di Judith Butler
Quali conseguenze sortisce questa pandemia sul modo in cui pensiamo l’uguaglianza, l’interdipendenza globale e le nostre reciproche obbligazioni?
L’articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2020 sul blog della casa editrice Verso ed è stato tradotto da Federico Zappino di comune accordo con Judith Butler. Ringraziamo entrambi per la concessione della pubblicazione su DinamoPress
Nel tempo e nello spazio della pandemia, l’imperativo di isolarsi costituisce un’inedita forma di riconoscimento della nostra interdipendenza globale. Ci viene chiesto di auto-segregarci all’interno di unità familiari, condividendo spazi vitali o domicili privi di contatto sociale, relegandoci in sfere di relativo isolamento, proprio mentre un virus attraversa disinvoltamente i confini, letteralmente ignaro della nozione di “territorio nazionale”. Quali conseguenze sortisce questa pandemia sul modo in cui pensiamo l’uguaglianza, l’interdipendenza globale e le nostre reciproche obbligazioni?
Il virus non fa alcuna discriminazione. Si potrebbe dire che ci tratta in modo egualitario, mettendoci di fronte all’uguale rischio di ammalarci, di perdere chi amiamo, di vivere sotto una cappa di minaccia imminente. Nel modo in cui si muove e colpisce, il virus illumina dunque l’uguale precarietà della comunità umana. Al contempo, il fatto che alcuni stati e regioni abbiano mancato di prepararsi in modo adeguato alla possibilità di una pandemia (e gli Stati Uniti sono i membri più illustri di questa cricca), passando il loro tempo a implementare politiche nazionaliste di chiusura dei confini (dando spesso man forte a forme deliranti di xenofobia) e il conseguente arrivo sulla scena di imprenditori senza scrupoli pronti a fare profitti sulla sofferenza globale, testimoniano della pari rapidità con cui la disuguaglianza radicale trova modi per riprodursi e per rafforzare il suo potere nelle zone maggiormente colpite dall’epidemia. Non sorprende, chiaramente. Si tratta di quella disuguaglianza radicale che permea proprio il nazionalismo, il suprematismo bianco, la violenza eteropatriarcale, lo sfruttamento capitalistico.
La politica sanitaria statunitense consente di cogliere questo aspetto in modo peculiare. Abbiamo già alcuni elementi che consentono di immaginare lo scenario relativo alla produzione e alla vendita di un vaccino contro il Covid-19. Chiaramente desideroso di accumulare punti politici che gli assicurino la rielezione, Trump ha tentato di comprarsi (con dollari alla mano) l’esclusiva statunitense sul vaccino da una industria tedesca, la CureVac, fondata dallo stesso governo nazionale. Il ministro della salute della Germania, non particolarmente lieto dell’offerta di Trump, l’ha poi effettivamente confermata alla nazione, e un politico tedesco, Karl Lauterbach, ha chiosato: «La vendita esclusiva di un possibile vaccino agli Stati Uniti deve essere prevenuta con ogni mezzo. Il capitalismo ha dei limiti». Chiaramente, mi auguro che Lauterbach si stesse opponendo all’“uso esclusivo” del vaccino da parte degli Stati Uniti, e che sarebbe ugualmente contrario nel caso in cui un vaccino diventasse prerogativa della sola Germania. C’è infatti da scongiurare l’uguale pericolo di un mondo in cui le vite di alcuni europei sarebbero più importanti di altre – metro di giudizio che già vediamo violentemente all’opera ai confini dell’Unione Europea.
La mia idea è che siamo arrivati a un punto in cui non ha più senso chiedersi a cosa starà pensando Trump. Ce lo siamo chiesti così tante volte, in condizioni di così grande esasperazione, che non ci sorprende più nulla. Ciò non significa certo che il nostro sdegno diminuisca a ogni sua nuova uscita immorale o criminale. Ma, supponiamo, nel caso in cui riuscisse nel suo intento di comprare l’esclusiva sul potenziale vaccino, restringendone l’accesso ai soli cittadini statunitensi, Trump crede che costoro plaudiranno alla sua impresa, eccitati all’idea di sentirsi sollevati dalla minaccia della morte, mentre il resto della popolazione nel mondo non lo è affatto? Trump crede che il suo popolo apprezzerà questa forma di disuguaglianza sociale radicale e di “eccezionalismo americano” e che appoggerà il suo modo «brillante» (come lui stesso lo definisce) di concludere un affare? Trump ritiene forse che la maggior parte delle persone condivida l’idea che debba essere la logica capitalistica a decidere della produzione e della distribuzione di un vaccino? Nella sua idea di mondo è contemplata l’ipotesi di una politica sanitaria globale in grado di trascendere la razionalità di mercato? Ha ragione, Trump, di sospettare che i parametri di questo mondo immaginario siano già quelli in cui ci troviamo a vivere questa circostanza?
Infatti, anche nel caso in cui l’applicazione di restrizioni all’accesso al vaccino sulla base dell’appartenenza nazionale dovesse restare solo un delirio, assisteremmo sicuramente a una gara al miglior offerente quando sarà disponibile, nonché a un modo di distribuzione che garantirà un accesso limitato, accrescendo forme di abbandono sociale e intensificando la precarietà. A rendere discriminatoria l’azione del virus, in altre parole, sarà la disuguaglianza sociale ed economica. Il virus, di per sé, non discrimina: siamo noi umani a farlo, costituiti e animati come siamo dai poteri del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, del capitalismo. Sembra alquanto probabile che da qui a un anno assisteremo a uno scenario raccapricciante in cui alcune vite rivendicheranno il proprio diritto di vivere alle spese di altre vite, riscrivendo in modo inedito la distinzione tra vite degne di lutto e vite indegne, ossia tra vite che meritano di essere protette a ogni costo dalla malattia e dalla morte e vite considerate invece immeritevoli di questa stessa salvaguardia.
