Dal cuore del capitalismo globale, gli USA, matura una crisi economica di proporzioni inedite che dovrebbe porre fine ad un trentennio di dominio assoluto del neoliberismo.
di Zosimo
L’avvento dell’emergenza COVID-19 negli USA sta mettendo a nudo la realtà e le contraddizioni del sistema politico ed economico. Dopo aver cercato in tutti i modi di ignorare e posticipare l’entrata nella crisi, quando la gravità’ della situazione ha messo la classe politica con le spalle al muro ecco che allora si è messo in moto anche qui il processo che già è stato vissuto in Cina e in Europa, ma naturalmente tutto in salsa americana.
Innanzitutto la direzione politica della crisi ha evidenziato le divisioni e le differenze esistenti nel paese: il Presidente Trump, sia per atteggiamento personale e politico di fondo, sia sotto la pressione di molte potenti lobbies, ha cercato fino all’ultimo di non interrompere del tutto il rituale capitalistico della produzione e del consumo. Non che le sue controparti democratiche si siano comportate in modo differente. Magari in modo meno eclatante e visibile ma anche loro sono rimasti ad osservare finché hanno potuto. Poi alcuni, e tra questi si è distinto il Governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, hanno capito che era il momento di intervenire con risolutezza, per non rimanere del tutto travolti dalla valanga dell’emergenza sanitaria in arrivo. Ed hanno scavalcato Trump che poi nei giorni e settimane successive è stato costretto ad inseguire per non perdere credibilità’ di fronte alla gran parte della popolazione.
Un’emergenza sanitaria che negli USA è esplosa in modo fragoroso nei numeri e nella velocità di diffusione tanto da assicurare nel giro di pochi giorni alla potenza imperialista per eccellenza del capitalismo globalista contemporaneo la triste e non invidiabile leadership mondiale per numero di contagi. Ovviamente questo sul piano puramente statistico. Perché è ormai evidente che la diffusione era in corso da settimane e solo l’assoluta inazione da parte delle autorità, unita alla debolezza strutturale del sistema sanitario, hanno impedito che i numeri venissero alla luce al momento opportuno. E c’è da giurare che i numeri siano ancora sottostimati. Lo stesso Anthony Fauci, l’immunologo di origini italiane che preside il NIAD, istituto federale per le allergie e le malattie infettive, che Trump ha messo a capo della task force speciale per coordinare l’emergenza COVID-19, e che si è già contraddistinto per la franchezza dei suoi interventi, ha recentemente fornito delle proiezioni sul numero di morti che la pandemia potrebbe causare negli USA, facendo atterrire tutti. Secondo tali proiezioni si potrebbe raggiungere la soglia di oltre 200.000 morti.
Le debolezze, anzi l’inadeguatezza strutturale del sistema sanitario. Questo è forse l’elemento centrale su cui soffermarsi in prima battuta. Il meccanismo di funzionamento del sistema, centrato sulle assicurazioni e sulle strutture ospedaliere e ambulatoriali private e orientate alla massimizzazione del profitto, ha impedito anche il minimo monitoraggio in termini di somministrazione di tamponi, che nelle prime settimane dell’emergenza, venivano “offerti” ad un costo variabile tra i 1.000 e i 3.000 dollari. Successivamente, le deficienze strutturali del sistema sono emerse anche su altri aspetti: insufficiente numero di posti letto, insufficiente numero di posti di terapia intensiva, indisponibilità di mascherine, guanti e altro materiale sanitario, oltre che di medicine e farmaci. Mettendo alla luce quella che è la verità fondamentale: questo è un sistema sanitario strutturato principalmente per generare profitti. I posti letto devono essere sempre occupati e garantire la rotazione continua, insomma devono essere “produttivi”. Va da sé quindi che gli altri parametri di natura puramente sanitaria passano in secondo piano, a differenza di quanto accade nei sistemi sanitari pubblici e universali, dove è prassi normale la definizione di un numero adeguato di dotazioni pro-capite con la finalità di fronteggiare epidemie ed emergenze e tarata sulla popolazione complessiva. Questo non può avvenire quando gli ospedali sono aziende private che devono avere i bilanci in positivo ed assicurare il “giusto” ritorno economico agli investitori e ai detentori del capitale d’impresa. Lo stesso dicasi per le compagnie assicurative.
