di Gilberto Trombetta
Nel primo trimestre di quest’anno hanno chiuso circa 30.000 imprese, 9.000 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si tratta del saldo peggiore degli ultimi 7 anni.
Solo in Lombardia, nei prossimi mesi, potrebbero fallirne più di 1.000, quasi il 10% del totale.
Anche la Federazione Italiana Pubblici Esercizi lancia un disperato grido di dolore:
«I nostri dipendenti stanno ancora aspettando la cassa integrazione, il decreto liquidità stenta a decollare, oggi apprendiamo che potremo riaprire dal primo di giugno. Significano altri 9 miliardi di danni che portano le perdite stimate 34 miliardi in totale dall’inizio della crisi.
Moriranno oltre 50.000 imprese e 350.000 persone perderanno il loro posto di lavoro».
Questo mentre le misure del Governo latitano e non sono neanche lontanamente sufficienti ad affrontare la più grande crisi della storia del Paese.
Riponendo tutte le sue speranze, quindi le nostre, in una cosa di cui è stata “riconosciuta l’urgenza”, il recovery fund.
Peccato che nella migliore delle ipotesi, partirà tra un anno. Non solo, si tratterà di altri prestiti, basati quindi su maggiori risorse messe da parte dei Paesi membri, quindi di minore capacità di spesa autonoma interna. E, come se non bastasse, comporterà, questo inesistente fondo, il controllo sulla spesa da parte degli strozzini unionisti.
L’unica strada sarebbe quella di violare unilateralmente i trattati (nazionalizzazione dei settori strategici a partire da quello bancario, emissione di una valuta parallela tra le decine possibili) per poi – una volta aver tamponato gli effetti della crisi – uscire dall’Unione Europea.