Il capitale naturalizza le proprie, inevitabili, crisi per farle pagare ai proletari. Ma questa crisi può far emergere la coscienza collettiva del bisogno di superare il capitalismo. A questo scopo è necessaria l’unità dei comunisti
Il capitale sta indossando la mascherina: quella del gran virologo che nasconde il grande reazionario. Occorre stare molto attenti: il suo intento – che non trova significativa opposizione – è quello di rendere “naturale”, come naturale è l’epidemia, anche la crisi economica. La narrazione è semplice: la crisi economica annunciata è figlia del coronavirus; essendo essa di provenienza “naturale” il potere dominante non ne ha colpa e dunque tutti (cioè i lavoratori e le lavoratrici, “la classe” proletaria complessiva) saranno presto e “purtroppo” chiamati a sostenerne il prezzo sociale.
“Stabilito” il nesso tra epidemia e crisi economica il grande capitale potrà procedere indisturbato, appena superata la fase epidemica, ad ogni azione antioperaia e antidemocratica. Questo è il giro di vite che si va profilando e, ad esempio, il fatto che lo sciopero di 60 secondi indetto dalla USB per lo scorso 25 marzo (volto a mettere in luce le difficilissime condizioni di lavoro che in questi giorni vivono tanti lavoratori, oltre i medici e gli infermieri, privi di ogni minima difesa nei luoghi di lavoro) sia stato condannato e abbia subito un “procedimento di infrazione” da parte della CGSSE (Commissione di Garanzia dell’Attuazione della Legge sullo Sciopero nei Servizi Pubblici Essenziali) e dal suo presidente, il garante Giuseppe Santoro Passarelli,la dice lunga sullo “spirito dei tempi”.
In verità, qual è il quadro sociale che l’epidemia si trova ad incrociare, in Italia, nella sua propagazione? Un quadro pesantissimo che ogni minima sollecitazione poteva destabilizzare: un abbattimento generale e profondo dei salari come proiezione diretta dei Trattati di Maastricht e di Lisbona (negli ultimi 15 anni il valore del salario medio in Italia, in virtù sia del “contenimento salariale” dettato dall’Ue che degli squilibri pesanti provocati dall’euro, cala di circa un 40%); una disoccupazione del 10% (2 milioni e mezzo di persone senza lavoro); 5 milioni di persone nella povertà assoluta e quasi 10 milioni nella povertà relativa; 12 milioni e 230 mila persone (il 20,5% dell’intera popolazione) con un reddito, dati Istat, di 10.106 euro l’anno (842 euro al mese, il che spiega il ricorso di massa di una parte cospicua della popolazione italiana ai continui prestiti elargiti, come soggetti usurai legittimati, dagli istituti finanziari privati); una spesa media nazionale mensile per famiglia, occorrente per sopravvivere, – ancora dati Istat – di 2.571 euro (e sappiamo che in tantissime famiglie un tale reddito mensile non entra); una disoccupazione e inoccupazione giovanile del 52%, che spiega il perché il 12,6% dei giovani sia nella fascia della povertà assoluta; un contesto generale segnato dalla privatizzazione massiccia (portata avanti col medesimo spirito liberista dal centro-destra e dal centro-sinistra, da Berlusconi e D’Alema) dei più grandi asset del sistema produttivo, finanziario e tecnologico pubblico italiano, dalla siderurgia alle telecomunicazioni, dalla banche ai poli produttivi industriali, un’azione complessiva che ha portato lo Stato, il pubblico, a dover rinunciare ad ogni progetto razionale di rilancio produttivo strategico, delegando lo sviluppo, la produzione e la costruzione del lavoro solamente e totalmente agli “spiriti animali” del capitalismo e all’anarchia nera del mercato.
Su tutto ciò, peraltro, si è abbattuta la fase della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, un fenomeno di portata storica e segnato dalla messa in campo, da parte del capitale, di un poderoso e nuovo sistema macchinico generale di produzione, in grado di immettere sul mercato immense quantità di merci con molta e molta forza-lavoro in meno. Fenomeno storico che, incrociandosi con la contrazione dei mercati per l’impoverimento di massa, è alla base delle già concrete, continue e drammatiche crisi di sovraproduzione, che si offrono come ulteriori motivi per la nuova crisi ciclica capitalistica. Con la quale – e veniamo al punto – l’epidemia in corso non ha alcuna relazione strutturale.
Non è il coronavirus la causa della prossima e già annunciata crisi economica. Tale crisi era già tutta interna alle contorsioni capitalistiche vigenti e il tentativo di rendere “naturale” la crisi economica sarà il cavallo di troia del capitale per far passare misure, controlli e repressioni di natura reazionaria su di una società bollente di disagio, miseria e disperazione.
Peraltro, Marx aveva già chiaramente individuato una perversione ideologica del capitale: quella di individuare di volta in volta, moralisticamente, un colpevole della propria crisi rifiutando il fatto che il sistema di produzione capitalistico possa avere contraddizioni strutturali interne e che, di conseguenza, ogni patologia non possa che provenire da cause esterne ad esso: oggi la pandemia. Ed è, dunque, un prodotto tipico della stessa filosofia capitalistica rimuovere il fatto, come oggi va ripetendosi, che la crisi economica possa essere già tutta dentro il ventre del capitale. Con ciò, in verità, si cancella un problema centrale dello sviluppo capitalistico, una contraddizione micidiale che sottrae al capitale ogni statuto di “naturalità” collocandolo nella storia delle formazioni sociali destinate all’estinzione: il problema delle crisi capitalistiche cicliche. Non per niente Marx trasformerà l’analisi delle crisi cicliche del capitale in una straordinaria requisitoria generale contro il capitale stesso, scrivendo ne “Il Capitale”: “Le crisi cicliche rappresentano il modo con cui il capitalismo supera momentaneamente le sue contraddizioni e riavvia una fase di sviluppo, ma ogni volta che questo avviene le contraddizioni si accumulano e vengono spostate in avanti, causando la preparazione di nuove crisi”.
