Analizzare le differenti rappresentazioni sulle dimensioni del contagio e sulle sue strategie di contrasto è il primo passo per risolvere gli interrogativi circa i confini dell’emergenza, le società su cui agisce e le politiche da essa generate.
La mia principale attività quotidiana, per mettermi in contatto con ciò che viviamo, qui e nel mondo, è cercare informazioni credibili. Dipende innanzitutto da questo la mia capacità di affrontare la situazione, sia per darmi ragione della sua gravità, e dunque della vita ridotta che faccio, sia per pensare al dopo, a quando e a come si presenterà, e a cosa possiamo, posso fare, per incidere.
Due gli interrogativi ai quali cerco ogni giorno risposta. Il primo è sull’andamento della pandemia, in Italia e nel mondo; qual è la curva del contagio, se sale o è stazionaria o scende; quanto è veloce e dove si è estesa maggiormente. Il secondo è quali sono le strategie, politiche e sanitarie, per contrastarla, o almeno rallentarla e ridurne la portata. Su entrambi gli interrogativi le risposte fornite sono innanzitutto i dati.
I dati
Per il primo interrogativo le cifre sono tre: il numero dei contagiati, quello dei decessi e quello dei guariti; il totale determina il punto della curva in cui si è quel giorno, più in alto o in basso del precedente. Anche il rapporto tra le tre cifre è importante, ma non allo stesso modo.
“I numeri non mentono, neppure se li torturi” ho sentito affermare in un tg, da uno dei medici più qualificati e informati. Invece i numeri “ballano”, è la prima essenziale deduzione che traggo dalla lettura dei dati. Il dubbio che sia così lo formula Marco Imarisio sul Corriere della sera del 14 marzo: “Le statistiche sono fatte apposta per essere smentite” scrive, riferendo uno studio pubblicato su Lancet di previsione statistica sull’andamento dell’epidemia.
Un fattore decisivo è su quale base avviene la rilevazione del contagio, se sulla popolazione di un’ intera area – e conta anche la sua estensione – oppure su quella ritenuta – per diversi motivi – più esposta al contagio. Dipende cioè dal numero di tamponi effettuati, e con quali criteri (abitare o essere andato/a nelle aree-focolai, aver avuto contatti con persone positive, avere sintomi come febbre e tosse). Ma rilevante è, ovviamente, il numero complessivo dei tamponi giornalieri. In Italia i dati dicono da 2mila a 3mila. Mentre in Corea del Sud sono 15mila. Ma sul confronto con la Corea del Sud tornerò più avanti.
Una prima osservazione che si può trarre è che l’attenzione va spostata dal numero secco dei contagi, a quello dei tamponi effettuati. Del quale invece parlano solo alcuni medici epidemiologici. Una delle caratteristiche del virus è infatti che la maggior parte dei/delle contagiati/e è asintomatico/a. E da noi questa parte è esclusa dal tampone. Andrea Crisanti, docente di virologia e microbiologia ha coordinato l’indagine epidemiologica su Vo’, focolaio del Veneto, dove l’intera popolazione si è sottoposta alla rilevazione del tampone due volte. Netta la conclusione che ne trae: “Si è dimostrato che la maggior parte delle persone contagiate è asintomatica”, ed è quindi “una formidabile fonte di contagio”. Sul piano sanitario si tratta di passare dai 2mila tamponi attuali a 15mila, attuando “una sorveglianza attiva di massa”. Naturalmente aumentando le diagnosi, si avrà un’impennata dei contagiati (a conferma che i numeri “ballano”).
Ancora sul dato che determina la posizione di un paese o di un altro nella curva della pandemia. In Gran Bretagna la cifra ufficiale del 12 marzo era di 373, schizzata a 1.143 il 15; ma medici autorevoli parlano di un numero tra 5mila e 15mila. Analogo divario in Usa. Rispetto ai 2488 ufficiali del 15 marzo, si stima che il dato reale possa superare le 100mila persone.
