Michele Paris
Durante l’emergenza Coronavirus negli Stati Uniti, l’ormai sicuro candidato alla Casa Bianca del Partito Democratico è rimasto in gran parte ai margini del dibattito politico, limitandosi per lo più a qualche intervento pre-registrato per criticare la gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump. In questi giorni, Joe Biden è tornato però al centro dell’attenzione in seguito al riemergere di vecchie accuse di molestie sessuali che, attendibilità a parte, continuano a essere deliberatamente minimizzate, per non dire insabbiate, dai leader del suo partito e dai media filo-democratici.
La grana più fastidiosa per Biden riguarda un’ex addetta del suo staff, Tara Reade, che sostiene di essere stata molestata nel 1993 dall’allora senatore del Delaware. La donna non sembra voler desistere malgrado il clima di ostilità e lo scorso mese di marzo aveva presentato alla polizia di Washington una denuncia contro l’ex vice-presidente. D’altra parte, la questione circola da tempo soprattutto sui social media e su network e siti web vicini a Trump e al Partito Repubblicano.
La stampa meglio disposta verso i democratici si è invece riscoperta improvvisamente garantista, mettendo da parte, almeno per il caso Biden, la feroce caccia alle streghe degli ultimi anni, collegata al movimento “#MeToo”, diretta contro chiunque, tra politici e celebrità, sia stato oggetto di vaghe accuse a sfondo sessuale. Pseudo-indagini giornalistiche, editoriali spietati e sommari processi mediatici, tipici di questa campagna, continuano insomma a rimanere fuori dalla vicenda che sta riguardando l’ex vice di Obama.
Le ragioni di questa prudenza sono ovviamente tutte di natura politica. La candidatura di Biden è stata infatti letteralmente resuscitata in extremis dall’establishment del Partito Democratico e dagli stessi media “liberal” per affondare quella di Bernie Sanders, pericolosamente sul punto di mobilitare decine di milioni di elettori sulla base di un’agenda almeno in apparenza “democratico-socialista”.
Le accuse contro Biden sono state così al massimo discusse sulla stampa solo per essere screditate, con un’ostentazione di scrupoli democratici nemmeno lontanamente considerati nei casi di Kevin Spacey o Harvey Weinstein, per non parlare dello show orchestrato dal Partito Democratico nel tentativo fallito di far naufragare la nomina alla Corte Suprema del giudice di estrema destra, Brett Kavanaugh, nel settembre del 2018.
In questo caso, gli argomenti di Biden sono sembrati ampiamente sufficienti per scagionarlo da ogni accusa o, quanto meno, per affermare il principio della presunzione di innocenza. La difesa dell’ex vice-presidente ha avuto però risvolti talvolta imbarazzanti, come la recente apparizione di un filmato tratto dalla trasmissione del 1993 “Larry King Live” della CNN. In un episodio del mese di agosto di quell’anno era intervenuta telefonicamente una donna, identificata dall’accusatrice di Biden, Tara Reade, come sua madre che denunciava la situazione della figlia, costretta a lasciare l’impiego nello staff di un noto senatore a causa di “problemi” non meglio specificati.
Se nella telefonata in diretta la donna non parlava di molestie né identificava il nome del politico in questione, è apparso subito chiaro il riferimento a Biden. La clip era stata pubblicata dal sito The Intercept, mentre la CNN l’aveva prontamente rimossa dal proprio archivio digitale. In seguito, il network è stato costretto a pubblicare un resoconto della vicenda, ma l’imbarazzo è aumentato quando è emerso che, addirittura, agli episodi successivi alla trasmissione incriminata condotta da Larry King era stata data una nuova numerazione per cercare di occultarne la rimozione.
L’episodio conferma come sia in atto un’operazione coordinata per proteggere la candidatura di Joe Biden. Questa operazione risulta necessaria sia per i probabili scheletri nell’armadio dell’ex vice-presidente sia, soprattutto, per evitare che l’affiorare di questi ultimi vada ad aggravare la posizione di un candidato già ultra-screditato e correttamente identificato come la personificazione stessa della corruzione dell’establishment di Washington e del servilismo della politica verso i poteri forti.
