Reti di mutualismo e solidarietà nei quartieri popolari, lavoratori e lavoratrici che animano scioperi, il personale degli ospedali che denuncia la gestione disastrosa dell’emergenza. La linea del conflitto passa dalla presa di parola di queste soggettività, ancora escluse da ogni decisione sulla fase-2. Il nostro editoriale
Tra il «chiudere l’Italia» del 21 febbraio e il «riaprire la Lombardia» del 16 aprile Matteo Salvini si è distinto tra i politici nostrani portando sul piano della farsa la tragedia dei vari #MilanoNonSiFerma o #BergamoNonSiFerma targati Partito Democratico. Il ridicolo non sta nella ricerca di visibilità di un personaggio in cerca d’autore, che si è fortunatamente precluso la possibilità di avere i pieni poteri con qualche cocktail di troppo al Papeete Beach, passando così il testimone della gestione del più radicale stato di emergenza dell’Italia repubblicana a un Giuseppi che solo due anni fa era sconosciuto ai più. La Lega ha responsabilità profonde nella direzione della curva epidemica, dal momento che amministra l’epicentro del disastro e che del “modello lombardo” ha definito tratti e sfumature durante gli ultimi 20 anni.
Ridicola è l’oscillazione tra l’espressione della voce dei padroni e l’inseguimento spuntato del sentire comune. Così accade che con oltre 25 mila morti di cui la metà nel cuore produttivo del paese, cioè la regione in cui si registrano il 10% dei morti da Covid-19 sul totale globale dei decessi, il dibattito sulla “riapertura” viene ancora guidato dalle esigenze economiche di Confindustria Lombardia – ora divenuta nazionale con la nuova presidenza Bonomi. In sintonia con le giravolte salviniane, infatti, ci sono quelle del governatore leghista Attilio Fontana che, tra una conferenza stampa in mascherina e l’invio dei malati di Covid-19 nelle Rsa, è stato capace di rivendicare tutte le scelte compiute, affermare che «rifarebbe tutto» e continuare a spingere per riaprire ciò che è chiuso.
La polarizzazione del dibattito tra “blocco totale sì” e “blocco totale no” e quella tra la scienza buona e responsabile capace di indicare la retta via e il Leviatano cattivo che vuole imporre eccezione e controllo assoluto hanno cancellato momentaneamente dall’arena pubblica l’interrogativo intorno a quali chiusure fossero necessarie e quali soltanto accessorie. La risposta è arrivata come sempre dalla materialità delle lotte: dalle rivolte in carcere, dagli scioperi selvaggi nei comparti di produzione e distribuzione delle merci, dall’azione delle navi umanitarie che hanno ripreso il mare, dalle richieste generalizzate di reddito e dall’organizzazione di reti solidali e di mutualismo.
I cortocircuiti che queste forme di mobilitazione e rivolta hanno fatto emergere non si sono collocati in nessun modo nell’alternativa binaria tra controllo e libertà. Le esplosioni di conflitto più significative non si sono date nella disobbedienza alle misure di contenimento (dove spiccano cattolici integralisti nostrani e trumpiani americani armati). La Covid-19 non è un’influenza e in assenza di una terapia e di un vaccino il tentativo di contrastare l’epidemia non poteva che passare per delle forme di distanziamento e per la messa in discussione dei nostri comportamenti e stili di vita. Da quelli più consumistici che producevano valorizzazione economica, a quelli relazionali che danno un senso alle nostre esistenze, a quelli politici e conflittuali che provano a trasformare presente e futuro.
Invece le principali linee di frizione e di scontro si sono palesate lungo il confine che stabilisce quali vite sono da proteggere, attraverso quali strategie e strumenti, quali interessi sono legittimi.