Dunque la conclusione da trarre sulla prima domanda è che siamo sulla stessa linea temporale, “un po’ più avanti e un po’ più indietro” scrive Paolo Giordano sul Corriere della sera. Questo dovrebbe orientare il nostro sguardo, non le cifre assolute. Chi è più indietro guardando a chi precede, per non farsi trovare “scomposti” quando arriva l’onda alta. “Non è questione di se e dove arriva, ma di quando e come”. Ma è proprio questo sguardo comune che è mancato. È pandemia, si legge tanto sulla globalizzazione che ha spalancato le porte al virus, un boomerang fatale per i sovranismi e i “prima noi”. Ma di fatto ogni paese – Stato, Regioni, Comuni, cittadini/e – si comporta guardando al proprio, come se fosse possibile “isolare” il virus, agendo in ordine sparso, appunto “scomposto”.
Le politiche
Anche per il secondo interrogativo, sulle strategie di risposta, sono le statistiche a determinare quale è più efficace. Si parla di “modello Cina”, più di recente di “modello Corea del Sud”, e l’Italia si autopropone come modello almeno per l’Europa.
Al momento la Cina è considerato il modello più efficace, avendo pressoché azzerato i contagi. Come è noto la strategia cinese si è basata sulla creazione della “zona rossa”. In breve, chiudere l’area del maggior contagio, isolare al suo interno, con l’obbligo di stare in casa, l’intera popolazione, bloccare le attività. L’Italia si è riferita a questo modello, con alcune significative varianti. La questione è quanto dell’efficacia del modello dipende dalla specificità della Cina. E qui le letture si dividono. Prevale quella che la riconduce al regime autoritario che consente un controllo capillare della popolazione. Con conseguenti dubbi sull’attendibilità dei dati, relativi alla curva del contagio, cioè ai numeri effettivi di malati e decessi. Visto che una volta ottenuto l’isolamento nelle case non ci si è preoccupati di verificare cosa avvenisse nelle mure domestiche; chi si ammalava, guariva o moriva.
Il nesso tra autoritarismo e soluzione dell’emergenza non è affatto da sottovalutare. Anche in Italia vi si sono rischi e torsioni securitarie. Tuttavia non mi convince una lettura univoca. Mi convince di più la lettura di Simone Pieranni sulla complessa “specificità” della Cina, radicata nella tradizione. Per Pieranni “la rigidità del sistema è una nostra invenzione” che ci impedisce di vedere alcuni aspetti della forma di governamentalità cinese, basata sul partito più che sul governo. Dalla capacità di combinare controllo e adattamento ai contesti, alla centralità del ruolo della scienza, pur sottoposta al controllo ideologico del partito, al valore della “stabilità sociale” – l’ “abito confuciano” – del popolo cinese. Che non coincide con passività. Al contrario, le proteste che dalle finestre hanno accolto il presidente Xi Jinping in visita a Wuhan per gli abusi e le ingiustizie che vi sono stati – a cominciare dalla censura posta sulle prime manifestazioni del virus, sono un segno che l’“anima taoista” della ribellione (Pieranni) non è sedata.
