Martino Mazzonis

Milioni di disoccupati, misure del governo che non coprono la condizione di molte categorie di lavoratori, Stati al collasso e in competizione tra loro per accaparrarsi mascherine e respiratori. È il quadro degli Usa travolti dal virus. Servirebbe un secondo piano di interventi, ma i repubblicani nicchiano.

Il dato sulle richieste di sussidio di disoccupazione è un buon indicatore della situazione che si prospetta. Il grafico impressionante per l’impennata della curva, è stato pubblicato un po’ ovunque. Il dato ufficiale di marzo, che si basa una raccolta dati terminata il 14 del mese, e dunque totalmente superata dai fatti, parla di un tasso di disoccupazione del 4,4%. La realtà è ben più brutta e la vedete qui sotto. Il fatto è che l’economia americana reagisce alle crisi e alle riprese in maniera tempestiva: più facile aprire, chiudere, licenziare o assumere. Certo, questa crisi senza precedenti ha caratteristiche tali da non rendere facili previsioni.

Quel che sappiamo è che la reazione immediata è stata catastrofica. Le previsioni peggiori: entro la metà dell’anno potremmo arrivare a tassi ben peggiori che non nel 2008. In molti parlano di livelli di espulsione di forza lavoro da Grande Depressione. Le previsioni di Bank of America, Goldman Sachs e Congressional Budget Office (struttura che monitora l’andamento del bilancio, fa previsioni e proiezioni di costi e degli effetti delle politiche pubbliche) oscillano tra tassi di disoccupazione del 15,5% e il 12%. Tutto il nuovo lavoro creato nel conclamato boom trumpiano, cominciato a dire il vero nel 2016, è evaporato in una settimana. Anche il numero medio di ore lavorate è sceso a livelli di novembre 2010, quando l’economia Usa era ancora tramortita dalla crisi dei subprime. Come racconta Vox, su Indeed, primo sito di offerta di lavoro Usa, gli annunci di posizioni aperte sono 89mila, contro i 112mila di un anno fa.

Non vi basta? Sappiate che ci sono milioni di self-employed, o lavoratori autonomi che dir si voglia, che perderanno il lavoro, le commesse o altro – una categoria che include drivers di Uber come insegnanti di yoga o artisti di vario ordine e grado. Per questi le leggi approvate dal Congresso prevedono un contributo straordinario, che li associa ai disoccupati. Problema: costoro non hanno uno status giuridico o fiscale equiparabile ai dipendenti e quindi gli uffici che gestiscono i sussidi di disoccupazione non sanno come sbrigare le loro pratiche. Ci vorranno mesi per risolvere il problema.

Con la chiusura dei piccoli negozi e con le catene di abbigliamento in crisi spaventosa – già cominciata grazie al boom degli acquisti online precedente all’epidemia di Coronavirus – anche commercianti e manager finiranno a spasso. Diverse grandi catene hanno licenziato i lavoratori part-time (Sephora), messo in permesso non retribuito decine di migliaia di dipendenti (Macy’s), ridotto gli orari al minimo. I negozi che chiudono o che non incassano avranno enormi difficoltà a pagare l’affitto e sebbene ci siano strumenti di credito garantito dallo Stato posti in essere dalla straordinaria legge di spesa del Congresso, molti non ce la faranno ad andare avanti e chiuderanno i battenti.

Risultato? I gruppi immobiliari e i piccoli padroni di mura subiranno perdite a loro volta. Questo potrebbe voler dire un calo dei costi del metro quadro nelle grandi città e, dunque, una soglia di entrata minore per chi volesse intraprendere una nuova iniziativa. Nelle metropoli il costo dell’affitto è infatti un ostacolo insormontabile nell’avvio di un’attività. Ma questa è una valutazione che riguarda i tempi medi. Nel breve la storia è ben altra.

