di Francesco Brusa e Gaetano De Monte
Arrivano i primi tentativi di accertare fatti e responsabilità nelle gestione dell’emergenza Covid-19. Dai comitati dei parenti delle vittime alla contestazione dei centri sociali bergamaschi, dalle indagini della magistratura lombarda fino agli operatori sanitari sospesi dal lavoro.
Nella regione Lombardia i contagi da Covid-19 stanno quasi per toccare quota 70.000 (secondo i dati aggiornati al 21 aprile e forniti dal bollettino quotidiano della Protezione Civile). Oltre 12.000 sono i morti finora accertati nella sola regione meneghina. In tutta Italia, invece, sono oltre 183.000 le persone che sono state contagiate dal virus e il gruppo Facebook “Noi denunceremo”, nato su iniziativa di due cittadini di Brusaporto (Bergamo) per raccogliere le testimonianze di chi si è trovato a fare direttamente o indirettamente esperienza degli effetti della pandemia, ha ormai raggiunto quasi 50.000 membri. In media un racconto o una fotografia all’ora, centinaia di commenti e discussioni. È il segno di un’esigenza diffusa di condivisione dei ricordi, di elaborazione del lutto. Ma, allo stesso tempo, è probabilmente anche il sintomo di un mancato ascolto da parte dello stato e delle istituzioni. «Fino a questo momento dai rappresentanti della Regione non c’è stato neanche un minimo accenno di risposta», afferma l’avvocato Roberto Trussardi, che sta seguendo le iniziative legali di alcuni familiari di vittime di Covid-19. «Non so quanto possano essere utili i gruppo che stanno nascendo sui sociale, ma certo è che da parte dei cittadini c’è una grande volontà di capire come è andata, anche se i fatti stanno oramai emergendo con una certa chiarezza dalle varie inchieste giornalistiche, e c’è il forte desiderio di individuare dei responsabili». Dice l’avvocato Trussardi: «Sotto questo punto di vista le istituzioni stanno davvero facendo poco o niente: bene avrebbero fatto a rimuovere il direttore dell’Asst di Bergamo Est Francesco Locati, per esempio» (qui avevamo parlato delle possibili responsabilità dell’azienda sanitaria in questione, ndr). Invece, l’Assessore alla Sanità e al Welfare Giulio Gallera e il presidente della Lombardia Attilio Fontana continuano a ripetere che «non si è sbagliato niente». Ciònonostante, la magistratura ha aperto alcune inchieste per indagare sia sulle migliaia di casi di decessi avvenuti nelle Rsa (abbiamo parlato del contesto qui, ndr) che per la mancata istituzione della zona rossa fra Nembro e Alzano (segnaliamo le inchieste del Tpi sull’argomento, fra cui in particolare questa, ndr). «Speriamo non vengano accorpate assieme, dato che le sfaccettature delle vicende sono molteplici e le eventuali responsabilità possono trovarsi su differenti livelli», prosegue Trussardi.
Negli ultimi giorni, si sommano e si intersecano iniziative autonome dell’autorità giudiziaria e denunce presentate da singoli cittadini o gruppi. L’8 aprile, per esempio, la procura di Bergamo ha aperto un fascicolo per indagare sulle vicende dell’ospedale Pesenti-Fenaroli ad Alzano Lombardo, dove paiono essersi verificati i primi casi di Covid-19 della Val Seriana dai quali si è poi generato il focolaio che ha portato al “disastro” bergamasco. L’ipotesi di reato su cui indagano gli inquirenti è quella di epidemia colposa. Anche se, precisa ancora l’avvocato Trussardi, «si tratta di un’ipotesi di reato che normalmente rende difficoltoso individuare e configurare responsabilità precise nel caso ci siano state negligenze, omissioni». Accuse che fino a questo momento rimangono rivolte dai magistrati verso persone ignote, mentre la richiesta di fare chiarezza arriva spesso da familiari di chi è deceduto. Lo dimostra, per esempio, la testimonianza di alcune persone vicine a colui che è stato definito il “paziente uno” in Val Seriana, per il quale si avanzano però dubbi che si fosse infettato proprio presso l’ospedale di Alzano in cui era stato ricoverato agli inizi di febbraio a causa di un’emorragia interna. Allo stesso modo, il video-appello di una cittadina di Colzate (provincia di Bergamo, in Val Seriana), ripreso da alcune televisioni e testate nazionali, ha in seguito fatto nascere una petizione on-line per chiedere a politici locali e rappresentanti delle istituzioni “chiarezza” rispetto alla mancata creazione della zona rossa fra Alzano e Nembro, così come era invece stata creata, da subito, nel comune di Codogno. «Si tratta il più delle volte di iniziative spontanee e assolutamente giuste e comprensibili dal piano umano», spiega ancora l’avvocato Roberto Trussardi, «ma che al momento stanno producendo poco su quello giudiziario. Per ora si tratta perlopiù di raccolte di testimonianze.
Bisognerà vedere quanto persisterà l’indignazione delle persone, ma anche bisognerà vedere se – come io ovviamente spero – si riuscirà ad andare fino in fondo.
