Mario Lombardo
L’annuncio del riuscito lancio in orbita del primo satellite militare iraniano ha provocato questa settimana una prevedibile risposta minacciosa da parte dell’amministrazione Trump, facendo nuovamente aumentare il rischio di un disastroso conflitto armato in Medio Oriente nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Il satellite “Noor” (“Luce”) mercoledì ha sorvolato la terra a un’altitudine di 425 km e, secondo i media della Repubblica Islamica, avrebbe inviato segnali regolarmente ricevuti dai Guardiani della Rivoluzione che hanno condotto lo storico esperimento.
Teheran aveva tentato più volte in passato un’operazione di questo genere, ma mai nessuna si era conclusa con un successo. Le stesse fonti iraniane hanno spiegato che l’operazione ha importanti implicazioni nell’ambito militare e dell’intelligence, mentre il governo USA non ha perso tempo nel far notare che la presenza di satelliti in orbita potrebbe consentire alla Repubblica Islamica di perfezionare la produzione di missili a lungo raggio, secondo Washington potenzialmente anche con testate nucleari.
La questione dello sviluppo dei missili balistici a lungo raggio è con ogni probabilità al centro dell’impegno iraniano. La retorica americana è però fuorviante, sia per quanto riguarda la presunta minaccia di un futuro attacco missilistico contro gli Stati Uniti sia nei riferimenti all’illegalità di simili test in base a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel primo caso, è evidente l’intento difensivo dei piani militari di Teheran. Per averne conferma è sufficiente scorrere le iniziative degli USA e dei loro alleati negli ultimi decenni contro questo paese oppure consultare semplicemente una mappa del Medio Oriente con il posizionamento delle basi militari statunitensi.
In merito all’ONU, Washington continua invece a citare una risoluzione del 2015 a cui anche il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha accennato nella giornata di mercoledì per ricordare il presunto bando internazionale allo sviluppo della tecnologia balistica iraniana. In realtà, come hanno fatto notare svariati esperti di diritto internazionale, il linguaggio della risoluzione non impone alcun divieto alla Repubblica Islamica, ma esprime un semplice “invito” non vincolante. Inoltre, la risoluzione citata era collegata all’implementazione dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), da cui la stessa amministrazione Trump è uscita unilateralmente nel maggio di due anni fa.
Il vero problema americano riguardo i missili balistici iraniani è a ben vedere un altro. Se Teheran dovesse disporre in maniera definitiva di questa tecnologia militare, gli Stati Uniti vedrebbero cioè ridursi ulteriormente gli spazi per un’aggressione, visto che la risposta dell’Iran risulterebbe ancora più devastante di quella che sarebbe oggi in grado di organizzare.
Le ansie di Washington sono d’altra parte evidenti dalla replica di Trump alla notizia del lancio del satellite iraniano. Su Twitter, il presidente ha fatto sapere di avere dato ordine alla Marina militare di “distruggere” qualsiasi imbarcazione della Repubblica Islamica che intenda avvicinarsi minacciosamente alle navi da guerra americane nel Golfo Persico. Questa misura potrebbe essere la conseguenza anche dell’incidente denunciato dal governo USA settimana scorsa, quando una dozzina di mezzi navali dei Guardiani della Rivoluzione si sarebbero accostati pericolosamente a quelli americani che pattugliavano le acque del Golfo.
Il tweet di Trump è sembrato a molti l’ennesima ostentazione di forza priva di sostanza, visto che anche il Pentagono ha assicurato che le direttive militari in merito all’Iran non sono cambiate di una virgola. Una certa preoccupazione deve tuttavia circolare a Washington, a testimonianza che forse la minaccia della Casa Bianca possa essere più concreta di quanto appaia.
La deputata democratica della Virginia, nonché ex ufficiale della Marina militare, Elaine Luria, ha ad esempio criticato il presidente per il suo intervento su Twitter che, senza una chiara e definita gestione delle regole d’ingaggio, rischia di provocare “un’escalation di tensioni non necessaria con l’Iran”, se non “un conflitto aperto”. Questa presa di posizione rivela l’inquietudine di quanti all’interno dell’apparato di potere americano temono le conseguenze di un possibile conflitto con l’Iran, in primo luogo per l’impreparazione americana in un momento di grave crisi a causa dell’epidemia di COVID-19.
Dietro alle minacce della Casa Bianca potrebbe esserci in questa circostanza qualcosa di più serio se si pensa alla situazione del tutto nuova venutasi a creare sul fronte petrolifero. Un altro ex ufficiale della Marina USA, Scott Ritter, diventato commentatore e critico delle politiche dell’imperialismo americano, ha spiegato in un articolo apparso sul sito del network russo RT che il crollo delle quotazioni del greggio di queste settimane potrebbe avere cambiato del tutto il calcolo dell’amministrazione Trump.
Fino a poco tempo fa, a rendere improbabile una guerra con l’Iran era soprattutto il timore di un rialzo incontrollato del prezzo del petrolio che sarebbe seguito alla quasi certa chiusura, decisa da Teheran, dello stretto di Hormuz, da cui transita buona parte del greggio mediorientale. Oggi, al contrario, l’implosione del mercato petrolifero, seguito al quasi azzeramento della domanda internazionale a causa del lockdown economico, ha portato le quotazioni a livelli bassissimi e, addirittura, temporaneamente in territorio negativo per quanto riguarda il riferimento del barile americano (WTI).
Questa nuova realtà minaccia di mandare in fallimento l’industria estrattiva americana, fatta di moltissime compagnie fortemente indebitate e quindi bisognose di prezzi relativamente elevati. Uno shock internazionale in grado di arrestare la produzione di petrolio in Medio Oriente darebbe perciò una spinta verso l’alto alle quotazioni e, di conseguenza, una boccata d’ossigeno ai produttori negli Stati Uniti. In sostanza, spiega Ritter su RT, Trump potrebbe essere disposto a scatenare una guerra contro l’Iran per salvare l’industria petrolifera americana, il cui tracollo rischierebbe oltretutto di trascinare con sé l’intera economia USA.
Su questi possibili scenari di guerra è evidente che agiscano anche altri fattori in grado di agire da deterrente a un’aggressione americana contro la Repubblica Islamica, dalle resistenze interne allo stesso governo di Washington ai rischi di una guerra che risulterebbe lunga, dispendiosa e strategicamente tutt’altro che vantaggiosa.
È evidente però che i piani di guerra contro l’Iran siano costantemente studiati dalla Casa Bianca ed è significativo che una nuova esplosione del militarismo USA sia all’ordine del giorno in questo periodo. La crisi sociale, politica ed economica prodotta dal Coronavirus ha d’altra parte inasprito le contraddizioni che attraversano la classe dirigente americana e moltiplicato gli sforzi per dirottarne gli effetti verso l’esterno.
Non è un caso, infatti, che la devastazione in corso sul fronte domestico abbia fatto ben poco per allentare le pressioni sui nemici di Washington, come conferma, oltre all’escalation nei confronti dell’Iran, la campagna anti-cinese per attribuire a Pechino la responsabilità della pandemia, ma anche le recentissime provocazioni delle navi da guerra americane dispiegate nel Mar Cinese Meridionale o l’intensificarsi delle minacce contro il legittimo governo venezuelano del presidente Maduro.
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