Riporta con accuratezza di dati “Il Sole 24 Ore“, quotidiano del sindacato dei padroni, che la stima fatta dal Fondo Monetario Internazionale in merito alla contrazione del Prodotto Interno Lordo (il famoso PIL) nel campo della zona Euro è al momento del -7,5% rispetto all’anno precedente. Una bella botta per il comparto imprenditoriale che, ovviamente, vede precipitare la produzione e con essa l’accumulazione dei profitti che ne derivano mediante lo sfruttamento della forza-lavoro (quindi dei lavoratori).
Linguaggio vetusto, anacronistico, lo so. I benpensanti, quelli tutti orientati a far assumere come unica condivisa morale il punto di chi detiene la proprietà privata dei mezzi di produzione, guardano con sufficienza le angolazioni differenti da cui si può analizzare tutto questa situazione di crisi economica dovuta alla diffusione pandemica del Coronavirus Covid-19.
Si dirà che non è colpa degli imprenditori se c’è il virus. Ma nemmeno colpa può esserlo dei lavoratori salariati o delle partite IVA. Si dirà, altresì, che (mettiamo la sacra frase tra virgolette per consegnarle un tono da grande citazione) “Il Paese deve ripartire: le aziende devono riaprire, altrimenti staremo tutti peggio.“. Meraviglioso! Che solerzia, che grande esplosione di solidarietà sociale, che slancio filantropico! Vero? Pare proprio che ai padroni interessi il bene comune e che la frenesia con cui chiedono la riapertura quasi totale delle loro imprese voglia dire la ridistribuzione della ricchezza per tutte e per tutti.
Messa così, chi non sarebbe d’accordo. Un folle. E magari un comunista.
I bilanci trimestrali delle aziende, infatti, mostrano segno meno: come il giudizio di uno studente che non ha fatto i compiti e porta a casa una pagella con tante insufficienze. La media, ovviamente, non può essere buona… Colpa della mancata applicazione in questo caso. Colpa del Coronavirus nel caso della macchina produttiva della ricchezza padronale. Attenzione a non commettere l’errore di assumere il linguaggio confindustriale come espressione della verità assoluta e incontestabile, come l’evidenza che non può avere alcuna interpretazione in merito.
Ciò che gli imprenditori continuano a definire come “ricchezza del Paese” è niente altro se non la loro ricchezza che, indubbiamente, incrementa il Prodotto Interno Lordo, ma lo fa solamente perché sono i lavoratori a mandare avanti quelle aziende sotto la direzione del padrone (pardon… dell’imprenditore…!) che si assume tutti i rischi delle sue scelte. Ma davvero se le assume proprio tutte?
Nel corso della storia del capitalismo e della sua evoluzione, da duecento anni a questa parte, si è molto discusso, studiato e letto sul “rischio di impresa” che si consolida e diventa un pericolo per la stabilità di una azienda quando questa non riesce più a far fronte alla domanda, a soddisfare il mercato, a reggere la concorrenza spietata che la circolazione delle merci implica e che è una caratteristica strutturale del capitalismo.
Per evitare di ricorrere allo strozzinaggio delle banche, i padroni hanno sempre richiesto aiuti da parte dello Stato e hanno affrontato i loro rischi con capitali pubblici, mentre dei loro profitti hanno reinvestito solo la quota necessaria al perpertuarsi delle condizioni per la stabilità della produzione: la cura del “capitale costante” (macchinari, strutture, materie prime), stando bene attenti a non investire troppo nella sicurezza sui posti di lavoro, e del “capitale variabile” (la forza lavoro umana), stando bene attenti a non incrementare questo ultimo (ossia aumentare i salari).
In questi decenni la composizione del salario, la sua struttura, è andata deformandosi progressivamente mediante la trasformazione dei contratti da stabili e nazionali a forme di “collaborazione coordinata e continuativa” (ricordate i famigerati “Co.Co.Co.“?) per finire nella assoluta parcellizzazione del lavoro, diviso, sezionato, individualizzato al punto tale da non poter essere più considerata produzione collettiva ma formazione di tante piccole attività individuali prive di qualunque garanzia sindacale degna di sorta.
In questo modo, in sei lunghi lustri, in oltre trent’anni di avanzamento del debito pubblico causato dai rapporti perversi tra l’usura bancaria continentale e il “prestito” pubblico alla grande industria privata, si è trovato anche il modo di accusare la spesa pubblica di essere un peso per l’economia italiana e si è sfacciatamente attribuita ad essa una responsabilità che invece era tutta, completamente ascrivibile alla speculazione imprenditoriale, ai tanti “rischi di impresa” messi in essere e mai risolti se non mediante suppliche – nemmeno poi così lamentose, visto il servilismo liberista della classe dirigente politica che ha governato in questi decenni – agli esecutivi che hanno messo mano prontamente al residuo stato-sociale rimasto, decurtando ancora le risorse verso la scuola pubblica, la sanità pubblica e spacchettando il tutto con un regionalismo di cui oggi si vedono tutte le infauste conseguenze.
Il depotenziamento dell’economia sociale, delle tutele verso le fasce più deboli della popolazione, sono andate di pari passo – ed alcune volte hanno anche superato – la destrutturazione centrale dello Stato e hanno consegnato poteri alle consorterie di potere locale che risulta essere più direttamente in sintonia con una conoscenza del territorio non volta alla sua tutela, quindi anche a quella dei suoi abitanti, ma alla conservazione dei privilegi degli imprenditori locali definiti, ovviamente, sempre “spina dorsale dell’economia del Paese” (o della Regione, a seconda dei casi).
