Buon 25 aprile! Cominciamo così, con un po’ di entusiasmo e ricordandoci che la parola “liberazione” in Italia si scrive prima di tutto come nome proprio di un evento straordinario che ha percorso la Penisola da Napoli a Roma, da Firenze a Bologna, Genova, Torino, Milano, Venezia, passando per tanti piccoli paesini che hanno ospitato le prime “repubbliche partigiane” e che sono state il preannuncio di un Paese libero dalla persecuzione fascista prima e nazi-fascista dopo, nella fase finale della Seconda guerra mondiale.
Liberazione e aprile sono sinonimi in Italia. Aprile comincia con gli scherzi sotto l’emblema di un pesce e finisce con una Festa nazionale che è il frutto di una Resistenza antifascista clandestina nei primi anni del regime instaurato da Mussolini, divenuta nuova lotta politica e militare subito dopo la caduta del fascismo in quel 25 luglio 1943 quando la monarchia e i gerarchi che avevano subodorato che, nonostante i proclami del duce, non sarebbe finita poi così bene viste le sconfitte tedesche nel Nord Africa e quella che è stata il principio della fine del terrore nazista in Europa: Stalingrado.
Stupisce sempre la capacità di adattamento del popolo italiano, o meglio dire la sua facile adesione a quel “trasformismo” che è storia del Regno d’Italia appena formatosi a fine ‘800 fino alle soglie della Grande guerra. Nelle mode linguistiche moderne e odierne, si direbbe che gli italiani sono facilmente “resilienti“. Il che non significa fregiarsi di qualche nuova forma di virtù che ci rende migliori davanti agli occhi del mondo: semmai vuol dire seguire il corso degli eventi e lasciare che altri lo modellino per noi e che chi ha visto per tempo le storture di una dittatura sia stato vilipeso nel migliore dei casi, picchiato a sangue e ucciso nel peggiore.
Confino ed esilio erano le altre alternative per chi avrebbe voluto esercitare il diritto molto liberale di critica verso il regime fascista e s’è reso conto ben presto che non vi era posto nell’Italia di Mussolini per l’opposizione, per un briciolo di dissenso, per qualunque manifestazione di stigmatizzazione tanto delle parole quanto dei fatti che la dittatura veniva facendo.
La Resistenza è durata tanto quanto il regime totalitario delle camicie nere. La Resistenza è divenuta evidente quando si è potuta manifestare al popolo italiano che in larga parte attendeva la fine del fascismo, soprattutto dopo l’emanazione, nel 1938, delle leggi razziali contro gli italiani di fede ebraica (rivendicate dal fascismo con parole che Mussolini aveva pronunciato fin dal 1919, come titolavano i principali quotidiani nazionali), controfirmate senza alcuna rimostranza da Vittorio Emanuele III. Quelle leggi furono anticipate di pochi mesi dal “Manifesto della Razza“: un preambolo assolutamente degno dell’infamia normativa seguente e conseguente.
Caduto il regime nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 sulla scia dell’Ordine del Giorno proposto dal gerarca Dino Grandi (e firmato, tra gli altri, anche da Galeazzo Ciano, conte, marito di Edda, la primogenita di Mussolini), il teatro del colpo di Stato si spostò da Palazzo Venezia a Villa Savoia dove il Re e Imperatore ebbe un colloquio molto poco cordiale col duce e ne accettò le dimissioni da capo del governo italiano.
Da quel momento, l’Italia scoprì d’un tratto d’essere non più fascista ma nuovamente monarchica e liberale. I ritratti di Badoglio e del Re vennero issati nei cortei, in tutte le piazze dove giacevano a terra i fasci littori scardinati dai palazzi, i busti di Mussolini presi a martellate e le bandiere nere del fascio bruciate. Tanto tempo era occorso all’ex-duce, quando ancora era un membro del Partito Socialista Italiano e direttore del prestigioso quotidiano “Avanti!“, per passare dalle posizioni pacifiste contro la strage di proletari mandati al fronte nella Prima guerra mondiale a quelle cosiddette “interventiste” proclamate sul nuovo quotidiano “Il Popolo d’Italia“. Ventiquattro ore al massimo.
Forse anche meno. Questo è il tempo in cui gli italiani maturano l’opposto delle precedenti convinzioni granitiche che avevano: le relegano nell’angolo di un dimenticatoio preparato a bella posta e dimenticano, non creano una coscienza dalla memoria, ma preferiscono non imparare dai loro errori e li riconvertono, di decennio in decennio, in nuovi macroscopici abbagli che hanno penalizzato e penalizzano tutt’ora le classi sociali più povere, indigenti e sfruttate.
A farsi turlupinare sono soprattutto coloro che sono privi di una adeguata difesa in termini culturali: non è una colpa, ma non è nemmeno una scusa per accampare il diritto di libertà di opinione quando si è letteralmente impossibilitati a formarsene una in base a dati che dovrebbero essere evidenze e non al sentito dire o alla propaganda dei moderni fascisti chiamati bellamente “sovranisti“.