Con la candidatura di Biden sempre in bilico, anche per il possibile deterioramento del suo stato di salute mentale, i vertici del Partito Democratico stanno cercando di fare quadrato attorno all’ex vice-presidente. In questi giorni sono stati infatti numerosi gli annunci pubblici di “endorsement” da parte di personalità democratiche di rilievo, inaugurati da quello dell’ex presidente Obama. Lunedì è toccato ad esempio alla “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, dichiarare ufficialmente il proprio sostegno per Biden, attraverso un intervento video infarcito di assurdità, a cominciare dalla caratterizzazione del candidato democratico come di un leader in grado di dare risposta alle “speranze” del paese. Martedì, invece, la stampa USA ha anticipato il probabile “endorsement” anche di Hillary Clinton, che apparirà assieme a Biden in un comizio “virtuale”.
Se le prese di posizione di Nancy Pelosi e degli altri pezzi grossi del partito sono più che prevedibili, apparentemente inspiegabile appare invece il relativo entusiasmo per la nomination di Biden della sinistra democratica e dei sostenitori di Sanders, nonché dello stesso senatore del Vermont. Tutti hanno insistito su quella che a loro dire sarebbe la possibilità concreta di influenzare le politiche della potenziale prossima amministrazione al fine di implementare iniziative di “sinistra”.
Gli ambienti vicini a Sanders si sono così dimenticati in fretta dello scontro politico che aveva segnato la prima fase delle primarie democratiche, quando a confrontarsi erano la prospettiva di cambiamento in senso progressista e la deriva neo-liberista del partito, rappresentata proprio da Joe Biden. Che l’agenda promossa da Sanders possa trovare spazio in una Casa Bianca occupata da quest’ultimo è una remotissima illusione, ma deve essere alimentata per cercare di evitare che gli elettori di Sanders disertino le urne in massa a novembre, consegnando un secondo mandato a Trump e ai repubblicani.
Se mai ci fossero stati dubbi sulla natura di un’amministrazione Biden, qualche giorno fa una rivelazione pubblicata dalla stampa americana ha contribuito a fugarli. Bloomberg News ha scritto che l’ex segretario al Tesoro, Larry Summers, fa parte della cerchia dei consiglieri di Biden in ambito economico. La notizia potrebbe avere potenzialmente un impatto devastante sulla campagna dell’ex vice-presidente e, infatti, quest’ultimo e il suo entourage si sono affrettati a ridimensionarne la portata.
Summers è uno degli artefici delle “riforme” economiche e finanziarie che hanno caratterizzato gli anni Novanta del secolo scorso. Dall’interno dell’amministrazione Clinton, l’ex docente di Harvard è stato il motore della finanziarizzazione dell’economia americana e dello smantellamento di ciò che restava delle regolamentazioni risalenti all’epoca del New Deal rooseveltiano. Il suo impegno, assieme a quello del presidente democratico e del suo mentore, Robert Rubin, ha avuto un ruolo determinante nel creare le condizioni del tracollo finanziario del 2008.
Nonostante il discredito e le pesantissime responsabilità, Summers aveva trovato un impiego anche nella neonata amministrazione Obama a inizio 2009, questa volta a capo del Consiglio Nazionale per l’Economia della Casa Bianca. In questo incarico e dopo avere incassato milioni di dollari nel settore privato, Summers aveva coordinato il colossale piano di salvataggio di Wall Street, assicurando che nessuna risorsa significativa andasse a beneficio degli americani finiti sul lastrico.
Larry Summers è stato in sostanza capace di navigare le acque della politica democratica negli ultimi trent’anni. Il suo ruolo nel creare disuguaglianze sociali e di reddito quasi inconcepibili è difficile da sopravvalutare e, tuttavia, la campagna di Joe Biden ha deciso di reclutarlo in vista delle elezioni di novembre, anche se comprensibilmente senza dare troppo risalto alla notizia.
La sola presenza di Summers tra i più stretti collaboratori di Biden chiarisce perciò a sufficienza quali saranno i principi ispiratori del possibile futuro presidente in ambito economico, con buona pace di quanti continuano a propagandare l’illusione di poter esercitare pressioni da sinistra e favorire un qualche reale cambiamento in senso progressista dall’interno del Partito Democratico americano.
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