Dietro la pandemia: la vocazione sociale e la dimensione territoriale della medicina, la formazione e il reclutamento dei medici, il ruolo dell’informazione scientifica, i tagli e la regionalizzazione della sanità pubblica. Ripubblichiamo l’intervista a Chiara Bodini uscita sul sito della rivista “Gli Asini”.
Chiara Bodini è un medico, fa parte del Centro di salute internazionale e interculturale e del People’s Health Movement. Si occupa in particolare di disuguaglianze nel campo della salute. Abbiamo realizzato l’intervista anche in occasione della giornata mondiale della salute indetta dall’OMS per il 7 aprile, data in cui il People’s Health Movement promuove la giornata per la salute pubblica e contro la commercializzazione della salute.
Partiamo dalla situazione attuale. Dalle notizie che abbiamo, sembra emergere una differenza tra quello che è stato fatto in alcune zone del Veneto, dove è stato sperimentato un approccio territoriale basato sull’uso dei tamponi e un rapporto più diretto con la popolazione per analizzare e contenere la diffusione del virus, e l’approccio lombardo, incentrato sulla gestione ospedaliera dell’epidemia. Cosa ne pensi?
C’è un intervento recente di Gianni Tognoni, un medico che per noi rappresenta un punto di riferimento, che evidenzia come la gestione dell’informazione sia in termini di raccolta e produzione dei dati che in termini di diffusione ha moltissimi limiti. Lo dico come premessa perché uno dei punti sottolineati da Tognoni è che in questa situazione ci sono molte più cose che non sappiamo rispetto a quelle che sappiamo, e in questo senso la gestione dell’incertezza è comunque qualcosa che andrebbe fatta in maniera molto più trasparente. Circolano moltissime dichiarazioni su cosa andava fatto e su cosa andrebbe fatto, come se fossero delle verità.
La prima cosa onesta da dire è che ci sono pochissime certezze, pochissime cose che si possono dire su una base di validazione scientifica. Dire questo costituirebbe un principio scientifico e democratico. Le due cose per me sono connesse: bisogna comprendere i limiti e i contorni di quello che si può affermare e tutte le zone di ombra con cui si ha che fare nel momento in cui si prendono delle decisioni. In ambito medico questa cosa viene spesso occultata, ma molto spesso si prendono delle decisioni sulla base di una interpretazione e di una gestione dell’incertezza.
Per quanto riguarda il discorso della gestione territoriale, è corretto inquadrarlo in una lettura più ampia: come funziona il nostro servizio sanitario e come ha funzionato negli ultimi anni, quali erano e quali sono i punti di debolezza. Per noi del Centro di Salute Internazionale questa necessità di organizzare e rinforzare il territorio, ripensare l’organizzazione dei servizi epidemiologici, i servizi di prossimità, l’integrazione socio-sanitaria, sono temi centrali. Tutto questo si è evoluto in maniera embrionale, molto diversa da regione a regione, da contesto a contesto. Il nostro servizio di fatto è sempre stato un servizio centrato sull’ospedale, mentre poche risorse sono distribuite al territorio e pochissime sono dedicate alla prevenzione e alla promozione della salute. Il sistema dei tagli lineari di fatto ha chiuso posti letto, tagliato il personale, e una delle argomentazioni, che in alcuni casi è condivisibile, era “dobbiamo muoverci dall’ospedale al territorio”. Molto spesso però quello che è accaduto è stato tagliare i posti all’ospedale e basta.
In questo scenario arriva la pandemia. Quello che la pandemia rivela è la fragilità che il sistema aveva prima. La Lombardia, in particolare, ha massacrato il suo servizio sanitario e il servizio territoriale. Non stupisce quindi che particolarmente in Lombardia la gestione territoriale abbia fatto acqua da tutte le parti. La gestione territoriale non solo richiede di avere molto personale, ma anche di avere molto coordinamento. Anche il fatto che i medici di medicina generale siano stati abbandonati a gestire la cosa sostanzialmente con il loro buon senso è una manifestazione visibile della frattura tra il servizio sanitario nazionale e i medici di medicina generale.