I WANT YOU
Nella battaglia per la definizione di questo confine abbiamo visto trasmessi in prima serata i video dei droni che inseguono runner solitari o le fotografie agenti delle forze dell’ordine che danno la caccia a bagnanti isolati. Molta meno risonanza hanno avuto le immagini dei bus strapieni di persone costrette ad andare a lavorare alle 5 di mattina nelle principali metropoli del paese. O l’esercito di rider sulla banchina della metro di Milano. O le linee di produzione delle inutili fabbriche di armi che hanno continuato a produrre morte anche nel mezzo dell’epidemia.
La criminalizzazione dei comportamenti individuali è servita a proteggere gli interessi della grande e media industria e a coprire dinamiche strutturali che hanno reso l’espansione dell’epidemia ancora più virulenta (dai tagli trentennali a sistema sanitario e ricerca universitaria, all’inquinamento sempre più asfissiante).
Eppure questa dinamica non è stata solo calata dall’alto, è stata anche alimentata da una componente sociale, ormai ben radicata nel tessuto del paese e fortificatasi nella fase salviniana, che in questi giorni di quarantena ha fatto abbondantemente uso dello strumento della delazione nei confronti dei comportamenti ritenuti non conformi. Non possiamo escludere che nella cosiddetta “fase 2” questa specie di polizia informale e diffusa verrà nuovamente solleciata a partecipare al grande gioco del controllo sociale. «Sono tanti, arroganti coi più deboli / Zerbini coi potenti, sono replicanti», cantava Frankie Hi Nrg. Sono coloro che hanno attraversato attivamente e alimentato il razzismo leghista, il giustizialismo grillino e la meritocrazia piddina. È l’Italia dei gruppi Telegram alla ricerca costante di un capro espiatorio: ieri i negri, i fannulloni e le donne, oggi anche i runner e chi non può rimanere in casa. Sono corsi alle finestre a cantare l’inno di Mameli ed esporre il tricolore, a puntare il dito contro presunti untori, a chiamare le forze dell’ordine ogni volta che era possibile. Non hanno mai puntato il dito, invece, per difendere sanità, scuola, università, ricerca o ambiente. Parlano tra loro dalle finestre e in catene Whatsapp ma non hanno mai speso una parola contro chi ha costretto migliaia di persone ad andare a lavorare in mezzo all’epidemia e ora vuole riaprire il principale focolaio del paese.
È anche grazie a loro, oltre che al governo ovviamente, se oggi da un’autocertificazione che non convince i vigili può venire fuori una multa da centinaia di euro per un precario o una disoccupata, mentre non esiste sanzione per quell’imprenditore che dica il falso inviando un’autocertificazione al prefetto con lo scopo di tenere aperta la sua attività anche se non rientra nelle filiere essenziali.
Dentro questa dinamica di controllo diffuso e consenso verso le funzioni di polizia si sono aperti spazi di sempre maggiore arbitrarietà per le forze dell’ordine. Gli episodi negli ultimi giorni si sono moltiplicati. La coppia picchiata a Sassari, i genitori del bambino affetto da leucemia multati a Livorno (ammenda cancellata solo dopo la figuraccia mediatica), il rider sanzionato mentre lavora a Milano sono solo la punta di un iceberg di abusi diretti sempre e solo verso individui isolati da parte di agenti che si sentono sempre più arbitri del bene e del male. Non che stupisca più di tanto, anzi: avrebbe sorpreso il contrario.
FASE 2
Al momento il percorso di ingresso nella Fase 2 è oggetto del tira e molla tra le pressioni dei grandi imprenditori e la paura matta dei politici che l’epidemia riesploda ma questa volta con enormi costi elettorali. Così si affida la risoluzione dell’attuale antagonismo tra interessi economici e salute pubblica a un’app che dovrebbe garantire tracciabilità e sicurezza. Ovviamente, secondo le autorità, nel rispetto rigoroso della privacy. Ma le lotte di queste settimane già ci insegnano che non saranno app e mascherine a proteggere la popolazione.
