di Luscino
La crisi che il coronavirus (COVID-19) ha messo in luce dal suo esplodere, formalmente in Italia il 20 febbraio scorso, non è – come ovvio che sia – dovuta soltanto all’aggressività del virus che fin’ora ha mietuto un migliaio di vittime e costretto il governo a misure draconiane di salute pubblica, nonostante il ridicolo traccheggiare iniziale, ma è una crisi dovuta al sistema capitalistico. Una crisi che parte dalle criticità messe a nudo dal sistema sanitario, quasi giunto al collasso specialmente nelle province più colpite, e che estende i suoi tentacoli sul resto dell’intera società.
Il sistema sanitario nazionale negli ultimi 10 anni ha subito un taglio degli investimenti per circa 37 miliardi di euro, il ché si è tradotto in una perdita di oltre 70mila posti letto, 359 reparti chiusi insieme ad intere strutture di piccoli e meno piccoli ospedali che sono stati riconvertiti o abbandonati. Questo è un dato di fatto già di per sé sufficiente a spiegarne la crisi ed è inutile dare credito alle capriole statistiche che dicono che, in fondo, in termini assoluti la spesa sanitaria è aumentata, quando l’incremento è stato del solo 10% contro una media OCSE del 37% [1]. C’è di più: questi mancati investimenti non si sono tradotti soltanto nei tagli alle strutture, ma perfino al personale sanitario. Fra il 2009 e il 2017 la sanità pubblica ha perso ben 46.500 addetti fra medici e infermieri [2], costringendo i rimanenti a turni massacranti, come ad esempio accade oggi nelle aree più critiche colpite dove si sconta la penuria di personale. Tutto questo non è colpa del coronavirus, le criticità che adesso ci troviamo ad affrontare sono colpa dei poderosi tagli dovuti alle arcinote manovre di contenimento e revisione della spesa pubblica – che viene sempre più indirizzata verso il privato – imposti dalle logiche capitalistiche, nazionali e sovranazionali.
Ancora, non è colpa del coronavirus se, dati OMS, i posti di terapia intensiva ogni 100mila abitanti sono stati tagliati in vent’anni dai 632 del 1996 ai 275 di oggi [3] – nel complesso del territorio nazionale siamo oggi a quota 5090 – e del resto lo stesso si può dire per quel che riguarda le attrezzature. Fra gli strumenti principali nella lotta al coronavirus ci sono i ventilatori polmonari, strumenti costosi ma di vitale importanza che in tutta italia ammonterebbero a circa 3000 mila unità [4]. Questi potrebbero essere insufficienti se l’epidemia toccasse picchi di contagio di vaste proporzioni, ragion per cui sono stati richiesti aumenti della loro produzione e soprattutto si è dovuto ricorrere all’aiuto estero. La Cina, in particolar modo, mentre i nostri “fratelli” europei ci voltavano le spalle, ha inviato 1000 ventilatori polmonari, due milioni di mascherine, 100mila delle quali ad alta tecnologia, 20mila tute protettive, oltre 50mila tamponi per i test [5] e una task-force di medici e infermieri specializzati che hanno lottato in prima linea contro il virus nell’Hubei.
Il decadimento che a bella posta è stato inflitto alle strutture sanitarie pubbliche si è logicamente tradotto in un poderoso aumento della spesa dei cittadini in sanità privata. Secondo un rapporto di Censis del 2019, il 44% degli italiani ha dovuto almeno una volta ricorrere alle strutture private pagando di tasca propria, dovendo quindi obtorto collo rinunciare al sistema sanitario nazionale. Inoltre la spesa sanitaria privata sarebbe aumentata del 7,3% rispetto a cinque anni fa, raggiungendo negli ultimi due anni cifre come 37 miliardi e 42 miliardi di euro [6], una vera cuccagna per cliniche private, convenzionate o no.
Tutto ciò non è dovuto né all’efficienza del privato, né, va da sé, al povero coronavirus, ma, ripetiamo, al taglio degli investimenti nel pubblico, e allo scientifico decadimento inflitto ad esso. Con estenuanti liste d’attesa, e soprattutto, alla spesa cosiddetta “out of pocket” (cioè le prestazioni comunque a pagamento all’interno del pubblico – nel 2016 ben un quinto della spesa totale) [7], il sabotaggio del pubblico a vantaggio del privato è presto spiegato. In un paese in cui il diritto universale alla salute non è più di fatto garantito a tutti, la prospettiva di una progressiva americanizzazione del sistema sanitario non è più un fantasma lontano. Certo, è possibile che lo shock provocato dall’emergenza coronavirus faccia cambiare qualche nefasta traiettoria ma già si levano alti i latrati dei cani da guardia del più retrivo capitalismo liberista che già richiamano il sempiterno Moloch della spesa pubblica, i più audaci addirittura ci dicono che il guaio della crisi del coronavirus è proprio il pubblico! Pornoliberisti. La razionalità, stando così le cose, imporrebbe, proprio all’opposto, la necessità di una forte spinta popolare che richieda a gran voce il diritto ad una sanità universale e gratuita per tutti, al di là della censo e della geografia.