E qui torniamo alla politica. Il pacchetto di misure in soccorso dell’economia approvato dal Congresso contiene alcune cose buone e altre pessime, ma quel che appare evidente è che non basterà se non a mitigare il panico di queste settimane. C’è ad esempio una marea di immigrati non regolari (circa dieci milioni) che nelle prossime settimane cercheranno comunque di andare a lavorare perché la legge non prevede di tutelarli in nessun modo. E che ne sarà di quegli studenti che lavorano part-time o l’estate per contribuire a pagarsi gli studi? Quanti lasceranno?

Per i piccoli imprenditori c’è la possibilità di trasformare i prestiti pubblici in un regalo in contributo nel caso di mantenimento dei livelli occupazionali. Ma la parte importante riguarda i 500 miliardi di dollari di prestiti per le grandi imprese e il modo in cui verranno impiegati. I prestiti verranno fatti sulla base di piani che tutelano il lavoro o gli azionisti? E se nel periodo in cui le compagnie usano i soldi pubblici queste faranno profitti, una parte di questi andranno o no nelle casse dello Stato (cioè di tutti gli americani) che si è indebitato per mantenerle in vita?

Un altro aspetto riguarda le finanze statali. In queste settimane alcuni Stati stanno spendendo cifre enormi per tutelare la salute pubblica. Tra l’altro è in corso un’assurda caccia al respiratore e alla mascherina, nella quale i governatori si trovano a dover competere con i loro colleghi. Una competizione ovviamente basata sull’offerta, come a un’asta di quadri. Il grosso delle spese per i sussidi di disoccupazione, pure, pesa sulle casse dei singoli Stati. Tradotto, nei prossimi mesi, senza un sostanzioso aiuto federale, molti Stati saranno costretti: a) ad alzare le tasse; b) a tagliare i servizi. Ovvero a deprimere l’economia o a negare tutele e servizi di welfare a fasce della popolazione ai margini.

È per questo che a Washington già si discute animatamente di un secondo pacchetto di interventi. Stavolta non di sola emergenza ma anche di rilancio dell’economia. Lo stesso Trump ha parlato di un piano di infrastrutture, misura nominata ogni tot mesi dal presidente, alla quale i repubblicani sono contrati, mentre i democratici spingono per ottenerla. Quello delle infrastrutture è un vecchio tema, agli Stati Uniti servono disperatamente, ma un’eventuale iniziativa federale non potrebbe avere l’impatto degli anni del New Deal, quando le autostrade, gli edifici pubblici, i parchi non c’erano e sono stati costruiti o creati.

Quel che potrebbe somigliare al New Deal è una qualche forma di Green New Deal, che re-immagini le città, investa nei trasporti urbani, nei treni, nella riconversione degli edifici pubblici – per fare qualche esempio. Ma per un Green New Deal serve un consenso che oggi non c’è. Volando più basso, per fare fronte a una crisi occupazionale senza precedenti serviranno risorse per gli Stati, un’ulteriore iniezione di liquidità per le famiglie (visto che 1.200 dollari bastano, forse, un mese), risorse per gli ospedali e per i lavoratori che sono in prima linea in questi mesi, un prolungamento dei programmi speciali di assicurazione contro la disoccupazione, programmi per la creazione di lavoro e di formazione per coloro che in queste settimane vengono espulsi da settori destinati a non riprendersi del tutto.

Nemmeno questo sarà facile, il capo dei senatori repubblicani McConnell ha preso tempo: “aspettiamo di vedere cosa succederà, abbiamo appena votato un intervento”. A novembre si vota e se questi temi diventassero oggetto di campagna elettorale (e la sinistra capisse che è utile organizzare campagne su due-tre punti generali su cui far discutere il Paese anziché continuare a lavorare per una campagna Sanders persa) sarebbe molto bene. Intanto però occorrerà trovare maschere e respiratori e distribuirli agli Stati e lavorare affinché l’epidemia rientri. Al momento l’amministrazione Trump non sembra in grado neppure di fare questo o usa il materiale sanitario come arma di ricatto nei confronti dei governatori.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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