Nella Fase 2 la sicurezza dei lavoratori delle filiere essenziali deve essere garantita, oltre che dai dispositivi di protezione individuale, dalla riduzione dell’orario di lavoro e da aumenti salariali a fronte del maggior rischio. I lavoratori devono poter decidere condizioni e modalità della loro attività così come sta facendo il personale sanitario lombardo chiedendo una territorializzazione del servizio contro la centralizzazione negli ospedali rivelatasi disastrosa.
Fase 2 ci può essere se insieme all’aumento della spesa pubblica, in primis per sanità e istruzione, saranno democratizzati gli istituti del welfare. Se i padroni invece di fare pubblicamente beneficenza per pulirsi la faccia pagheranno le tasse, con l’introduzione di una patrimoniale e la cancellazione dei paradisi fiscali. Se con quei soldi sarà finanziato un reddito di base universale e incondizionato. Se la protezione della nostra salute non passerà solo per le misure contro la Covid-19 ma anche per quelle contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del cibo, attraverso una radicale riconversione ecologica del sistema produttivo. Se la difesa della società dal virus si realizzerà anche attraverso lo svuotamento delle prigioni e la regolarizzazione di tutti i cittadini migranti presenti sul territorio.
Nelle settimane a venire i movimenti dovranno ripensare le forme del conflitto sociale consapevoli che le norme di distanziamento fisico che si manterranno – non sappiamo fino a quando – verranno con ogni probabilità strumentalizzate per impedire qualsiasi forma di protesta e scongiurare possibili lotte che la recessione economica che caratterizzerà questa lunga transizione potrebbe innescare. Con una circolare ai prefetti datata 10 aprile, la ministra dell’Interno ha già fatto capire dove vuole convogliare gli sforzi delle forze dell’ordine, quando queste smetteranno di avere come proprio target quotidiano chi fa jogging o porta a respirare i propri bambini chiusi in casa da settimane. Il Viminale teme che la crisi economica produca esplosioni di piazza vere.
Di fronte a questa situazione, nuovi modi di attraversare conflittualmente le strade e le piazze delle nostre città dovranno essere sperimentati. Eppure, la linea del conflitto non potrà seguire semplicemente il generico motto della “rottura dei divieti”, slogan dietro cui il desiderio di libertà rischia pericolosamente di confondersi con l’indifferenza padronale per la vita e con gli interessi di chi preferisce che sia il darwinismo del mercato a selezionare chi deve essere salvato e chi abbandonato all’esclusione e alla morte. Le immagini che arrivano dagli Stati Uniti, dove il personale degli ospedali blocca la marcia dei sostenitori trumpiani che protestano contro il lockdown, mostrano una linea dello scontro futuro assai più complessa di quella che contrappone ingenuamente protezione, controllo e libertà.
Gli appelli sperticati ai militanti di sinistra affinché riscoprano nell’oltrepassamento dei divieti la loro identità antagonista, dimenticano in un sol colpo quello che già si è mosso nella società. La linea del conflitto dovrà proprio ripartire da quella mobilitazione disseminata che ha visto migliaia di persone e organizzazioni di base costruire reti di mutualismo e solidarietà nei quartieri popolari, lavoratori e lavoratrici animare scioperi e lotte contro il loro massacro sulle linee di produzione, il personale degli ospedali denunciare la disastrosa gestione politica dell’emergenza sanitaria.
È questo insieme di soggettività che ha animato concretamente lo scontro tra la società e il governo nel pieno del picco epidemico, a essere oggi escluso da qualsiasi presa di parola su chi decide sulla lunga transizione che ci aspetta. Su chi stabilisce cosa vale e cosa no, su quali forme della socialità devono essere accettate e quale confine debba essere imposto al controllo statale, quali tutele per la protezione della vita e quali garanzie per il dissenso devono essere inaggirabili. È questa moltitudine senza nome che deve organizzarsi contro la militarizzazione della vita e contro l’impulso alla produzione a tutti i costi.
Non c’è nessuna normalità a cui tornare, ma un presente da riscrivere da capo.