di Gilbert Achcar / New Politics – TRANSCEND MEDIA SERVICE
24 aprile 2020 – Per la seconda volta dall’inizio del secolo, governi in America del Nord e in Europa stanno intervenendo massicciamente con fondi pubblici e in concomitanza con banche centrali per salvare interi settori dell’economia e prevenire un collasso economico generale. Le operazioni di salvataggio in corso rese necessarie dalla pandemia di Covid-19 hanno già raggiunto una dimensione molto maggiore di quelle impiegate contro la crisi finanziaria del 2007-08. Queste operazioni si scontrano con i principi generali del neoliberismo in quanto costituiscono un grande intervento disciplinare dello stato nel mettere un freno al mercato, mentre la liberalizzazione e la “sopravvivenza dei più adatti” nel mercato sono centrali nell’ideologia neoliberista.
Si scontrano anche con l’austerità fiscale, ma quest’ultimo precetto non è comune a tutti i governi neoliberisti. E’ un principio sacrosanto in Europa, in cui il neoliberismo neoclassico britannico si è fuso con l’ordoliberismo tedesco. Ma non fa parte dell’unanimità neoliberista negli Stati Uniti, dove paradossalmente i Democratici che erano soliti essere accusati dai Repubblicani di keynesiano “tassa e spendi” sono diventati campioni della disciplina di bilancio nell’era neoliberista, mentre i secondi hanno sviluppato dopo Ronald Reagan una politica originale di “tagli alle imposte (per i ricchi) e aumento della spesa (militare)” che ha prodotto grandi deficit federali.
Rimane tuttavia il fatto che governi neoliberisti occidentali hanno violato due volte le loro stesse dottrine – la seconda volta su scala molto più vasta – in occasione di due successive crisi di una dimensione che ha autorizzato l’etichetta attribuita a ciascuna di esse, a turno, di essere “la peggiore dalla Grande Depressione” iniziata negli Stati Uniti nel 1929. Il Grande Blocco [lockdown] in corso, la definizione adottata dal FMI per designare la grande crisi economica determinata dalle conseguenze della pandemia di Covid-19, è già affondato molto più in basso della Grande Recessione, il nome che il FMI ha cominciato a usare nel 2009 per la crisi precedente. Oggi la domanda cruciale è: quando la crisi attuale toccherà il fondo e quanto a lungo ci vorrà perché il mondo si riprenda da essa?
La dimensione del disastro economico in corso è tale che ha resuscitato e rafforzato la speranza che conduca a una grande svolta globale nelle politiche e priorità economiche. In rapporto a ciò Naomi Klein cita da uno dei principali nemici del keynesismo e uno dei principali contributori alla svolta neoliberista: Milton Friedman. All’inizio e alla fine di un video da lei prodotto recentemente sul “Capitalismo del coronavirus e come batterlo” usa la stessa citazione del libro di Friedman del 1962 ‘Capitalismo e libertà’ che aveva già usato due volte nel suo libro The Shock Doctrine (pagg. 6, 140): “Solo una crisi – reale o percepita – produce un cambiamento reale. Quando tale crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee in circolazione”.
Mentre la Klein ha usato quella citazione nel libro come un indizio di quella che ha chiamato la “dottrina degli shock”, la cita con approvazione nel video, commentando che “Friedman, uno degli economisti più estremi della storia circa il libero mercato, è stata in errore in moltissime cose, ma ha avuto ragione riguardo a questo. In tempi di crisi, idee apparentemente impossibili, improvvisamente divengono possibili”. L’idea che visioni progressiste come quelle promosse dalla Klein e da Bernie Sanders siano state confermate dalla crisi è divenuta realmente diffusa, persino sul Financial Times dove il vicedirettore Janan Ganesh ha scritto il 18 marzo un articolo intitolato “La visione del mondo di Sanders vince mentre Bernie perde”. Il giorno prima la rivista filo-conservatrice britannica The Spectator aveva invitato Boris Johnson ad “attingere al copione di Corbyn”.
A chiunque ricordi la crisi economica precedente questo deve suscitare un senso di dèjà vu. Le aspettative allora erano in realtà molto più forti anche se la crisi attuale è molto maggiore, poiché la Grande Recessione era il primo grande shock globale dell’era neoliberista e l’occasione per il primo ricorso da parte del governo a grandi interventi statali per frenare la crisi. Newsweek se n’era uscita nel febbraio del 2009 con una copertina che proclamava “Oggi siamo tutti socialisti”. Rileggerla oggi è molto comico: comincia citando “il senatore dell’Indiana Mike Pence, il deputato Mike Pence, il presidente della Commissione Repubblicana della Camera e infervorato avversario della legge di stimolo da quasi un trilione di dollari del presidente Obama” e il suo intervistatore su Fox News, l’epitome delle notizie veramente false, che descriveva la legge come “socialista”.
