e investe tanto le regioni settentrionali quanto quelle del Centro e del Sud (dove però la crisi si sente maggiormente).

Stando ai dati di fine 2019 e inizio 2020, la situazione è sempre più confusa e preoccupante.

Finora abbiamo svolto considerazioni attingendo a pagine economiche di quotidiani, supportate in ogni caso da dati e statistiche. Ma cos’altro possiamo aggiungere?

In prima istanza dovremmo aprire una riflessione sul fallimento di tutte le riforme operate negli ultimi anni. Chi pensava che l’economia avrebbe beneficiato dell’innalzamento dell’età pensionabile o dal contenimento della dinamica salariale o dalla riduzione di tutele collettive ed individuali ha sbagliato e dovrebbe essere messo in condizione di non nuocere più alla comunità. Al contrario nessuno parla di cancellare il Jobs act o la Fornero; neppure i sindacati si mobilitano a tale scopo. Esistono 160 tavoli di crisi che poi riguardano oltre 200 mila lavoratori, 60 mila dei quali a rischio reale di perdere il posto; tavoli nei quali il ruolo dello Stato è quello di contenitore del danno ricorrendo ad ammortizzatori sociali stravolti e ridotti dal Governo Renzi.

Allo stesso tempo nubi oscure giungono dalla congiuntura internazionale. I dazi degli Usa, il coronavirus in Cina e ormai anche da noi, rappresentano una minaccia seria per tutte le economie e a maggior ragione per quelle in perenne affanno come l’Italia.

A oggi l’Italia si accontenta di essere stata esclusa da molti dazi imposti negli Usa ad altri paesi, “privilegio” dovuto prevalentemente alla marginalità delle nostre produzioni. I nostri prodotti agricoli sono attualmente esentati da tasse che ne pregiudicherebbero la vendita. Nessuno vuole chiedersi però quale sia la merce di scambio di questo privilegio. Eppure basterebbe vedere il basso profilo internazionale dell’Italia, la rafforzata presenza dei militari Usa e Nato nel nostro paese per trarre qualche conclusione. Allo stesso tempo i dazi Usa colpiscono la meccanica e componentistica tedesca a cui anche la produzione industriale italiana è legata. Il danno è quindi indiretto, ma esiste e si unisce alla beffa.

Il lavoro non c’è; ci sono troppi part time (lo abbiamo detto e scritto tante volte), la formazione latita e il reddito di cittadinanza ad oggi non ha avuto effetti benefici sulla formazione e riqualificazione professionale per incontrare le richieste di competenze provenienti dal settore produttivo.

Pur non sostenendo posizioni rivoluzionarie, basterebbe un sano distacco dalle polemiche politiche degne del Grande Fratello per arrivare a conclusioni inconfutabili. Per sopperire alla carenza di lavoro, le associazioni datoriali e di categoria non hanno in mente alcun progetto di reale cambiamento: ci si rivolge, come sempre, allo Stato chiedendo finanziamenti o sgravi fiscali senza mai entrare nel merito di come saranno spesi i nostri soldi; neppure i sindacati lo fanno. Si presentano ipotesi di rinnovo contrattuale con aumenti irrisori e il baratto perverso tra salario e welfare in natura, accettando una subdola forma di privatizzazione dello stato sociale.

E intanto i poveri aumentano, lo testimoniano la ripresa delle vendite ai discount ma anche flessioni tra i beni cosiddetti di lusso: cala il numero di quanti possono accedervi.

In aumento le vecchie paure italiche, per la sana e corretta alimentazione, per stili di vita sani, buoni principi e ottime pratiche anche se le condizioni di vita reali sono tutt’altro che in miglioramento. Lo stesso discorso vale per il lavoro, ci si sofferma sull’ergonomia delle postazioni quando aumentano infortuni, morti e malattie contratte nei luoghi di lavoro.

Prendiamo ad esempio la performance, strumento con cui si distribuisce in termini diseguali il salario vincolando i cosiddetti meritevoli all’accrescimento dei carichi di lavoro, alla disponibilità 24 ore su 24. Siamo in presenza di cambiamenti culturali ed antropologici. Stanno modificando il nostro modo di pensare e di vivere, gli spazi di libertà si riducono e cresce l’omologazione a modelli comportamentali costruiti ad arte. Avviene nell’ambito dei consumi, avviene sul lavoro.

Il sistema meritocratico, affermatosi anche con il silenzio assenso sindacale, parte dall’idea e dalla pratica della diseguaglianza; anzi il pensiero moderno, che potremmo definire pensiero unico neoliberista, parte proprio dal concetto della ineluttabile diseguaglianza. A a cascata si è affermata l’idea che la valutazione individuale debba essere diversificata e in base alla stessa debbano essere stabilite differenze nell’erogazione del salario accessorio.

Il merito ha creato così non solo forme di disuguaglianza ma anche di autoritarismo, ha cancellato la solidarietà e ha messo i lavoratori in competizione, gli uni contro gli altri, per accaparrarsi quote di salario che spetterebbero loro di diritto. In questa ottica va letta la trasformazione della quattordicesima nella produttività, con il sindacato a svolgere un ruolo assolutamente negativo: si indebolisce la contrattazione relegando le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e le Rsu alla contrattazione sul fondo per la produttività ben sapendo che i margini di manovra contrattuale sono come al solito legati all’utilizzo di parte dei fondi.

Attorno al merito hanno così creato un sistema di controllo e una sorta di nuovo ordine sociale, il lavoratore è chiamato a muoversi solo nell’ottica della razionalità economica, l‘economia capitalistica diventa così la matrice di rapporti sociali basati sulla disuguaglianza. Si sono affermate culture dispotiche come quella che ritiene l’istruzione misurabile solo in funzione dell’economia capitalistica.

Dall’esperienza del ministro Luigi Berlinguer in poi, gradualmente, la scuola pubblica si sta trasformando in un’officina che forgi forza-lavoro idonea allo svolgimento mansioni richieste dall’attuale ciclo capitalistico e, soprattutto, priva delle capacità critiche per rivendicare maggiori diritti e resistere all’attacco ordoliberista in atto.

Di conseguenza, fra la frammentazione dovuta alla scomposizione dei processi produttivi, resa possibile dalle nuove tecnologie informatiche, la disperazione e la miseria di tanti lavoratori condannati alla precarietà permanente, e il tam tam dei media concentrati in pochissime mani, è aumentato enormemente il numero di coloro che nel migliore dei casi cercano di risolvere individualmente i propri problemi, senza confidare nella possibilità di organizzarsi collettivamente, e nel peggiore se la prendono con chi sta peggio di loro o con la “casta” politica, che certamente non merita niente, ma è manovrata da burattinai che pochi sanno riconoscere.

Così il capitalismo vede nella crisi provocata dalle sue stesse contraddizioni un’occasione per una selezione al proprio interno, espellendo il capitali più fragili, e per sfruttare e marginalizzare sempre di più la forza-lavoro. Un’uscita dalla crisi che coincide con l’imbarbarimento della società.

29/02/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: italiaoggi.it

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/i-consumi-familiari-in-calo-sono-una-spia-della-crisi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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