Voglio però dire che anche in Emilia Romagna stiamo vivendo le stesse problematiche. Sicuramente c’è un servizio sanitario più resiliente, più forte e più radicato, inoltre la latenza nella diffusione della pandemia ha dato il tempo di mettere in atto misure organizzative supplementari, ma anche in questa regione ci sono state gravi insufficienze e una grande mancanza di coordinamento, dalla carenza di tamponi all’assenza di linee guida per i professionisti del territorio, per non parlare delle situazioni nei contesti di marginalità: si è arrivati solo dopo un mese a produrre qualche indicazione per i centri di accoglienza e per i dormitori. Voglio anche ricordare che i concorsi di salute pubblica a Bologna andavano deserti da un po’ di tempo: prima non hanno fatto concorsi per il blocco del turn-over, poi c’è stato il blocco nella formazione, non ci sono abbastanza specialisti, e quando hanno fatto i concorsi per la sanità pubblica è capitato che non si presentasse nessuno. La carenza della risposta territoriale è un tratto che accomuna tutte le regioni.
La mancanza di informazione di cui parli nella prima parte della tua risposta corrisponde al fatto che di fronte a questo virus nuovo la scienza è ancora incapace di dare risposte corrette, oppure è voluta? Oppure c’è una combinazione tra i due aspetti?
Penso che siano vere in parte entrambe. Secondo me l’occultamento principale è l’occultamento della stessa incertezza, quindi la mancata condivisione del fatto che alcune cose si sanno e altre no. Alcune decisioni sono da prendere, e questo implica una responsabilità collettiva. La gestione delle informazioni, invece, è stata fatta in maniera un po’ “dittatoriale”: “questo è così, non si discute, la scienza dice questo”, mentre non è vero che la scienza dica quello. Le stesse misure di isolamento, come dice Tognoni, sono giuste nella misura in cui non abbiamo nessuna migliore alternativa. In questo momento, forse, il meglio che possiamo fare sulla base di pochissime esperienze è questo.
Allora se uno condivide questo passaggio è chiaro che attiva anche dei meccanismi di responsabilizzazione collettiva. C’è una cultura della scienza e dell’informazione scientifica molto povera. Che ci sia un occultamento deliberato non lo so, tendo più a credere che in un sistema farraginoso si producano sistematici occultamenti e in generale una gestione molto precaria e poco efficace. Poi dipende da che intenzioni ci possono essere. I bollettini della protezione civile fanno acqua da un punto di vista scientifico, non danno informazioni sulla comprensione del fenomeno. Non saprei dire se ci sia una strategia per indurre una serie di reazioni nella popolazione.
Accennavi ai concorsi andati a vuoto nel settore della salute pubblica. Riflettendo sulla formazione dei medici, in che modo una formazione incentrata sulla pratica ospedaliera ha influito sul modo in cui è organizzato il Servizio sanitario nazionale?
La formazione è sicuramente l’ambito di riproduzione del sistema ed è incentrata su alcuni cardini spesso impliciti che sono i pilastri ontologici della biomedicina: la neutralità della scienza, il positivismo che rappresenta la scienza come portatrice di verità che si impone su tutto il resto e impone una gerarchia tra il sapere medico e gli altri saperi, il sapere dell’esperienza, il sapere delle persone. All’interno di questi pilastri si inserisce la lettura della malattia come degenerazione biologica, come male da combattere, e a questo si collega il tema del controllo sulla natura e – all’interno di questo – la specializzazione e l’iperspecializzazione come orizzonte entro cui le persone si formano.
In questo percorso di formazione si costruiscono un immaginario e un’identità fortemente orientati a un medico tecnico che opera su circostanze il più possibile controllate e che – per mezzo di un sapere scientifico – sconfigge il male insito nell’organismo. Questa lettura bioriduzionista del discorso sulla salute lascia fuori milioni di cose tra cui anche il fatto che la salute si produce nei contesti di vita, si produce nei modi in cui la società è organizzata. L’intervento tecnico e soprattutto l’intervento ospedaliero sono gli ultimi passaggi in una catena molto più complessa di eventi e di sistemi che si intrecciano. Questa lettura non entra minimamente nella formazione dei medici. Non entra nella formazione dei medici neanche il funzionamento del servizio sanitario, se non marginalmente, per cui le persone si laureano e non sanno in che tipo di organizzazione andranno a lavorare.
La formazione dei medici interagisce pochissimo con il piano dell’organizzazione sanitaria, perché c’è un conflitto molto forte tra università e servizio sanitario nazionale e regionale. Per esempio, in Emilia Romagna ci sono stati degli sviluppi negli ultimi anni verso un rafforzamento del territorio che presuppone un cambiamento anche nella professione, ad esempio con la normativa sulle “case della salute” e sul sistema delle cure intermedie. Lavorare nelle “case della salute” e nelle cure intermedie significa inserire nel proprio approccio i temi della promozione della salute, dell’integrazione socio-sanitaria, del lavoro multidisciplinare, quindi del saper leggere la malattia come un evento in un sistema complesso che è la persona, la persona e la sua famiglia, la persona e le sue reti.
