Mentre il Ministro Bonafede le definiva come “illegittime”, le recenti rivolte nelle carceri italiane hanno posto il problema di adottare immediatamente misure capaci di affrontare la condizione di sovraffollamento che vige nella maggior parte degli istituti penitenziari
«Vogliamo i nostri diritti», si legge sugli striscioni che i detenuti hanno srotolato dai tetti di alcune delle carceri in rivolta da venerdì 7 su tutto il territorio del nostro paese. Oppure, scandito fra il fumo del materiale dato alle fiamme, il grido: «Libertà! Libertà!». Abbiamo parlato con l’ex-magistrato e direttore di Edizioni Gruppo Abele Livio Pepino (intervenuto sul “Manifesto” in questi giorni a proposito della questione) per capire quali misure si possono e si dovrebbero adottare per tutelare il più presto possibile i diritti dei detenuti che stanno sollevando la propria protesta in seguito ai decreti governativi per contenere il contagio da Covid-19. Assieme alle norme che riguardano l’intera popolazione, infatti, per le persone che si trovano in carcere erano stati sospesi colloqui e visite e ciò ha portato, a partire da sabato 7 marzo, a un crescendo di rivendicazioni e sollevazioni in quasi 30 istituti penitenziari, con ben 14 detenuti (quasi tutti maghrebini) morti per intossicazione e overdose da metadone e/o psicofarmaci, secondo le ricostruzioni ufficiali. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiamato a riferire in aula mercoledì, ha ammesso l’esistenza di “problematiche strutturali” nelle carceri, imputando però al suo operato e alle istituzioni ben poca responsabilità per la crisi di questi giorni. Anzi, ha fortemente stigmatizzato chi, fra i protestanti (che sarebbero nell’ordine di 6000 persone nella popolazione carceraria), avrebbe utilizzato “violenza” e le cui richieste sarebbero dunque da considerare “illegittime”. Eppure, l’emergenza relativa al sovraffollamento, alla violazione della dignità dei detenuti e al rischio di un contagio incontrollato rimane e, a oggi, non sono ancora state prese misure realmente operative.
Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha duramente condannato le rivolte nelle carceri dicendo che «non si può parlare di protesta, ma semplicemente di atti criminali». Concorda?
Il governo non è chiamato a rispondere alle rivolte, di cui al massimo si occuperà la magistratura a seconda dei casi, ma è chiamato a far fronte alla drammatica situazione delle carceri del nostro paese. Non si tratta di «cedere alla violenza», come pretende il ministro Bonafede, bensì di mettere in atto delle misure che rispondono a principi di assoluta razionalità e necessità per alleggerire un quadro già gravemente compromesso. L’attuale emergenza dovuta alla diffusione del Covid-19 impone di risolvere al più presto la condizione di sovraffollamento che vige nella maggior parti dei nostri istituti penitenziari (nelle carceri italiane ci sarebbero 61.230 detenuti a fronte di 47.230 o 50.931 posti regolamentari, a seconda del sistema di calcolo). Come si può fare? I singoli Tribunali di Sorveglianza possono innanzitutto utilizzare in maniera più ampia di quanto fanno normalmente gli strumenti ordinari quali licenze e permessi, l’affidamento in prova ai servizi sociali, ecc. (alcuni istituti pare si stiano già muovendo in questa direzione, ndr) Si tratta però di provvedimenti legati alle richieste dei detenuti e soprattutto alle diverse valutazioni dei singoli magistrati. Occorre invece, a mio modo di vedere, un provvedimento generale adottato dal governo, che può varare con urgenza un decreto legge sulla base delle disposizioni costituzionali.
Quali misure bisognerebbe adottare?
Il differimento o il rinvio dell’esecuzione delle pene inferiori a una certa entità. Secondo i calcoli, in Italia ci sono circa 10.000 condannati a periodi brevi di detenzione, che è esattamente la cifra che permetterebbe di far rientrare l’emergenza del sovraffollamento. Ciò permetterebbe di intervenire in maniera tempestiva e eviterebbe di adottare soluzioni “a macchia di leopardo”. Siamo in un momento di problematicità collettiva e generale. È dunque il governo che deve assumersi la responsabilità di dire che misure del genere sono quanto mai necessarie e urgenti.
Sono misure che garantirebbero una maggiore sicurezza di tutti: dei detenuti, in primo luogo, che hanno assolutamente diritto alla tutela della propria salute, nonché di tutta la comunità – dagli avvocati agli agenti di custodia – che si trova ad avere quotidianamente contatti con l’istituzione carceraria. Ora, occorre metterle in atto al più presto, per arginare il disagio che si è venuto a creare ed esploso in questi giorni, e poi da lì imbastire un ragionamento più ampio su interventi orientati al lungo periodo come amnistia e indulto i quali, però, hanno bisogno di tempi troppo lunghi per essere applicati.
L’Iran ha concesso permessi a 70.000 detenuti per fronteggiare l’emergenza del virus. Come mai in Italia sembra così difficile praticare misure alternative alla detenzione?
Nel nostro paese ci siamo cullati per molto tempo in una postura interna alla gestione della giustizia che è stata chiamata dagli studiosi “illusione repressiva”. Si tratta di una cultura per cui a qualsiasi fenomeno di devianza o disagio occorrerebbe rispondere con il pugno duro, dunque con la detenzione. Insomma, per un lungo periodo in Italia abbiamo risposto a un numero sempre maggiore di fenomeni, semplicemente, con più carcere per un numero sempre maggiore di persone. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non è per caso che è scoppiato il problema del sovraffollamento.
Si tratta, purtroppo, di una visione molto dura a morire e il discorso del ministro Bonafede è un chiaro esempio di dove conduca questa cultura repressiva. Abbiamo assistito a un’iniziale sottovalutazione da parte del governo dell’emergenza coronavirus e poi a una scarsa responsabilità nell’evitare di prendere decisione ferme per non perdere consenso. È evidente che, in una situazione di rischio di contagio esponenziale, istituzioni totali come quella carceraria sarebbero state fortemente coinvolte nell’epidemia. La classe politica ha invece lasciato che il Covid-19 si diffondesse, dopo aver diffuso a sua volta il morbo della repressione a tutti i costi.