Solo con l’esplodere dell’emergenza, e quindi della sensibilità diffusa a livello generale, Trump è stato costretto a varare un piano straordinario promettendo la copertura pubblica dei costi sanitari dell’emergenza. Bisogna vedere come questo avverrà nella pratica e se l’attenzione sarà soprattutto nel salvaguardare i profitti delle aziende ospedaliere e delle assicurazioni sanitarie, oppure la salute e la vita delle persone. Ma rimane il problema adesso di assicurare una capacità adeguata in termini di strutture, attrezzature, risorse professionali, che il sistema non è strutturalmente in grado di offrire. E da qui la corsa all’emergenza che comporta a sua volta fenomeni speculativi che si cerca di contrastare non si sa quanto efficacemente con multe e sanzioni penali. E la necessità di ricevere molto dall’estero. La Cina, che si era cercato di demonizzare fino a ieri, e che lo stesso Trump più volte ha presentato come la perfida potenza che ha diffuso il virus nel mondo, adesso è assolutamente necessaria per rifornire il sistema di mascherine e ventilatori. Qualche analista o giornalista in cerca di scoop era arrivato addirittura ad insinuare che il virus fosse stato prodotto in laboratorio dai cinesi come arma di guerra batteriologica.
Nel frattempo comunque, e sono aspetti che stanno emergendo con maggiore evidenza negli ultimi giorni, i dati mostrano come l’epidemia stia esercitando i suoi effetti con una marcata differenziazione di classe, con connotati anche razziali, ma negli USA i due aspetti sappiamo essere fortemente intrecciati. Sembra infatti, ad esempio, che la popolazione afro-americana ed anche quella ispanica, siano maggiormente colpite, in proporzione, dagli effetti del virus: circa il 72% delle morti rispetto ad un peso demografico del 30% sul totale della popolazione. Un’evidenza adesso anche statistica ma che non meraviglia affatto. Ovviamente non c’è un fattore genetico che giustifica questa differenza ma sta tutta sul piano sociale ed economico. È evidente che chi gode di un’assistenza sanitaria di minore qualità, vive in condizioni igieniche peggiori e ha un regime di alimentazione di bassa qualità, è maggiormente esposto non soltanto a contrarre il virus ma soprattutto a subirne effetti più gravi sull’organismo.
Ma se questo è il quadro, ancora variabile ed in evoluzione, che ci offre oggi l’emergenza sanitaria provocata dal virus negli USA, proprio in questo momento appare fondamentale spostare la prospettiva di analisi su una crisi economica già iniziata e che potrebbe assumere proporzioni veramente inedite.
Il primo passaggio, di cui questa emergenza ha offerto probabilmente il pretesto per innescarla, è stata l’esplosione della bolla speculativa nei mercati finanziari. Dopo una crescita ininterrotta da 10 anni, da quando i bailout dell’amministrazione Obama avevano iniettato i capitali sufficienti per far ripartire il solito meccanismo di accumulazione e speculazione, già negli ultimi anni gli analisti più addentro alle dinamiche dell’alta finanza si attendevano questo momento. E come la storia del capitalismo insegna la prima conseguenza di questo crollo dei mercati finanziari è che il pesce grosso mangia pesce piccolo. Per dirla in termini un po’ più scientifici è stata avviata la ristrutturazione tipica che produce la ciclicità intrinseca del modo di produzione capitalista, oggi amplificata dalla finanziarizzazione dell’economia. Si è innescato quindi il fenomeno della centralizzazione e concentrazione dei capitali. I detentori di grande liquidità e di grandi patrimoni finanziari (e reali) ne possono approfittare quindi per rastrellare titoli ma anche per acquisire aziende, e non soltanto quelle piccole, che non riescono a reggere l’impatto della crisi. Lo stesso vale nel mercato immobiliare.