L’articolo di Newsweek commentava che tale accusa “pare stranamente non pertinente. Il governo degli Stati Uniti ha giù – sotto un’amministrazione conservatrice Repubblicana – effettivamente nazionalizzato le industrie bancarie e dei mutui”. Proseguiva coltivando il paradosso: “La storia ha il senso dell’umorismo, poiché l’uomo che ha gettato le fondamenta del mondo che Obama oggi governa è George W. Bush, che si è mosso a salvare il settore finanziario lo scorso autunno con 700 miliardi di dollari. Bush ha portato alla chiusura l’era di Reagan; oggi Obama è andato più in là, cancellando la fine del governo interventista da parte di Bill Clinton”.
Tale illusione era basata su una confusione tra un prestito pragmatico e temporaneo dal copione keynesiano, per parafrasare The Spectator, e un radicale cambiamento delle politiche economiche e sociali di lungo termine. All’epoca non è durato a lungo come Ganesh del FT non poteva mancare di notare:
“Siamo nelle fasi iniziali di una delle periodiche discontinuità storiche del pensiero economico. La più acuta, forse, dalla crisi petrolifera dell’OPEC che elevò i promotori del libero mercato negli anni Settanta. I lettori suggeriranno il crollo del 2008, dopo il quale una biografia di John Maynard Keynes annunciò il “ritorno del maestro”. Beh, è stata una cosa passeggera. Dopo non molto ci sono stati trinceramenti fiscali in tutto il mondo occidentale. Negli USA c’è stato il movimento del Tea Party, la sterilizzazione del presidente Barack Obama da parte di un Congresso Repubblicano, e l’attacco del suo successore allo stato amministrativo.”
“Ma questa volta è diverso”, ha aggiunto Ganesh. Ma anche ciò è una sensazione ricorrente. L’esempio più recente si è avuto poco prima della scoppio della pandemia, quando Joseph Stiglitz, il famoso ex capo economista della Banca Mondiale, ha salutato (dopo innumerevoli altri) la “fine del neoliberismo”. Questa volta è diverso, avrebbe potuto scrivere anche Stiglitz nell’affermare che “se la crisi finanziaria del 2008 non ci ha fatto capire che mercati privi di restrizioni non funzionano, la crisi del clima certamente dovrebbe riuscirci: il neoliberismo determinerà letteralmente la fine della nostra civiltà”.
Comprensibilmente, la più elevata gravità della crisi economica in corso del Covid-19, anche se ha un significato storico molto inferiore alla crisi climatica, ha condotto a un maggior numero di nuovi necrologi del neoliberismo, tutti, ahimè, molto prematuri. Un collaboratore neoliberista zelante della rivista finanziaria Forbes ha confuso le due cose con necrologi del capitalismo lamentando che “gli intellettuali di sinistra sono eccitati”, in tal modo biasimandoli per quella che ha ritenuto essere una Schadenfreude. Ha riconosciuto, ciò nonostante, che la critica di sinistra del neoliberismo (capitalismo tout court nella sua interpretazione) ha guadagnato terreno negli anni, chiamando i colleghi neoliberisti a essere “extra vigilanti”:
“Dodici anni fa gli anticapitalisti sono riusciti a ridefinire la crisi finanziaria – erroneamente – come una crisi del capitalismo. La falsa versione che la crisi finanziaria sia una conseguenza del fallimento del mercato e della liberalizzazione è diventata da allora solidamente consolidata nella mente della popolazione in generale. E oggi gli intellettuali di sinistra stanno di nuovo facendo del loro meglio per ridefinire la crisi del coronavirus per giustifica il loro appello a uno stato onnipotente. Purtroppo le probabilità che possano riuscirsi sono davvero molto elevate”.