La crisi del coronavirus non ha soltanto gridato a tutti che il re è nudo per quel che riguarda la sanità pubblica, ma lo ha fatto anche col mondo del lavoro, con la considerazione che i padroni hanno nei confronti dei loro lavoratori, semmai servisse ulteriore prova. Si moltiplicano gli scioperi e le proteste dei lavoratori in tutta Italia, soprattutto in fabbrica, per la scelta dei capitalisti di non chiudere le aziende (non ci riferiamo alla produzione e alla distribuzione di generi alimentari, medicine e beni di prima necessità) e di lasciare i dipendenti in balìa del contagio, nonostante il governo, con decreti sempre più stringenti, intimi a tutti di stare in casa e abbia imposto la chiusura alla maggior parte degli esercizi commerciali ed uffici. Gli scioperi si propagano a macchia d’olio da FCA a Pomigliano alla Piaggio di Pontedera, da Fincantieri di Palermo a Marghera, o ArcelorMittal di Cornigliano, dove addirittura la proprietà ha preso la palla al balzo per mettere in cassa integrazione 84 operai [8]; problema questo non di certo isolato, infatti molti padroni e padroncini stanno approfittando del coronavirus per licenziare i propri dipendenti [9].
Ci sarà sicuramente chi nelle file della borghesia addossa tutte queste situazioni di sfruttamento al coronavirus o addirittura alla necessità di “continuare a produrre per salvare l’economia”, non dimentichiamoci di come la Confindustria si sia messa di traverso in ogni modo, e lo fa tuttora, alle azioni del governo per garantire la salute pubblica. E se i tempi degli slogan de “l’Italia non si ferma” si sono volatilizzati come gli aperitivi d’incoraggiamento di politicanti in cerca d’autore, il padronato più bieco continua a prendere sottogamba la salute e le condizioni dei propri lavoratori. È tutto ciò colpa del coronavirus? No, il responsabile è lo sfruttamento capitalistico! Mettere in primissimo piano, e senza ridicole pantomime, la salute dei cittadini, dei lavoratori, è l’imperativo principale, anche perchè se ciò fosse stato fatto sin dall’inizio senza ritrosie e ambiguità probabilmente l’uscita della crisi potrebbe essere più rapida. La Cina, certo un’economia diversa per sostanza e numeri dalla nostra, avrebbe comunque dovuto dare l’esempio di come affrontare questa situazione.
Cosa sta dimostrando questa crisi? Che il coronavirus non è la peste ma nemmeno una semplice influenza, un’emergenza sanitaria che è riuscita a mettere in crisi il sistema con facilità, dimostrandone fragilità e criticità. Ci dimostra altresì che queste non sono solo dovute alla virulenza dell’infezione ma ai tagli dovuti alle esigenze di profitto del capitalismo predatorio, e alla negazione dei diritti (conquistati e da conquistare) che quotidianamente la realtà del capitalismo ci ricorda. Cosa ci può insegnare questa crisi? Che il movimento comunista dovrebbe denunciare, mettere a nudo e organizzare la lotta ripartendo anche dal diritto universale gratuito per tutti alla salute, dal diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro, il diritto a non dover temere ogni giorno di perdere il posto per questa o quella crisi, grande o piccola che sia, o per il capriccio del padrone.
In un paese a scarsa conflittualità come l’Italia, dove i sindacati maggiori sono più gialli che altrove, dove i movimenti di protesta vengono sistematicamente soffocati da decreti repressivi e dove talvolta scarso appare il coinvolgimento delle masse – egemonizzate totalmente dalla retorica del liberalismo e del populismo borghese – il compito dei comunisti dovrebbe essere quello di sfruttare ogni occasione per squarciare il velo di menzogne. Un’operazione di verità fra le masse che possa servire a far prendere loro coscienza che soltanto attraverso un sostanziale cambio di sistema economico-sociale queste crisi, anche esterne e naturali, possano essere affrontate nel modo più sereno e corretto. Un’occasione per riorganizzare la lotta di classe, perchè di una cosa possiamo stare ben sicuri: una volta che sarà passata la crisi da coronavirus, tutti i tiepidi buoni propositi che la borghesia potrebbe mettere in campo verranno immediatamente rimangiati e rinnegati, come da sempre ci è stato dimostrato.
Anche soltanto riuscire a riportare una conflittualità aperta e diffusa come i lavoratori francesi hanno provato essere possibile, sarebbe un piccolo passo per i comunisti ma un passo gigante per lo stato comatoso del movimento operaio in Italia, un obbiettivo strategico di breve termine ma, come dimostrato, raggiungibile. Soltanto così sarà possibile riuscire a raccogliere le forze necessarie, riaccendere la scintilla della coscienza di classe e propiziarne un risveglio generalizzato per obbiettivi strategici ancora più avanzati e ambiziosi: l’abbattimento del capitalismo.
[9] https://www.rassegna.it/articoli/coronavirus-arrivano-i-primi-licenziamenti