Non dimentichiamoci che assieme al decreto “Cura Italia” partiti sia di maggioranza che di opposizione avevano presentato degli emendamenti per cancellare o mitigare, a seconda dei casi, le responsabilità penali per medici e operatori del settore». Dunque, conclude l’avvocato Trussardi, «è il segnale evidente che c’è la volontà da diverse parti di bloccare l’accertamento giudiziario della verità. Non gli è andata bene con questi emendamenti, ma vedrete che ci riproveranno».
NASCONO I PRIMI COMITATI
Dall’altro latodel disastro lombardo, sulla sponda milanese, lungo la strada “baggina” che collega il centro di Milano al quartiere denominato appunto “Baggio” fino ad arrivare al Pio Albergo Trivulzio, il più grande ospizio per anziani d’Italia, è possibile invece trovare già il primo indagato. Si tratta del direttore della megastruttura Giuseppe Calicchio, nei confronti del quale i magistrati della procura milanese hanno ipotizzato i reati di epidemia e omicidio colposi. L’indagine si basa sulle testimonianze fornite da alcuni dipendenti, che hanno raccontato ai magistrati come già da gennaio furono ricoverate all’interno del Trivulzio persone anziane con polmoniti. Non soltanto, gli operatori sanitari hanno fornito ulteriori dettagli sugli arrivi nella Rsa dei pazienti affetti da Covid- 19 “a bassa intensità” in seguito alle delibere della Regione Lombardia datate 8 e 23 marzo con cui si proponeva, appunto, il trasferimento dei pazienti anziani “non gravi” dagli ospedali per alleggerire il carico dei nosocomi lombardi. Circostanze che l’avvocato Giulio Gallera, assessore al Welfare della Regione, continua a negare a “reti unificate”, dicendo (come riporta “Il fatto quotidiano” del 21 aprile) che «la Regione non ha mandato alcun paziente Covid al Trivulzio» e puntualizzando dunque che che «non ci sarebbero stati trasferimenti verso altre Rsa con reparti già contaminati dal virus». Tutta un’altra storia sembra essere quella raccontata lo scorso 17 aprile ai magistrati milanesi da Alessandro Azzoni, portavoce del Comitato Giustizia e Verità per le vittime del Trivulzio, quando ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Milano, «rappresentando le evidenze raccolte in ordine a gravi inadempienze nella salvaguardia della salute dei degenti durante l’epidemia che appare tuttora in corso all’interno della struttura».
Azzoni ha poi lanciato ieri a nome del Comitato l’allarme: «Il tempo per salvare i nostri cari è scaduto, c’è un silenzio assordante da parte delle istituzioni, a partire da regione Lombardia, responsabile della gestione sanitaria». Si legge in una nota: «dalle informazioni non ufficiali che abbiamo raccolto da inizio marzo sono circa 200 gli anziani deceduti su 1.000 degenti, circa 200 sono attualmente quelli positivi al covid–19, il personale è fortemente sotto organico, su 1.100 operatori sanitari quasi 300 sono a casa in malattia». E ancora:
«Le testimonianze che stiamo raccogliendo da parte dei parenti degli ospiti sono allarmanti. È in gioco la vita di persone fragili e indifese. Chi ha reali intenzioni di salvarle? Rivolgiamo questo appello alla politica e alla dirigenza del Pio Albergo Trivulzio».
Restando sul fronte aperto dai magistrati, poi, oltre a quella della “Baggina”, sono più di una decina le residenze per anziani, solo in Lombardia, sulla cui gestione i pubblici ministeri vogliono vederci chiaro. E, in questo senso, lunedì scorso i carabinieri del Nucleo antisofisticazione e sanità (Nas) di Milano hanno effettuato numerose perquisizioni, raccogliendo documentazione in diverse strutture di Milano, Monza e anche altre città lombarde. Dal lato giudiziario a quello politico, dunque, in Lombardia si sono aperti negli ultimi giorni diversi fronti e diverse iniziative, tese ad accertare colpe e responsabilità, per stabilire verità e giustizia su quanto accaduto.
COLPEVOLI DI AVER LOTTATO
Nel frattempo, sul cancello della sede di Confindustria-Bergamo è stato legato uno striscione che recita: «Covid-19: abbiamo già pagato. Ora tocca a voi! Scaglia e Fontana siete i responsabili, Bergamo non dimentica, il capitalismo uccide». A buona parte dei movimenti sociali che operano a Bergamo e nella bergamasca è ben chiaro chi sia chiamato a rispondere della elevata mortalità di Covid-19 registrata nella provincia lombarda. «La mancata attivazione della zona rossa fra Alzano Lombardo e Nembro non è stata fatta nel chiaro intento di non bloccare l’attività produttiva dell’area», dicono gli attivisti di centri sociali e realtà politiche della zona come Barrio Campagnola, Kascina Autogestita Popolare Angelica “Cocca” Casile, C.S.A. Pacì Paciana. «Oramai è evidente che gli interessi di Confindustria abbiano giocato un ruolo fondamentale nel favorire le condizioni affinché in Val Seriana e a Bergamo si diffondesse il contagio. Stiamo parlando di un contesto in cui si genera una grossa fetta del Pil nazionale (lo avevamo raccontato qui e qui, ndr) e in una zona cui la classe politica è da sempre in qualche modo subalterna alla volontà di Confindustria e dei maggiori gruppi economici come l’azienda Percassi (gruppo attivo nell’immobiliare di cui abbiamo parlato qui, ndr) ». Per gli stessi motivi, dunque, proseguono i militanti dei centri sociali bergamaschi: «la valle è anche una realtà dove è difficile che attecchisca un pensiero davvero critico nei confronti dei meccanismi di potere. Per quanto possiamo osservare noi, si è creato certamente del malcontento verso le condizioni lavorative spesso non sicure oppure ricattatorie. Ma, in generale, è difficile mettere in discussione il sistema produttivo nel suo complesso».