Nel frattempo però, sul fronte dell’economia reale, l’impatto sociale della crisi, sanitaria e subito a seguire economica, è già oggi devastante: secondo i dati ufficiali nei primi giorni di aprile le richieste di sussidi di disoccupazione avevano raggiunto la cifra record di 6,6 milioni, un livello mai registrato prima nella storia statunitense, neanche durante la cosiddetta Grande Depressione che seguì al crollo delle borse del 1929.
È ovviamente difficile ancora poter fare previsioni sulla durata e quindi anche sull’impatto finale che avrà questa crisi economica che certo si intreccia con la crisi sanitaria e la combinazione del fattore congiunturale con il fattore strutturale potrebbe solo amplificare le conseguenza. Peraltro già alcune analisi di impronta più scientifica stanno evidenziando come la crisi sanitaria non potrà essere di breve durata ed anche se la fase più acuta dovesse limitarsi a pochi mesi, cosa che al momento è tutta da dimostrare, nella fase successiva si verificheranno comunque delle limitazioni e delle restrizioni che modificheranno le stesse abitudini di vita e di consumo della popolazione con inevitabili effetti sul sistema economico e produttivo. Il dibattito è in corso, ma di certo più lunga sarà la durata della crisi sanitaria più strutturali saranno le conseguenze sul piano economico.
A questo punto viene ovviamente da domandarsi come tutto questo impatterà sul piano sociale e politico?
Un primo effetto prevedibile, a livello sociale, è che il conflitto di classe possa emergere in maniera più eclatante a partire dalla questione del lavoro. Ci sarà infatti da domandarsi chi beneficierà dei miliardi pompati nel sistema a livello governativo? Mireranno a dare ossigeno al grande capitale per ripartire con il ritmo di accumulazione? O verranno anche destinati a tamponare le conseguenze sociali per evitare il rischio di esplosione violenta del conflitto sociale? E in quale misura?
Nel frattempo, sul piano più prettamente politico, ci si domanda quali siano gli effetti a breve termine, cioè rispetto al possibile esito delle elezioni presidenziali negli USA, in programma a novembre di quest’anno, ma anche nel medio e lungo termine. Intanto è notizia recentissima del ritiro ufficiale da parte di Bernie Sanders dalle primarie democratiche. Non è ancora chiaro, tuttavia, nel momento in cui scriviamo, quali siano state le motivazioni più di fondo di questa scelta. Che comunque restringe il campo a questo punto ad una sfida Biden-Trump a novembre, il cui esito rimane molto incerto.
In ogni caso il ritiro dalle primarie non sembra voglia significare da parte di Sanders l’abbandono tout court dell’azione politica a livello nazionale e d’altronde in alcune sue uscite recenti lo stesso Sanders si era chiaramente pronunciato sulla necessità di una gestione della crisi, sanitaria ed economica, indicando una serie di punti che apparivano dei chiari obiettivi programmatici e dichiarando esplicitamente che la manovra straordinaria dei 3 miliardi di dollari varata dall’amministrazione Trump prevedesse misure insufficienti a sostenere il reddito delle classi lavoratrici, con un contributo una tantum di 1.000 dollari, mentre Sanders propone un reddito integrativo universale di 2.000 dollari al mese per tutta la durata della crisi per tutte la famiglie di lavoratori. Anche le altre misure proposte da Sanders vanno in una direzione ancora più radicale di quella che era stata la base programmatica della sua campagna elettorale.
A questo punto infatti uno degli interrogativi più interessanti che ci si pone è in che misura i fermenti di interesse verso il socialismo in una fascia relativamente ampia della popolazione, soprattutto tra le giovani generazioni delle classi dei lavoratori, di cui abbiamo già dato spazio su queste pagine, possano effettivamente trovare nella crisi sanitaria e soprattutto economica motivo ulteriore di sviluppo e mobilitazione.