Come se non bastasse, tutto ciò si verifica nel contesto della campagna elettorale statunitense, in cui le possibilità per Bernie Sanders di diventare il candidato democratico sembrano a dir poco remote, se non statisticamente impossibili. Le nuove proiezioni che indicano al contrario Joe Biden sono devastanti, specialmente alla luce del fatto che sia Sanders sia Elizabeth Warren avevano nel loro programma Medicare for All, una forma di politica sanitaria universale che avrebbe garantito un’assistenza di base a chiunque, negli Stati Uniti. Un programma del genere avrebbe chiaramente messo fine al sistema delle assicurazioni private regolato dal mercato, che puntualmente abbandona alla propria morte chi non può permettersi un’assicurazione dai costi a dir poco esorbitanti, e che perpetua una brutale gerarchia tra “assicurati”, “non assicurati” e “non assicurabili”.
L’approccio alla sanità presentato come socialista di Sanders era in realtà una forma di socialdemocrazia non molto diversa da quella sostenuta anche da Warren nei primi stadi della sua campagna elettorale. Secondo Sanders, il diritto alle cure mediche è un “diritto umano”: ciò significa che ciascun essere umano avrebbe diritto al tipo di cure mediche di cui necessita. Eppure, perché non intendere le cure mediche come una forma di obbligazione sociale, che deriva dal mero fatto di vivere insieme in società? Per ottenere consenso popolare attorno a una simile concezione, Sanders e Warren avrebbero dovuto convincere la società americana del fatto che vogliamo vivere in un mondo in cui il bisogno individuale di cure mediche non si fonda sulla negazione del bisogno altrui – in un mondo sociale ed economico, in altre parole, in cui sarebbe radicalmente inaccettabile che l’accesso a un vaccino salvavita costituisse prerogativa di alcuni a scapito di altri, per il semplice fatto che questi altri non possono permetterselo economicamente, né possono permettersi un’assicurazione.
Una delle ragioni per le quali ho dato il mio voto a Sanders nelle primarie della California (in cui i democratici costituiscono la maggioranza), è che insieme a Warren ha consentito di iniziare a re-immaginare il mondo sulla base di nuovi presupposti, come se questo mondo potesse essere governato da un desiderio collettivo per l’uguaglianza radicale: un mondo in cui saremmo ad esempio d’accordo nel ritenere che i beni materiali necessari alla vita, proprio come le cure mediche, dovrebbero essere ugualmente accessibili, a prescindere da chi siamo e da quali siano le nostre disponibilità economiche. Una politica di questo tipo si fonderebbe sulla solidarietà con le altre nazioni impegnate anch’esse nell’implementazione di una politica sanitaria globale, così da istituire una politica transnazionale, volta a realizzare l’ideale dell’uguaglianza. Tutto il contrario, in altre parole, da ciò che si evince dagli ultimi sondaggi: il futuro confronto tra Trump e Biden, proprio mentre la pandemia sconvolge la vita quotidiana, promette un’intensificazione della precarietà di chi non ha una casa, un’assicurazione sanitaria e un reddito.
L’idea che saremmo potuti diventare un popolo desideroso di un mondo in cui la politica sanitaria avrebbe distribuito egualmente le proprie risorse tra tutte le vite e in cui sarebbe stato distrutto il monopolio capitalistico sulle cure mediche, da cui dipende la distinzione tra chi merita di vivere e chi di morire abbandonato alla propria malattia, ha avuto vita breve. Abbiamo preferito continuare a pensarci diversamente dalla possibilità offertaci da Sanders e Warren. Spero che ora inizieremo a comprendere diversamente la necessità di pensare e giudicare al di fuori dei termini che il capitalismo regolarmente appronta per noi. Warren non è più tra i candidati ed è poco probabile che Sanders recuperi il suo slancio iniziale. Ma noi dobbiamo continuare a chiederci, specialmente in un momento come questo: perché siamo così ostili nei riguardi dell’idea che tutte le vite abbiano un eguale valore? Perché così tante persone godono all’idea che Trump possa assicurarsi l’esclusiva su un vaccino in grado di salvaguardare le «vite americane» (come le definisce lui) a scapito di altre?
La proposta di una politica sanitaria universale e pubblica ha indubbiamente riacceso un’immaginazione socialista negli Stati Uniti, anche se una simile immaginazione dovrà pazientare ancora per essere realizzata in termini di politica sociale e di impegno pubblico. La sfortuna è che nessuno, in tempo di pandemia, può più aspettare. La realizzazione di un ideale di uguaglianza radicale deve essere portata avanti dai movimenti sociali meno impegnati nelle campagne elettorali e più nelle lunghe lotte che si aprono davanti a noi. Anche perché visioni come queste, animate dal coraggio e dalla compassione, respinte e ridicolizzate dai “realisti” asserviti al capitalismo, sono state in grado, per la prima volta dopo molto tempo, di guadagnare attenzione mediatica e di far crescere consenso attorno al desiderio di cambiare il mondo.
Possa non abbandonarci la speranza di mantenere vivo questo desiderio.
*L’immagine di copertina è di Graeme Pow, che ha fotografato “Virus”, opera dell’artista Antonio O’Connell