Uno studio compiuto in maniera indipendente dai professori dell’Università di Bergamo Francesco Finazzi e Alessandro Fassò, realizzato aggregando dati parziali, sembra indicare una tendenza molto chiara:
Nei fine settimana la discrepanza relativa alla mobilità generale della popolazione è evidente. Risulta dunque chiaro che da questo punto di vista la partita si gioca soprattutto in relazione al numero di fabbriche e aziende che rimangono attive nelle diverse aree e al modo in cui vengono o meno adottate misure di sicurezza nei luoghi di lavoro. Un articolo del “Manifesto” di un paio di giorni fa denunciava come, di fatto, la produzione in alcune zone d’Italia non si sia mai veramente limitata alle attività essenziali e come la Lombardia risulti essere la regione maggiormente a rischio per quanto riguarda regole di distanziamento e protezione a favore degli operai. Anche su Dinamopress avevamo messo in luce come, già a strettissimo giro dal Decreto “Chiudi Italia”, migliaia e migliaia di aziende avessero chiesto di aprire in deroga alle decisioni del governo. Non stupisce, dunque, che alcune delle campagne di mobilitazione di questo periodo leghino in modo provocatorio e indissolubile la rivendicazione di alcuni diritti per tutti e tutte con le accuse verso chi sembra detenere le redini dell’organizzazione del lavoro, in particolare in zone come quelle della bergamasca: «Confindustria uccide! Reddito per tutt*!», recitano così alcuni adesivi apposti sui carrelli della spesa dai militanti.
Che fossero alcune categorie di lavoratori a essere le più esposta al contagio era evidente dall’inizio, da quando avevamo raccontato, tra i primi, del personale sanitario a rischio senza protezioni adeguate e degli operai delle grandi fabbriche, da Nord a Sud, che vivevano già da prima, quotidianamente, il dramma della salute minacciata sui luoghi di lavoro.
Una situazione di particolare gravità certificata nei giorni scorsi anche dall’Istituto superiore di Sanità, che ha riferito di più di 16000 gli operatori sanitari ammalati di Covid-19, «tra i quali oltre 11.000 sono quelli impegnati nel contesto assistenziale, più di 8.000 i positivi tra quelli impiegati nell’assistenza ospedaliera e nel servizio del 118».
Infine, è stato sempre ribadito dall’Iss che «oltre 400 sono, attualmente, gli operatori infettati nelle case di cura per anziani». Un bollettino del contagio che si aggiorna di ora in ora, come quello disponibile sul portale della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, che ancora ieri ci parlava dell’ennesima vittima fra le fila del personale medico: si chiamava Silvio Marsili ed era un pediatra in pensione. Sono attualmente 143 i medici deceduti. Ha commentato così Filippo Anelli, presidente della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri): «I nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante. Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati, che costituiscono ormai il 10% del totale». Il rumore dei corpi feriti. Feriti dal virus e in alcuni casi dalle parole, dai provvedimenti presi da chi gestisce il potere nel nostro Paese e a volte da un controllo che abbraccia vari livelli, forse mai così forte come ora nel settore della sanità.
Ne sanno qualcosa alcuni operatori sanitari della cooperativa Ampast che lavoravano all’interno della fondazione Don Gnocchi, ai quali la stessa fondazione ha comunicato giusto ieri: «di aver legittimamente esercitato il proprio diritto contrattuale di ‘non gradimento’ nei confronti della Cooperativa Ampast, ritenendo la presenza di alcuni loro lavoratori all’interno della struttura incompatibile e inopportuna dopo che gli stessi, a mezzo stampa e televisione, avevano espresso giudizi gravi e calunniosi, tali da ledere il rapporto fiduciario con la Fondazione». E con la stessa cooperativa che ha comunicato ai suoi lavoratori, inoltre, che: «anche a sua propria tutela, di aver ritenuto di avviare l’iter di contestazione disciplinare, secondo quanto normativamente previsto». Sono stati liquidati così, dunque, con una raccomandata, i dipendenti della cooperativa Ampast che prestavano servizio presso l’Istituto Palazzolo, “protagonisti” di un esposto in cui si chiedeva ai giudici di Milano di indagare, «atteso che i comportamenti omissivi e commissivi appaiono cagionare colposamente un’epidemia». Colpevoli – a quanto pare – di aver reagito, di aver lottato per la giustizia e per l’accertamento di eventuali responsabilità.