Parole quanto mai attuali oggi, di fronte alla nuova crisi ciclica in atto ma anche di fronte al manifestarsi di crisi cicliche sempre più ravvicinate tra loro. È infatti di soli sette anni, in questo 2020, il tempo che ci separa dalla fine di un’altra e drammatica, a livello mondiale, crisi ciclica, quella dei “subprime” nata nel 2007 negli USA, allargatasi a livello mondiale e “conclusasi” nel 2013. Affermò a proposito di questa crisi Vladimiro Giacché, all’Università di Bergamo il 23 aprile del 2010: “E così, nel 2007, è arrivata la crisi: la peggiore dal 1929 in avanti. Il capitalismo tronfio e trionfante degli ultimi decenni, con il suo sano egoismo generatore e dispensatore di ricchezza per tutti, con le sue capacità autoregolative superiori ad ogni goffa imposizione di regole dall’esterno, ha così ceduto il passo ad un insieme di meccanismi inceppati, che hanno bisogno di fiumi di denaro degli Stati per tornare malamente a funzionare. Risultato: l’immagine che oggi il capitalismo dà di sé è quella di un sistema in cui ingiustizie intollerabili vanno di pari passo con una drammatica inefficienza nell’allocazione delle risorse… come si può parlare di efficienza del mercato in una situazione in cui viene distrutta ricchezza per decine di migliaia di miliardi di euro, e nel giro di pochi mesi nel mondo i disoccupati diventano 230 milioni? Che efficienza è mai questa? Come è possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse umane e materiali?”.
Forse, dopo la drammatica bolla speculativa USA si è passati ad un più razionale controllo pubblico sul sistema bancario, finanziario, economico privato? Tutt’altro, dopo la “bolla” è ripresa a dilagare ed essere praticata l’ideologia totale del mercato quale condizione primaria dello “sviluppo” e dell’autoregolazione dello stesso sistema capitalistico: per ciò che riguarda l’Unione europea, totalmente immemore della lezione “subprime”, è proprio in questa fase che si sono scatenate le più liberiste politiche di attacco al welfare, ai salari e ai diritti; è proprio in questa fase “post bolla” che si è propagata la demonizzazione del debito pubblico e, specularmente, la mitizzazione del pareggio di bilancio a detrimento delle garanzie sociali e dello stesso equilibrio sociale; è proprio in questa fase, dunque, che nell’Ue si è tornati, senza più “imbarazzi” culturali, all’incensamento del profitto, offrendo un’ulteriore base materiale e ideologica (se mai ve ne fosse stato bisogno) allo spostamento degli immensi profitti capitalistici di questa stessa fase nelle aree della totale non produzione e del totale non investimento e cioè nei paradisi fiscali, nel sistema bancario occulto o nella speculazione finanziaria tanto legittimata quanto improduttiva e contraria allo sviluppo, al lavoro e ad ogni strategia, anche capitalistica, di breve o medio periodo. In questa nuova fase difficile, che ruolo positivo avrebbe potuto svolgere, che ruolo positivo potrebbe svolgere, l’immenso capitale trafugato? L’immensa ricchezza sociale prodotta dai lavoratori e fatta propria dal capitale? Che grande ruolo sociale potrebbe svolgere quell’immensa ricchezza accantonata, spenta, se fosse invece oggi socializzabile e socializzata? È questo è il senso ultimo del socialismo che torna prepotentemente a riproporsi dentro la crisi ciclica.
Ciò che forse possiamo oggi asserire è il fatto che, di fronte alla continua caduta di prestigio del capitalismo e il ripetersi delle sue gravissime crisi, parti anche importanti del senso comune popolare mondiale possano prendere coscienza e riaprire, nell’occidente capitalistico, processi di trasformazione sociale. In Italia, dove la contraddizione tra la necessità oggettiva della trasformazione e la debolezza del soggetto trasformatore è altissima, la lezione della fase dovrebbe essere ancor più assunta dalle forze comuniste, antimperialiste, anticapitaliste. Di fronte al susseguirsi delle crisi il compito primario delle forze più avanzate sarebbe proprio quello di lavorare affinché il “desencanto” spontaneo verso l’ordine capitalista divenga coscienza di massa. Ma per giungere a tale obiettivo occorrerebbe innanzitutto, anche per conquistare una credibilità di massa oggi inesistente, superare l’atomizzazione, la risibile polverizzazione delle forze della trasformazione sociale, ad iniziare da quella dei comunisti. È lo stato presente delle cose, non una spinta moralistica, a chiedere il superamento della diaspora comunista. Che i gruppi dirigenti delle varie ed oggi inessenziali frazioni comuniste sul campo guardino lontano e oltre il proprio orto: è il tempo dell’unità. È tempo che una forza comunista unita e non settaria si offra come cardine per la messa in campo di un più vasto fronte antimperialista e anticapitalista. Le giunture capitalistiche cedono. Unità: se non ora quando?
L’autore è coordinatore Nazionale PCI Lavoro di Massa
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