Le lingue sono sistemi complessi e raramente sappiamo quando e dove sono nate le parole che noi pronunciamo – più o meno a proposito – ogni giorno. Quarantena è una di queste rare eccezioni. È il 1346: nel nord della Cina si sviluppa una terribile pestilenza, che, attraverso la Siria, raggiunge, dopo alcuni mesi, i vasti territori dell’Impero ottomano, dalla Turchia all’Egitto, fino alla penisola balcanica. Tra la fine del 1347 e il gennaio del ’48 la peste arriva anche nel nostro paese, a Messina, a Genova, a Pisa, a Venezia, ossia in quelle città che sono al centro dei traffici in quello che allora è il mondo globalizzato, anche se nessuno lo chiamava così. Praticamente è la stessa cosa che è successa in queste settimane, la sola differenza è che oggi il virus non viaggia più in nave, ma in business class e quindi è decisamente più veloce.
La Repubblica di Venezia interviene con decisione e nomina tre tutori della salute pubblica che, tra i primi provvedimenti adottati, stabiliscono di isolare per quaranta giorni le navi e le persone prima che entrino in laguna. Nasce così la parola quarantina. Nonostante questo drastico decreto, tra il gennaio 1348 e il maggio 1349, la città di Venezia ha perso circa il 60% della popolazione, si stima tra le 72mila e le 90mila persone, su una popolazione che poteva oscillare tra i 120mila e i 150mila abitanti. Perché era sostanzialmente impossibile “chiudere” Venezia, una città che viveva di commerci e che era uno dei più importanti porti d’ingresso per le merci del Mediterraneo orientale in Europa.
Non si può mettere in ginocchio l’economia di un intero paese solo per questo allarme. E poi gli scienziati dicono cose diverse e contrastanti. Perché io devo smettere di commerciare se il mio concorrente continua: alla fine della pestilenza lui sarà più ricco di me. E se il mio padrone mi ordina di continuare a lavorare io come faccio a smettere; dopo che faccio, come mantengo la mia famiglia? Dobbiamo comunque garantire i servizi essenziali. E poi io non mi ammalo: tanto muoiono solo i vecchi. Immagino che questo abbiano detto e pensato tanti veneziani in quell’inverno del 1348.
E pensate cosa doveva essere la quarantena nel 1348, senza telefoni, senza televisione, senza internet. In una nave alla fonda nell’Adriatico, con accanto a te, a meno di un metro, uno che forse poteva avere la peste. E comunque tutti e due puzzavate come capre, viste le scarse possibilità di pulirsi. E senza sapere cosa stava succedendo alla tua famiglia là in città.
Noi invece abbiamo in questi giorni un disperato bisogno di uscire. E sapete cosa faremo appena sarà finita la quarantena? Andremo fuori, brandendo i nostri telefonini, facendo foto inutili e magari collegandoci con la persona con cui fino a qualche ora prima siamo stati in quarantena. Vogliamo andare fuori per essere collegati a internet. Vogliamo andare al bar e al ristorante per poter finalmente chattare. Se vi fate un giro in un parco in una normale domenica primaverile, senza quarantena, vedrete quanti sono collegati, quanti sono impegnati con le teste piegate sui loro telefoni. Giovani e vecchi. Poi naturalmente dobbiamo uscire perché abbiamo assolutamente bisogno di andare in un centro commerciale, in un outlet, perché finalmente possiamo ricominciare a fare shopping. Sempre brandendo il nostro telefono. Anzi quasi sicuramente ne compreremo uno nuovo, perché mentre siamo in quarantena abbiamo visto che il nostro modello è troppo vecchio. Non ci permette di fare le dirette Instagram belle come quelle che ha fatto il nostro vicino, che così ha preso molti più cuoricini di noi.
Quando sarà tutto finito, non andrà tutto meglio, solo perché qualcuno suona la tromba o la fisarmonica sul balcone di casa o perché in tanti abbiamo condiviso arcobaleni, bandiere, frasette rassicuranti e cose del genere. Lo facciamo a ogni “crisi”. I “ricordi” di Facebook ci ricordano impietosamente di quando siamo stati tutti francesi, di quando siamo stati tutti gay, di quando siamo stati tutti klingon, a seconda di come in quel giorno si doveva cambiare la foto del profilo.
Leggo che in questi giorni qualcuno di noi è perfino solidale con i lavoratori dello spettacolo, naturalmente non ci pensiamo affatto ad andare a teatro quando sarà finita l’emergenza: in quei posti hanno il coraggio di chiederci di spegnere i telefoni prima di entrare.
Adesso siamo tutti solidali con medici e infermieri, solo perché pensiamo che possiamo avere bisogno di loro. Finita la quarantena continueremo a evadere le tasse, che – tra le altre cose – permettono di pagare gli stipendi a medici e infermieri e di avere un sistema sanitario efficiente. E poi a cosa servono tanti posti di terapia intensiva, magari vuoti? È un costo che non ci possiamo più permettere. Meglio tagliare. Cosa vuoi che succeda? Vuoi che venga la peste? E comunque muoiono solo i vecchi.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…