Questo fervente neoliberista è stato eccessivamente pessimista riguardo all’avvento dello “stato onnipotente”? Non molto, nella visione di David Harvey che ha concluso il suo lungo articolo pubblicato su Jacobin il 20 marzo con una prospettiva parecchio sorprendentemente distopica: non la prospettiva di uno stato sociale socialista, bensì di un Ciclope Trumpiano:
“il fardello dell’uscita dall’attuale crisi economica passa ora agli Stati Uniti e in questo sta l’ironia finale: le sole politiche che funzioneranno, sia economicamente sia politicamente, sono di gran lunga più socialiste di quanto Bernie Sanders abbia potuto proporre e questi programmi di salvataggio dovranno essere avviati sotto l’egida di Donald Trump, presumibilmente sotto la maschera di Rendere Nuovamente Grandi gli Stati Uniti. Tutti quei Repubblicani che si sono così visceralmente opposti al salvataggio del 2008 dovranno cospargersi il capo di cenere o sfidare Donald Trump. Quest’ultimo, se avrà buonsenso, cancellerà le elezioni su base emergenziali e dichiarerà l’origine della sua presidenza imperiale per salvare il capitalismo e il mondo da ‘rivolte e rivoluzioni’” .
Una settimana dopo, Costas Lapavitsas, ha seguito le impronte di Harvey contraddicendo l’ottimismo non autorizzato della sinistra, anche se con uno scenario meno apocalittico e senza illusioni che la fine del neoliberismo sia in vista:
“I dogmi dell’ideologia neoliberista degli ultimi quattro decenni sono stati messi rapidamente da parte e lo stato è emerso come il regolatore dell’economia esercitando un potere enorme. Non è stato difficile per molti a sinistra apprezzare tale intervento statale, pensando che indicasse il “ritorno del keynesismo” e la campana a morto del neoliberismo. Ma sarebbe frettoloso arrivare a tali conclusioni.”
“Tanto per cominciare lo stato-nazione è sempre stato al centro del capitalismo neoliberista, garantendo il dominio di classe del blocco industriale e finanziario prevalente attraverso interventi selettivi in momenti critici. Inoltre questi interventi sono stati accompagnati da misure fortemente autoritarie, chiudendo le persone nelle loro case en masse e isolando enormi metropoli… Il potere colossale dello stato e la sua capacità di intervenire sia nell’economia sia nella società potrebbero scaturire, ad esempio, in una forma più autoritaria di capitalismo controllato in cui gli interessi delle élite industriali e finanziarie sarebbero predominanti”.
Ci troviamo di nuovo di fronte ai due opposti polari dell’ottimismo e del pessimismo, dell’utopia e della distopia, tra i quali la sinistra radicali oscilla tradizionalmente. La verità è che queste sono principalmente proiezioni nel futuro delle disposizioni individuali e/o collettive che oscillano esse stesse secondo le svolte delle esperienze politiche. Così, l’umore tra la sinistra statunitense ha certamente avuto una svolta considerevole dalla vigilia del Super Martedì del 3 marzo e il giorno seguente, dopo la garanzia della vittoria di Biden alle primarie Democratiche, così come l’umore nella sinistra britannica ha oscillato tra la vigilia del 12 dicembre 2019 e il giorno seguente, dopo il trionfo elettorale di Boris Johnson.
Ma utopia e distopia sono componenti utili della visione del mondo della sinistra per il fatto che sostengono i poli magnetici del pessimismo e dell’ottimismo, della prudenza e del volontarismo, dell’ansia di una ripresa del passato fascista e della speranza di un futuro realmente democratico socialista, che motivano quelli che lottano per cambiare il mondo in un luogo migliore e più equo. Il punto in cui alla fine si posiziona il cursore nel mondo reale sulla lunga distanza che separa l’utopia dalla distopia non è tuttavia stabilito da condizioni oggettive. Esse costituiscono soltanto i parametri entro i quali lotte di classe e intersezionali devono procedere. Grandi svolte nel regno della politica governativa sono decise soprattutto da lotte sociali nel contesto delle situazioni esistenti.
E’ qui realmente che Milton Friedman ha sbagliato. Quando si verifica una crisi le azioni che sono intraprese non “dipendono dalle idee in circolazione”. Di certo, la lotta intorno a idee tradotti in proposte politiche concrete è importante. E le misure politico-economiche che finiscono con l’essere attuate sono certamente collegate alle idee che prevalgono, non nella società in generale, tuttavia, bensì nel gruppo sociale che regge il timone del governo.
L’analogia tra la svolta dall’unanimità keynesiana postbellica al neoliberismo e quella che Thomas Kuhn ha chiamato una “svolta di paradigma” termina a questo punto. Poiché, diversamente dalle rivoluzioni scientifiche che sono il risultato di progressi del sapere, le svolte di paradigma nell’economia non sono il prodotto di qualche decisione intellettuale collettiva, teorica o anche semplicemente pragmatica.