Per agire su questo, soprattutto nel campo delle malattie croniche, l’ospedale è spuntato, non può far niente. L’ospedale tampona, aggiusta, a volte aggrava, ma tutta la partita si fa nella sfera della vita delle persone. Per fare questo serve un altro tipo di medicina. Un servizio sanitario che vuole andare in questa direzione deve anche fare una trasformazione, non solo costruire “case della salute”, ma anche una cultura della salute. Forma strutturale e riforma culturale devono andare insieme. In questo senso avere la possibilità di dialogare con il sistema della formazione dei medici potrebbe essere una risorsa forte, invece il sistema è scollegato. Si fanno delle riforme e parallelamente c’è una filiera produttiva che continua a reintrodurre quello che abbiamo appena descritto.
Il dibattito pubblico sulla scienza medica in questo periodo di emergenza sembra avere molto a che fare con l’approccio positivista di cui hai parlato. C’è un legame?
Sì, certo. Io non mi aspetto che possa entrare ora nel dibattito pubblico il fatto che la medicina sia un prodotto sociale, soggetto a una serie di interessi e di poteri. Però anche solo accettare i limiti della scienza e della medicina sarebbe un passo avanti. Tra l’altro lo spaesamento del personale medico e sanitario, molto comprensibile, penso che si giochi anche su questo asse. Questo momento svela alcune rigidità, alcune incrostazioni del sistema, come l’invincibilità, la rimozione della morte, la rappresentazione della scienza che sconfigge il male. Questioni che di colpo evaporano, e chi si trova in prima linea deve fare i conti con una questione identitaria che adesso si sublima nell’eroismo, ma quando questa fase sarà passata non so cosa potrà succedere in termini di crollo psicologico ed emotivo di chi adesso si sta trovando impreparato, con pochi strumenti operativi e culturali, a gestire quello che sta succedendo.
Ora sappiamo tutti dell’esistenza di una letteratura scientifica internazionale che da anni parlava della possibilità di una pandemia. Ma allora com’è stata possibile una tale impreparazione a livello mondiale? Sappiamo che anche l’Italia aveva un piano per la gestione dell’epidemia che evidentemente è stato del tutto insufficiente rispetto alla situazione.
Probabilmente era un piano sulla carta. Se un documento non è accompagnato da stanziamenti, dispositivi, formazione del personale e aggiornamento non serve a niente. Come avere un piano antincendio ma poi non hai gli estintori o non sai dove sono o non sai riconoscere un incendio e come si sviluppa. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha da tempo un programma che si chiama Pandemic Preparedness. Probabilmente molti paesi hanno stilato il loro piano copiando sostanzialmente quello dell’OMS. Ma bisogna ricordare che l’OMS, progressivamente, dall’inizio degli anni novanta ha perso moltissima influenza. Questo è avvenuto principalmente attraverso la modifica dei meccanismi di finanziamento. Prima era un’agenzia supportata dagli stati attraverso contribuzioni obbligatorie che garantivano un suo funzionamento relativamente indipendente. Relativamente, perché l’assemblea dell’OMS che si riunisce tutti gli anni a Ginevra è solo formalmente un’assemblea multilaterale, infatti alcuni paesi possono più facilmente condizionare il voto di altri.
Alcuni paesi, gli Stati Uniti in primis, hanno spinto per tagliare i finanziamenti e sostituirli in parte con contribuzioni volontarie vincolate. Il finanziamento obbligatorio basato su percentuali del PIL è stato tagliato e i finanziamenti ora sono prevalentemente su progetti specifici che interessano gli stati perché avvantaggiano le proprie aziende farmaceutiche produttrici di vaccini oppure specifici interessi geopolitici in determinate aree del globo. Quindi l’OMS si è trovata di fatto progressivamente depotenziata e in generale viene vista dai paesi ricchi come uno strumento, non certo come una guida.
In generale, la mia impressione è che i paesi ricchi, ovviamente compresi i paesi europei, cerchino in buona parte di limitare l’OMS decurtando finanziamenti, ma anche ostacolando le capacità regolamentative di cui l’organizzazione dispone. Recentemente c’è stato il caso dello zucchero, per il quale l’OMS ha assunto alcune disposizioni di carattere normativo che obbligherebbero gli stati a prendere misure per limitare l’aggiunta di zuccheri liberi nelle bevande e nei cibi confezionati. Rispetto a questo potere di regolamentazione, che è già limitato, c’è sempre dell’ostracismo da parte di molti paesi, fra cui anche l’Italia. Per cui non mi stupisce che le indicazioni dell’OMS non siano state seguite.