Ma non è in ragione di questa specificità che non mi convince l’adozione del “modello Cina” in Italia. Per altro con significative eccezioni rispetto alla “totalità” cinese, che è la condizione, sembra, della sua efficacia. Ne cito due, diverse ma illuminanti. La prima è sulle ragioni di necessità per uscire da casa, anche a piedi. L’autocertificazione, con relativi controlli – ed eventuali sanzioni – sembra essere più una raccomandazione che un obbligo di legge. E infatti “la passeggiata” è invocata come necessaria, sia da psicologi, contro la psicosi claustrofobica, sia da tanti e tante di noi. Né serve chiudere i parchi recintati, perché vengono trovati altri percorsi; a Roma, ad esempio, gli argini del lungotevere. Evidentemente più della severità del divieto, manca qui “l’abito confuciano” che in Cina ha reso effettivo l’isolamento in casa. Più rilevante l’altra eccezione, ovvero la mancata sospensione dell’attività produttiva. “L’Italia non si ferma” ha dichiarato il presidente Conte, rilanciando l’appello del sindaco di Milano, poi riconvertito al rigore della zona rossa. Conte lo ha fatto, presentando il protocollo firmato con le parti sociali. Il quale, per quello che ho letto, presenta forti incoerenze con il modello “zona rossa”. Si può ritenere la produzione di fabbriche metalmeccaniche, come la FCA, o di quelle tessili, o di altri prodotti, “necessaria al paese”? Sarebbe questo il criterio, secondo Francesco Boccia (Intervista al Corriere della sera del 13 marzo). Soprattutto si può realisticamente garantire la tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici? Non serve una conoscenza diretta per capire che è impossibile mantenere la distanza di sicurezza. E non sono sufficienti mascherine, peraltro indisponibili anche per gli ospedali, e controlli della febbre. Di fatto si crea quella discriminazione tra lavoratori di serie A e di serie B, denunciata durante gli scioperi spontanei. In ottemperanza al principio sovraordinato della produzione, e per paura dello choc economico, prima e più che del virus. Ma se il contagio cresce e manda in tilt il sistema sanitario, crescerà la protesta e la divisione sociale. Allora sì che la crisi economica rischia di essere incontrollabile.
Per quello che posso capire, più che al modello cinese occorreva, occorre, guardare a quello coreano. E torno al punto di partenza. Bisogna estendere il rilevamento con tamponi, impegnando risorse e personale sanitario in quella diagnosi “massiva” di cui parla Crisanti. Anche in Corea del Sud “l’abito confuciano” ha favorito questa strategia. Ma oltre ad essere probabilmente più efficace, perché interviene sulla zona grigia dell’asintomaticità, è anche più convincente, meno invasiva, rispetto all’imprescindibile coinvolgimento personale.
Potrebbe essere questo il terreno sul quale far convergere le scelte politiche in Europa? Il continente al centro della pandemia non può infatti permettersi di farne a meno. La sua assenza sta già avendo conseguenze disastrose. Dal rifiuto, settimane fa di Francia e Germania, a fornire i materiali sanitari, alle dispute sui confini aperti o chiusi, all’individuazione di priorità diverse, a seconda dell’interesse economico, o di quello politico.
Quello che più mi inquieta è che si possa mettere in conto il sacrificio di vite anche esteso. Non c’è solo l’agghiacciante ammissione di Boris Johnson: “Molte famiglie perderanno i loro cari”. Di più, non è auspicabile che si ammalino in pochi, perché solo se una larga parte della popolazione è colpita si potrà avere l’effetto di “immunità di gregge”, con lo sviluppo di anticorpi durevoli. Parole che hanno ricevuto apprezzamenti; per il Times Johnson si comporta da statista, senza cedere a pressioni populiste. Anche la cancelliera Angela Merkel sembra mettere in conto un’estensione considerevole del contagio, pure la Germania non ha adottato provvedimenti adeguati a prevenirla. Come stanno insieme la tranquilla ammissione che il 60-70% della popolazione sarà prevedibilmente contagiata e questa assenza, o comunque ritardo, di politiche? La cancelliera si è trincerata dietro la competenza dei Land sulla sanità. Viceversa è molto attiva sul fronte della crisi economica. Sono stati stanziati 550 miliardi per le imprese, perché, parole sue, “è questione di vita o di morte”. Mandando in soffitta il diktat del pareggio di bilancio, con cui la Germania ha strozzato la politica economica degli altri paesi europei, a partire dall’Italia.
Èstata senza dubbio giusta la reazione che si è avuta in questi giorni sull’assenza di una strategia europea, per fronteggiare il rischio di recessione, ovvero di una crisi economica che da più parti è pronosticata peggiore di quella del 2007. Una reazione necessaria dopo le nefaste dichiarazioni di Christine Lagarde. Ma a me sembra che la scelta politica primaria sia quella di un coordinamento degli interventi, volto a garantire, il più possibile, la salute di noi tutti e tutte. Se ha un senso, sia pure potenziale che siamo tutti e tutte europei/e – come ha detto la presidente Ursula Von Der Leyen – allora dobbiamo esserlo innanzitutto nella tutela della salute.