Viviamo nell’illusione che i padroni si facciano degli scrupoli morali in merito, che quindi la loro azione sia volta al benessere comune e che intendano rivestire il loro ruolo non perché “di classe” ma perché “sociale“. E’ un gigantesco abbaglio, vecchio quanto la nascita del capitalismo e il suo sviluppo. Ancora di più amplificato in una moderna società delle comunicazioni dove tutto viene velocemente diffuso, elaborato a dovere per essere confezionato come l’unico realistico modo di leggere il seguire dei fatti, il fluire delle situazioni anche impreviste che si vengono a creare.
Proprio come quella che riguarda la pandemia da Coronavirus. Prima della diffusione del Covid-19 dalla Cina al mondo intero, in Italia la distribuzione della cosiddetta “ricchezza” si muoveva intorno a questi dati: il 10% delle famiglie più ricche del Paese possedeva il 46% della suddetta ricchezza prodotta; il 50% della popolazione più povera e indigente possedeva, invece, il 9,4% della ricchezza prodotta.
Scrive Paolo Ferrero nel suo libro “La truffa del debito pubblico” (DeriveApprodi, 2014, pagg. 70 e seguenti):.
“La concentrazione della ricchezza è spaventosa: l’1% più ricco della popolazione possiede addirittura il 16% del totale della ricchezza privata. […] Qualcuno potrebbe pensare che questo dato però fotografa semplicemente il fatto che i ricchi siano diventati più ricchi, ma che questo – in fondo – sia merito loro: se i ricchi hanno ‘creato’ ricchezza è giusto che ne possano godere, questa è la vulgata che tutti i giorni ci viene propinata dai telegiornali. Magari aggiungendo che i poveri – che non sono stati capaci di arricchirsi – sono semplicemente degli ‘sfigati’ invidiosi. La realtà però è diversa: l’aumento della ricchezza dei ricchi è frutto del furto che hanno commesso a danno dei lavoratori e in generale del popolo. I poveri esistono perché i ricchi sono troppo ricchi e non per altro.”.
Un ragionamento semplice, alla portata di tutti, che traduce molto bene il concetto di “lotta di classe” che Marx ed Engels esprimono fin dalle prime pagine del “Manifesto del Partito comunista” e con cui estrinsecano dalla copertura di un orpello ideologico, frutto sempre e solo delle classi dominanti, la vera dinamica della storia umana: la contrapposizione tra sfruttati (i lavoratori salariati) e gli sfruttatori (gli imprenditori, i padroni).
C’è un termine però che Paolo Ferrero utilizza forse non pensando che possa essere equivocato: ad un certo punto, nel passo sopra citato, definisce “troppo ricchi” i ricchi stessi. Intendiamoci: è assolutamente vero che i poveri, quindi gli sfruttati anche moderni sono nelle condizioni di miseria e faticano a sbarcare il lunario per via della ineguale distribuzione delle ricchezze prodotte (che non appartengono allo Stato, ma che sono per l’appunto “private“; si potrebbe dire che lo sono nel vero senso del termine: private al pubblico, tolte ad esso, appartenenti per l’appunto al privato, a colui che priva altri dei beni comuni…). I ricchi sono “troppo ricchi” perché potrebbero essere “meno ricchi” e quindi il mondo andrebbe meglio… Qui può generarsi un equivoco pericoloso, dal sapore riformista, socialdemocraticheggiante.
Chiaramente Ferrero non intende cadere in questa trappola interpretativa, peraltro cavillosa e degna soltanto di chi segue un pochino le vicende economiche, politiche e sociali (quindi una minoranza della popolazione italiana, purtroppo…); lo si può constatare continuando la lettura del libro in questione e le argomentazioni portate per dimostrare, numeri alla mano, che la spesa pubblica non è una palla al piede per lo sviluppo del “sistema-Italia“, anzi, tutt’altro. Deve apparire tale per consentire al profitto privato di continuare a rappresentare – impropriamente e illusoriamente – il motore della ricchezza nazionale.
Mentre il Coronavirus continua la sua diffusione, seppure mitigata dalle misure di contenimento adottate dal governo e smentite qua e là dal pessimo sovrapporsi istituzionale delle Regioni e dei Comuni, Confindustria e le altre associazioni delle categorie di impresa e commercio spingono per la riapertura già ai primi di maggio dell’intero comparto produttivo. E’ la linea “trumpiana“, quella che, anche davanti a più di 600.000 contagiati (dati OMS ad oggi, 15 aprile 2020) e con quasi 30.000 morti nella grande Repubblica stellata, impone che il “Paese non si fermi e torni a produrre, ad essere concorrenziale“.
Parole identiche tra imprenditori italiani e sovranisti americani. A ciascuno le sue legittime conclusioni, tenendo conto che la ricchezza dei padroni la producono i lavoratori e i primi la spacciano come “ricchezza nazionale“. Se si vuole tutelare veramente la ricchezza prodotta “nel Paese” (non solamente “per il Paese“) si inizi a garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori la sicurezza massima per potersi continuare a far sfruttare, visto che l’anticapitalismo è tutto da ricostruire e che cambiamenti epocali a proposito non li produrrà nemmeno lo sconvolgimento (anti)sociale del virus.
MARCO SFERINI