Si è parlato molto del modello Corea del Sud in questi giorni. Sulla base, dei tuoi contatti, tramite le reti legate al People’s Health Movement, che punto di vista hai su questo modello?
Rispetto a noi, in Corea, erano molto più preparati perché hanno avuto una epidemia importante nel 2015. In funzione di quell’avvenimento e degli scandali politici causati da quella gestione fallimentare, avevano un piano pronto; quindi la tempestività della risposta è stato un primo elemento forte. Le misure di isolamento, anche se meno autoritarie rispetto alle nostre, ci sono state, semplicemente le persone hanno una interiorizzazione del rispetto dell’istituzione più forte, quindi la gente stava in casa senza dover mettere la polizia nelle strade. Inoltre alcune pratiche igieniche sono molto più diffuse, l’utilizzo della mascherina anche al di fuori delle epidemie è una pratica comune sia per proteggersi che per proteggere gli altri anche da un raffreddore.
È chiaro che in quel contesto la reazione della popolazione a una cosa più familiare, e conseguentemente un’attenzione più alta al tema, hanno portato a un adattamento veloce alla nuova condizione di emergenza. Poi c’è l’altro aspetto che era parte del loro piano ed è stato ulteriormente potenziato ed è l’aspetto più critico, il tracciamento aggressivo dei casi e dei contatti, che è stato fatto tramite sorveglianza degli spostamenti delle persone attraverso i telefonini e ricerca attiva dei contatti con i casi positivi. Cosa che è stata fatta anche in Cina, dove però è stata accompagnata da una militarizzazione e un controllo sociale molto più forte.
Cosa dicono le attiviste e gli attivisti coreani? Dicono sostanzialmente che gli aspetti di controllo sociale ravvicinato attraverso questi strumenti sono molto preoccupanti, molto problematici, quindi loro hanno sollevato alcune istanze perché in alcuni casi le informazioni sono state diffuse, compresi i nomi e cognomi mettendo le persone a rischio e quindi si sono mossi su casi specifici. Poi sostengono che c’è anche un grosso livello di strumentalizzazione politica e di gioco tra governo e opposizione, che su questa cosa fa leva per altre partite interne. Sostanzialmente chi elogia il modello sudcoreano dicendo “hanno fatto i test, non hanno chiuso la popolazione, non hanno imposto niente, si è mossa la sanità pubblica…” usa una storia romanzata. Sicuramente avevano un piano con dei punti di forza. Questi punti di forza sono però molto critici dal punto di vista delle libertà civili.
Il rapporto tra controllo epidemiologico, democrazia e diritti civili è cruciale e sarà un banco di prova quando torneremo alla “normalità”. Bisognerà infatti vedere quali e quanti di questi meccanismi verranno incorporati nella vita quotidiana. Quali riflessioni sta sviluppando a questo proposito il People’s Health Movement?
Per il momento ci sono degli scambi di idee. Ho avuto occasione di parlare recentemente con due studiosi cinesi, prima della pandemia, e mi hanno raccontato il sistema dei bonus sociali attraverso il tracciamento dei pagamenti, dei social network e la sorveglianza facciale. Accumuli punti sociali che ti possono essere decurtati ma tu non ne sei a conoscenza, nessuno sa da che punto si parte, che cosa toglie punti, che cosa aggiunge punti. A un certo punto ti puoi trovare nell’impossibilità di acquistare un biglietto del treno. Se vai sotto un certo punteggio cominci a perdere diritti. Capita di essere invitato ai caffè da agenti di polizia. Questa infrastruttura esisteva ed è stata utilizzata anche per il controllo della pandemia. Ovviamente è uno scenario particolarmente difficile da accettare, molto inquietante.
La pandemia può diventare una scusa per accelerare e spingere nella direzione che la tecnologia militare e l’industria della sicurezza hanno già preconizzato e preparato da tempo. Israele a questo proposito è un esempio molto interessante da studiare, è infatti un nodo di tecnologia militare e di sicurezza avanzatissimo che è di fatto la sua nicchia nel mercato globale. Produce e sperimenta nei territori palestinesi occupati queste tecnologie e sembra che ora le stiano utilizzando per controllare i positivi al virus.
Le contromisure stanno nel mantenere un pensiero critico. È la stessa cosa che ci dicono i coreani: non tanto “è tutto sbagliato, il governo ci vuole controllare”, ma se una misura in un certo momento si può rendere necessaria dobbiamo essere consapevoli dei rischi che la accompagnano.
Il 7 aprile è la giornata mondiale della salute indetta dall’OMS, e per il People’s Health Movement è la giornata per la salute pubblica e contro la commercializzazione della salute.