Come ha detto nel 1980 Ernest Mandel (prima edizione; pagg. 77-8 della seconda edizione) all’inizio dell’era neoliberista nel suo Long Waves of Capitalist Development:
“La svolta dell’economia accademica in direzione della controrivoluzione anti-keynesiana non è stata tanto un riconoscimento tardivo delle minacce di lungo termine di un’inflazione permanente. Quelle minacce erano ben note prima che il keynesismo perdesse la sua egemonia tra i consiglieri economici di governo borghesi e riformisti. Non è stata nemmeno essenzialmente un prodotto dell’inevitabile accelerazione dell’inflazione… E’ stata essenzialmente un prodotto di una svolta fondamentale della priorità di classe della classe capitalista.
La “controrivoluzione anti-keynesiana” dei monetaristi nel regno dell’economia accademica non è altro che l’espressione ideologica di tale mutata priorità. Senza il ripristino a lungo termine di una disoccupazione strutturale cronica, senza il ripristino del “senso di responsabilità individuale” (cioè senza gravi tagli alla previdenza sociale e ai servizi sociali), senza politiche generalizzate di austerità (cioè stagnazione o declino dei salari reali) non può esserci alcun rapido forte ripristino del tasso del profitto. Questo è il nuovo buonsenso economico. Non c’è nulla di “scientifico” al riguardo, ma c’è molto che corrisponde alle necessità immediate e di lungo termine della classe capitalista, nonostante tutti i riferimenti alla scienza oggettiva.”
La svolta al paradigma neoliberista è stata resa possibile da un costante deterioramento del rapporto di forze di classe nei paesi occidentali nel corso degli anni Settanta, con la disoccupazione in ascesa dalla recessione del 1973-75 e gli attacchi vittoriosi contro il movimento sindacale condotti da Ronald Reagan e Margaret Thatcher nei primi anni Ottanta. Il livello cui la “controrivoluzione anti-keynesiana” è stata attuata da allora in paesi differenti dipende non dalle differenze intellettuali ma dal rapporto tra le forze sociali in ciascun paese. Per un’opportuna illustrazione riguardo alla sanità pubblica è sufficiente confrontare Gran Bretagna e Francia, due paesi con popolazioni e PIL grosso modo uguali.
La portata dei costi sanitari è simile in entrambi i paesi, molto lontana dai costi esagerati che inflazionano la spesa sanitaria statunitense. Se scegliamo come indicatore la remunerazione media annua dei medici è attualmente, in dollari USA, 108.000 in Francia e 138.000 nel Regno Unito (rispetto a 313.000 negli Stati Uniti). Le infermiere diplomate in Francia e nel Regno Unito ricevono all’incirca in media gli stessi salari annui. Successivi governi neoliberisti in Francia sono stati criticati per aver tentato di trasferire parte della spesa sanitaria sui pazienti, e tuttavia la Francia resta in una posizione molto migliore rispetto al Regno Unito per quanto riguarda la sanità pubblica.
Secondo dati dell’OCSE, la spesa sanitaria in piani governativi e obbligatori è fluttuata durante lo scorso decennio, tra l’8,5 e il 9,5 per cento PIL in Francia, rispetto a tra il 6,9 e il 7,8 per cento in Gran Bretagna. Dal 2010 al 2017 la Francia dedicato dallo 0,6 allo 0,7 per cento del PIL a investimenti (creazione di capitale lordo) ogni anno nel suo sistema di assistenza sanitaria rispetto allo 0,3 – 0,4 per cento del Regno Unito. Dunque non è sorprendente che il numero di ospedali nel 2017 sia stato di 3.000 in Francia rispetto a meno di 2.000 nel Regno Unito, con un totale di posti letto ospedalieri prossimo a 400.000 in Francia rispetto a quasi 168.000 nel Regno Unito. Questo numero ha continuato a scendere nel Regno Unito nell’ultimo decennio sotto governi guidati da Conservatori. Quanto al numero di medici, nel 2017 è stato superiore a 211.000 rispetto a 185.700 nel Regno Unito. Ci sono state 10,8 infermiere praticanti per mille abitanti oltre la Manica, rispetto alle 7,8 in Gran Bretagna.
Queste cifre dimostrano quanto sia stato ipocrita e ingannevole da parte della campagna di Boris Johnson per la Brexit usare il Servizio Sanitario Nazionale (NHS) come proprio argomento centrale e in tal modo incolpare la UE del misero stato del sistema sanitario britannico. Tuttavia la differenza nello stato della sanità pubblica tra Francia e Regno Unito non è dovuta a differenze ideologiche tra i governanti nelle due sponde del Canale. E’ la resistenza sociale molto maggiore in Francia, e null’altro, che ha impedito che successivi governi del paese si spingessero oltre sul percorso neoliberista.