Viene tuttavia da chiedersi con quale capacità reale di mobilitazione delle masse popolari che verranno colpite più duramente. Certo il potenziale di mobilitazione che era stato innescato in questi ultimi anni sia dalle campagne presidenziali di Bernie Sanders sia dall’emergere della componente dei DSA (Democratici Socialisti d’America), dovrebbe essere in qualche modo un patrimonio solido su cui rilanciare un’azione ancora piu’ convinta ed incisiva. Potrebbero emergere ipotesi che possano richiamare alla mente la politica dei fronti popolari di altre epoche. A patto però che la componente socialdemocratica non prenda poi il sopravvento e non diventi essa stessa strumento di controllo e di moderazione delle masse.
Nel frattempo sono da registrare in questo periodo un susseguirsi di analisi e di chiamate all’azione da parte di alcune forze della sinistra radicale e comunista. La rivista The Jacobin, ad esempio, in una sua recente analisievidenzia come le classi dominanti hanno questa volta le armi “spuntate” per gestire la crisi e salvaguardare i propri interessi e, al tempo stesso, gli equilibri sociali, poiché le leve di politica monetaria con tassi di interesse già vicini al limite negativo sono ridotte al minimo di efficacia e dovranno probabilmente fronteggiare una crisi di proporzioni maggiori del 2008-9.
Il Workers World Party (WWP) si sta attivando con una serie di iniziative tra cui un appuntamento fisso il giovedì con dei webinar di analisi della situazione politica, con il sostegno ad una serie di lotte sindacali che già sono emerse in questo periodo, tra cui quelle dei lavoratori della logistica e della grande distribuzione che rivendicano innanzitutto il diritto alla protezione della loro salute ed infine con la pubblicazione di un vero e proprio manifesto/programma politico articolato in 12 punti che ci sembra un’ottimo esercizio ed un riferimento utile per ragionare in termini di programma minimo di fase.
Naturalmente è troppo presto per capire in che direzione prevalente soffierà il vento della storia sospinto dall’azione dei popoli sia negli USA che a livello mondiale. La speranza è ovviamente che il sentimento di solidarietà umana che l’esperienza della crisi sanitaria sta risvegliando nelle popolazioni di tutto il mondo, unito ad una consapevolezza dei limiti del sistema che lo stesso potente apparato mediatico non riuscirà più a coprire o a metabolizzare, e che questi fattori portino ad una grande mobilitazione progressiva, che superi lo stesso movimento socialista negli USA emerso negli ultimi anni diventi soltanto il primo nucleo.
Non sono però da escludere i rischi opposti: il populismo e la demagogia di destra, oggi già forti in tutto l’occidente, e non soltanto, che possono sfociare in derive autoritarie, peraltro gia’ in atto negli USA e non soltanto a causa di Trump. Un altro rischio reale e possibile, soprattutto negli USA, è il riorientamento del conflitto in senso razzista. Senza sbocchi politici per le classi sociali più deboli, caratterizzate da linee di differenziazione razziale, potrebbero vedere un aumento della violenza individuale e del crimine, con conseguente inasprimento del conflitto razziale e della repressione poliziesca, anche se rimane oggettivamente il dubbio di dove si possa ancora spingere un sistema carcerario che negli ultimi decenni è cresciuto in proporzioni inedite.
Ad ogni modo una conclusione pensiamo che si possa trarre già in questa fase: questa crisi dovrebbe segnare la fine di un trentennio dominato dalla globalizzazione del capitalismo e dal neoliberismo come sua ideologia pervasiva. Qualunque siano gli sbocchi possibili, sia nel breve che nel lungo termine, cresce la consapevolezza che stiamo entrando in una nuova fase della storia e per noi comunisti e marxisti questo significa saper individuare nello scenario fluido causato dalla crisi nuovi spazi per aprire nuove prospettive, in un quadro si spera quanto più possibile di unità di classe sia a livello nazionale che internazionale.
https://www.lacittafutura.it/esteri/il-coronavirus-detonatore-di-una-nuova-crisi-globale
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11/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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