La sfida di una Italia repubblicana, moderna, libera da funzioni antisociali mascherate da princìpi di difesa dei beni nazionali tramite slogan altisonanti (“Prima gli italiani!“), intrisa di preconcetti, pregiudizi, fobie di ogni tipo dettate dall’inconoscenza delle differenze (ma non dalla loro inconoscibilità…), è la sfida che va affrontata in ancor meno tempo della notte trasformista di Mussolini davanti all’inizio della guerra e del passaggio da fascismo a antifascismo dal 25 al 26 luglio 1943. Allora non c’erano i “social network“, la televisione, i mezzi di comunicazione di massa globali che oggi abbiamo sotto gli occhi e per le mani quasi in ogni istante della giornata.
Oggi le opinioni vengono veicolate molto più rapidamente e i danni per la costruzione di un “senso comune“, tanto delle parole quanto dei fatti che accadono, sono quasi inestimabili. L’edificazione di una notizia falsa è la classica “calunnia – venticello” che si sparge immantinentemente da computer a computer, da televisione a televisione e viaggia nella fibra ottica e nell’etere, dai telefonini arriva ai satelliti che la fanno riprecipitare in terra, spargendola come il seme di un onanismo compulsivo originato da una febbre di protagonismo individuale che sovrasta ogni altra valutazione tanto su noi stessi quanto sulla collettività.
Solo il Coronavirus ha avuto la forza di rallentare tutto questo mostruoso processo produttivo di ciarpame mediatico e anti-mentale, anti-culturale, anti-sociale. La pandemia ci ha costretto ad evitare la socialità che si era trasformata in una sequela di azioni ritmiche, tipiche di uno sviluppo economico che punta al massimo dell’alienazione per realizzare sé stesso nella sua pienezza.
Se volete, anche questa è una forma di “liberazione“, ma purtroppo solo momentanea: perché le tante belle promesse di rivedere i comportamenti singoli e sociali distorti dal consumismo, dalla furia sovranista dell’odio sempre e comunque, dei tanti pregiudizi coltivati in decenni di liberismo sfrenato dove il povero diventa per eccellenza il nemico di classe del povero stesso, subiranno ben presto una rimodulazione trasformistica, tipicamente italiana ma anche molto umana (ahinoi…). La “resilienza” che tanto va di moda, andrà ancora di più di moda, camaleonticamente. L’adattamento al dopo-virus sarà facile se significherà “togliere” e non “aggiungere” qualcosa al senso civico imposto dalle norme sanitarie che ora vengono troppo repentinamente allentate.
Togliere, quindi scambiare spazi di libertà per una egocentrica deresponsabilizzazione, per una interessata auto-defiscalizzazione rimessa al suo posto come fenomeno nazionale chiamato “evasione fiscale“, giustificata, dirà pure qualcuno, dalla straordinarietà degli eventi che stiamo vivendo in questo 2020.
La libertà in Italia ancora troppo spesso è fraintesa con compiacimento voluto, cercato: un alibi dietro cui nascondersi lo si trova sempre. Poi, intanto si torna a sventolare il tricolore, a cantare l’Inno del povero Mameli morto a vent’anni per una repubblica unitaria fondata sull’onestà in senso lato del termine, a mostrarsi tutti innamorati di un Paese che viene calpestato nel nome dell’interesse personale che aderisce perfettamente alle esigenze del capitalismo moderno, degli imprenditori e di tutti coloro che sfruttano il lavoro altrui per trarne profitto.
Se ha un senso la parola “Resistenza” oggi, lo ha maggiormente pensando a quante liberazioni ancora devono trovare posto in una società priva di garanzie e tutele per i più deboli: dalla sanità pubblica alla scuola della Repubblica; dal lavoro quanto meno dignitoso del mondo operaio e dei salariati a quello della previdenza.
“La Resistenza vive nella lotta. Lotta di fatti e non di parole, lotta di molti fatta sotto il sole“, diceva una canzone del movimento dei lavoratori di mezzo secolo fa. Una lotta fatta alla luce del sole. Appunto. Come quella che, dopo il 1943, fu possibile fare e fu intrapresa dalla marea partigiana che liberò l’Italia da una oppressione criminale, da una ferocia inaudita, il cui bilancio mortifero è affidato ai numeri della Storia.
Ricostruiamo le basi di una nuova Resistenza? Ci proviamo? Bene. Cominciamo dalla sinistra comunista, di classe che non può non essere anticapitalista, antifascista, libertaria, allargando lo spettro della rivendicazione dei diritti ed estendendolo a tutte e tutti coloro che non sono in grado di agire in tal senso. A questo servono i comunisti oggi, così come sono stati fondamentali nella lotta per la Liberazione.
MARCO SFERINI
https://www.lasinistraquotidiana.it/ce-una-liberazione-per-ogni-resistenza-anche-oggi/