Io e la grande maggioranza di voi che leggete queste mie bagatelle siamo tra i fortunati: possiamo scegliere se accettare, senza soverchi sacrifici, o rifiutare alcune semplici regole di contenimento sociale. Anche al netto del fatto che noi misantropi siamo felici di questo momento che ci evita i contatti a cui normalmente non potremmo sottrarci, la decisione è piuttosto semplice: accettare quella che chiamiamo quarantena significa avere un’alta probabilità di evitare di contrarre una malattia che, dopo una fase di sofferenza più o meno acuta, ci può uccidere. In sostanza oggi stare in casa è istinto di sopravvivenza, una delle caratteristiche fondamentali di noi animali umani. Perché, nonostante tutto, questa storia del covid-19 dovrebbe servirci per ricordare che la natura è sempre più forte degli uomini. Noi facciamo di tutto per dimenticarlo e questo ci fa commettere danni terribili. Pensiamo di avere la cura per tutto, pensiamo di poter fare tutto e di non doverci mai fermare, pensiamo perfino di essere immortali o almeno sempre giovani, poi arriva una malattia e fa quello che deve fare, colpisce noi animali uccidendo soprattutto i più deboli di noi, operando la selezione naturale di darwiniana memoria. E noi facciamo istintivamente quello che possiamo per difenderci, compreso stare chiusi in casa. Dove per altro abbiamo televisioni, telefoni, computer collegati alla rete, dove siamo connessi con il mondo. Un eremitaggio con ogni sorta di comodità.
Naturalmente so che ci sono molti – la maggioranza, purtroppo – nel nostro paese e soprattutto nel resto del mondo, che non hanno questa fortuna, che non possono scegliere, le cui condizioni economiche e sociali impediscono di stare in quarantena, anche perché non hanno una casa in cui rifugiarsi. Poi ci sono quelli – in questo caso una minoranza – il cui lavoro permette a noi di stare in quarantena e quelli che sono impegnati a salvarci se, nonostante tutte queste precauzioni, ci ammaliamo.
Come ho scritto da qualche altra parte io ho smesso di leggere giornali e di seguire l’informazione televisiva e in rete. Ho fatto qualche eccezione – in genere pentendomi – anche in questo periodo. In televisione guardo solo le repliche di vecchi telefilm – mi considero ormai cittadino onorario di Cabot Cove – e quindi inevitabilmente la pubblicità. Mi ha colpito come ormai praticamente tutti gli spot si siano “convertiti” alla quarantena. I creativi evidentemente sono una di quelle categorie essenziali il cui lavoro non può fermarsi mai.
E quegli spot raccontano un mondo immaginario in cui i nostri figli continuano a frequentare le lezioni perché hanno tutti un computer e perfino degli insegnanti che sanno farne funzionare uno, in cui c’è farina e lievito in abbondanza, in cui siamo tutti truccati e pettinati, anche quando la mattina facciamo colazione, naturalmente con i croissant fatti da noi, in cui i vecchi approfittano del tempo libero per rileggere la Recherche e scoprire la musica contemporanea, in cui facciamo yoga in ampi salotti, visto che in famiglia abbiamo un computer a testa e possiamo farlo senza disturbare il figliolo che è a scuola nella sua cameretta e il papà che lavora in soggiorno. E la nonna che posta videoricette sul suo canale Youtube.
Tutto questo in attesa di poter tornare fuori, al mondo di prima del contagio. Perché tutti, anche quelli della pubblicità che hanno case così belle e spaziose, vogliono andare fuori. E pare che anche molti di noi, noi che possiamo scegliere se stare o meno in casa, abbiamo un bisogno disperato di uscire. Sinceramente vorrei mandare a cagare quelli che si riferiscono a questo periodo con termini come reclusione o simili. Mi dispiace che non abbiate mai provato cosa vuol dire stare davvero in carcere, perché penso lo meritereste.
E poi esattamente cosa cazzo abbiamo da fare quando sarà finita la quarantena? Non diciamo che dobbiamo andare a teatro perché se non c’è uno di quelli che vediamo in televisione non affolliamo le sale o che abbiamo un disperato bisogno di visitare una mostra d’arte. O che dobbiamo andare a messa – curioso come i preti si lamentino in tempi normali che sempre meno persone frequentino le funzioni e adesso in tanti sentano questo impellente bisogno spirituale. Oppure che dobbiamo fare sport, anche se la nostra usuale pratica motoria è quella di guardare le partite seduti sul divano. No, abbiamo bisogno di andare nei centri commerciali, negli outlet, abbiamo bisogno delle apericene e della movida, abbiamo bisogno di bere, abbiamo bisogno di rumore, perché ormai non resistiamo al silenzio. Non abbiamo bisogno di nulla, ma quel nulla dobbiamo farlo rigorosamente fuori. Abbiamo bisogno di comprare cose che non ci servono, in modo da poter buttare le cose che abbiamo adesso.
Visto che portare fuori la spazzatura è lecito, anche in tempo di quarantena.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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