Nel Regno Unito dove privatizzazioni a tappeto di servizi pubblici – del genere di quelle che i Conservatori sono riusciti a realizzare nei settori dell’energia e dei trasporti – non sono state possibili per motivi elettorali o economici, sono stati usate tattiche differenti che hanno incontrato sin troppo scarsa resistenza. Nella sanità pubblica si è trattato di una riduzione della spesa pubblica accoppiata all’induzione degli strati più ricchi della popolazione a lasciare il servizio pubblico per passare a piani di sanità privata, al fine di porre progressivamente in atto un sistema a due livelli, come negli USA. Nell’istruzione superiore, ciò è sfociato nella privatizzazione manageriale (industrializzazione) attraverso la sostituzione di finanziamenti pubblici con un grande aumento delle tasse universitarie, in tal modo creando lungo il percorso una generazione che sta entrando nella vita professionale gravati da considerevoli debiti, di nuovo come negli USA.
L’esito dell’attuale crisi economica collegata alla pandemia probabilmente sarà determinato in ogni paese dal rapporto delle forze sociali locali nel contesto dell’equilibrio globale. L’esito probabilmente più immediato non sarà una delle due alternative opposte di uno spontaneo abbandono post-keynesiano del neoliberismo o un Ciclope Trumpiano. Sarà piuttosto il tentativo di governi neoliberisti di scaricare il fardello dell’enorme debito attualmente incorso sui lavoratori, come da loro fatto dopo la Grande Recessione, deprimendo il potere d’acquisto e la propensione a spendere della gente, in tal modo portando il mondo a un grande aggravamento dell’attuale stagnazione secolare, come ha avvertito Adam Tooze.
Lo storico ha giustamente concluso: “Ha invece senso sollecitare un governo più attivo, più visionario che conduca fuori dalla crisi. Ma la domanda è, naturalmente, quale forma assumerà e quali forze politiche lo controlleranno”. Questa è la domanda, davvero. Con le nostre vite fatte a pezzi dalla continua crisi duale e con la crisi economica che probabilmente durerà più a lungo della pandemia, ciò che è più immediatamente in gioco è stabilire che pagherà l’enorme prezzo umano ed economico della crisi: quelli che sono responsabili, tanto per cominciare, della dimensione di tale costo, attraverso decenni di smantellamento neoliberista della sanità pubblica e dello stato sociale e della prioritarizzazione del profitti finanziari, o il resto di noi, cioè la vasta maggioranza della popolazione?
Possiamo predire con sicurezza che i neoliberisti saranno unanimi nell’aumentare la spesa per la sanità, non senza assicurarsi di beneficiare i loro amici produttori di sanità. Lo faranno non a causa di un’improvvisa conversione alle virtù dello stato sociale o perché si curino del pubblico, ma perché temono le conseguenze economiche di una nuova pandemia e di una seconda tornata dell’attuale. Il punto è che saranno naturalmente inclini a farlo a spese di altri aspetti dell’interesse pubblico, quali l’istruzione, le pensioni o le indennità di disoccupazione, facendo pagare ai percettori di salario – con misure quali il congelamento dei salari o persino tagli degli stessi – il costo di riportare le economie alle attività consuete.
La lotta più urgente consiste perciò nell’impedire loro di farlo nel modo in cui i lavoratori francesi si sono schierati contro l’attacco del loro governo neoliberista ai loro redditi e ai loro piani pensionistici nel 1995 e nel 2019, cioè ricorrendo allo sciopero generale o alla minaccia di esso. Questa lotta sarà cruciale nel preparare il terreno per una sconfitta dei neoliberisti per mano di forze sociali e politiche quali quello che sono state dietro il movimento sindacale in Francia, il Partito Laburista nel Regno Unito e la campagna di Sanders negli Stati Uniti. E’ solo allora che si verificherà una fine duratura del neoliberismo.
Gilbert Achcar è un professore al SOAS, Università di Londra. I suoi libri più recenti sono ‘Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism’ (2013), ‘The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013) e ‘Morbid Symptoms: Relapse in the Arab Uprising’ (2016).
da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://www.transcend.org/tms/2020/04/self-extinction-of-neoliberalism-dont-bet-on-it/
Originale: newpol.org
Traduzione di Giuseppe Volpe