Da qualche anno alcuni movimenti internazionali ed europei l’hanno ribattezzata “giornata dei popoli per la salute”. Nel 1978, all’assemblea OMS di Alma Ata era stata formulata la promessa di “Salute per tutte e tutti”. Nel 2000, di fronte all’aumento delle disuguaglianze nel campo della salute, la società civile e i movimenti del sud del mondo si organizzano e danno vita alla People Health Assembly, in contrapposizione alla World Health Assembly organizzata periodicamente dall’OMS. Da lì nasce People’s Health Movement, con l’idea di riportare il tema della salute nelle mani delle persone di fronte alla dimostrata inefficacia e inattendibilità dei governi nel tutelare gli interessi della maggior parte delle persone.
In questo senso il People Health Day è un momento di ripresa di parola per ribadire una serie di punti, in particolare che la salute si costruisce all’interno della vita delle persone e che le persone devono controllare i fattori determinanti la salute. Nell’accezione europea, il tema si è focalizzato in particolare sul discorso della difesa della salute pubblica e sul contrasto ai processi di privatizzazione e di smantellamento dei servizi sanitari pubblici.
Quindi il 7 aprile in diversi paesi in Europa e nel mondo vengono organizzate iniziative che dietro lo slogan Health for all mettono in luce sia le criticità che le persone vivono nei territori rispetto ad un diritto alla salute negato o garantito in maniera diseguale sia le azioni positive, i punti di resistenza ma anche di creazione di alternative portati avanti dai movimenti. In Italia la campagna è sostenuta da una rete e si chiama “Dico 32 Salute per tutte e tutti”. C’è ancora molto bisogno di alfabetizzazione su questi temi, su cosa significa salute pubblica, cosa significa sanità pubblica, c’è molto bisogno di arrivare alle persone che magari hanno un’esperienza diretta, di contatto e di utilizzo con il servizio spesso senza una conoscenza e una lettura critica.
Quest’anno – nell’impossibilità di organizzare incontri e manifestazioni – l’invito è di esporre manifesti, striscioni, cartelloni ai balconi e alle finestre, negli atri dei condomini e sulle porte di casa, con dei messaggi molto chiari per dire che un servizio sanitario pubblico deve essere in grado di accogliere i bisogni di tutte le persone, dev’essere a forte partecipazione comunitaria, dev’essere capace di operare sul piano nazionale e solo queste condizioni sono quelle che poi consentono di far fronte anche una migliore e più equa gestione nella salute nell’ordinario e in questa situazione emergenziale della pandemia. Abbiamo cercato di strutturare i messaggi riprendendo quelli tradizionali mettendo in luce come la situazione di pandemia rende molto più visibili i limiti del sistema e i punti in cui bisognerebbe intervenire per renderlo più efficace, ma soprattutto più equo.
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Questi, in sintesi, i 6 punti della campagna per la salute e la sanità pubblica del 7 aprile 2020:
1. Un servizio sanitario per tutte e tutti! Solo garantendo un accesso universale al servizio sanitario è possibile tutelare la salute della collettività e rallentare il contagio.
2. La fuoriuscita del mercato dall’ambito della salute: negli ultimi anni il Servizio Sanitario Nazionale è stato privato di risorse mentre sono cresciute la sanità privata e l’industria sanitaria delle assicurazioni che non proteggono dalle pandemie.
3. No al definanziamento e al taglio del personale. L’emergenza del Covid-19 sta inoltre dimostrando che un sistema sanitario efficace deve essere nazionale. Le forme di regionalismo in sanità stanno risultando caotiche e inefficienti.
4. Un sistema di cure integrato e di prossimità in cui, prima ancora di prevenire la malattie, si promuova la salute, allontanando con ogni strumento e politica il bisogno di cura.
5. La partecipazione come strumento chiave per favorire l’autodeterminazione delle persone e delle comunità e per generare politiche di trasformazione sociale attraverso meccanismi di inclusione, ascolto e azione collettiva diretta.
6. Una politica pubblica mirata alla promozione della salute attraverso le lenti della giustizia sociale, dell’equità e in un’ottica di sostenibilità del pianeta. L’epidemia attuale mostra che tutti siamo a rischio e possiamo rappresentare un rischio per le altre persone, ma anche che non siamo tutti esposti nello stesso modo e non abbiamo le stesse possibilità di mettere in campo azioni personali per proteggerci. Inoltre, il caso del Covid-19 ha reso evidente come la salute umana sia in profonda connessione con quella ambientale e come per tutelarla serva prendersi cura di ciò che la determina nei contesti in cui viviamo.