Ritornare al lavoro con le scuole chiuse sembra un problema solo delle donne: in questa fase due si riafferma con forza l’idea che la riproduzione e la cura siano responsabilità prevalentemente femminile
Con l’annuncio delle prime riaperture e l’avvicinarsi della fase 2 molte delle riflessioni sulla società, e le città “del dopo” sembrano venire meno. La crisi che tutto il mondo sta affrontando è stata giustamente letta da molti come l’occasione per mettere in discussione l’intero assetto della società. Il momento richiede discorsi e azioni che siano in grado di promuovere trasformazioni reali. Le prime risposte politiche non propongono certo nulla di nuovo, sembrando invece riportare la società italiana indietro di qualche decennio. Ma cosa più inquietante ancora sono i discorsi che accompagnano la presentazione della fase 2, cosi come le critiche che arrivano da più parti. Scopriamo che alcune cose sono immutabili anche di fronte a sconvolgimenti epocali. L’idea che la riproduzione e la cura siano responsabilità prevalentemente, quando non esclusivamente, delle donne è una di queste. Rafforzata dalla retorica che spinge verso un ritorno alla cultura della famiglia tradizionale, con la madre a casa con i figli e gli uomini alla catena di montaggio.
Sul suo blog de “il Sole-24 Ore” (20 aprile) un’imprenditrice pone una questione importante, ma il punto di vista non ha nulla di nuovo. «Lasciare i figli oppure il lavoro? Perché non si può riaprire senza scuole». Racconta come nella sua azienda dove lavorano 34 persone sarà difficile ripartire perché le sue dipendenti che hanno figli minori non sanno a chi affidarli, se le scuole non riaprono. E hanno paura di perdere il lavoro.
I dati Istat 2018 ci forniscono una fotografia precisa della responsabilità del lavoro di cura all’interno della società neoliberista e patriarcale. In Italia quasi 13 milioni di persone hanno responsabilità di cura nei confronti di figli minori di 15 anni, di familiari non autosufficienti e di anziani.
Non viene specificato quante di queste siano donne, ma analizzando le ricadute sul lavoro ci dice che il 24,8% delle donne è costretta a un orario ridotto a fronte del 3,2% di uomini, che sono l’1,2% le donne che usufruiscono del congedo parentale, mentre sono solo lo 0,7% gli uomini, e che l’11,1% di donne con figli non hai mai lavorato per prendersi cura di loro.
Non è solo il giornale della Confindustria. Anche la rivista “Left” collega la chiusura delle scuole al lavoro delle madri. Scrive: «Spariscono i bambini e i ragazzi e spariscono le madri, ancora una volta, inevitabilmente. Essere madre in Italia, oggi, significa essersi sovraccaricata di un costosissimo e faticosissimo hobby sentimentale che non interessa alla politica. In Germania i servizi educativi per i figli dei lavoratori essenziali (quelli che non si sono mai fermati) sono sempre rimasti aperti. In Olanda le scuole primarie riapriranno a fine aprile. In Francia le scuole riapriranno l’11 maggio. In Danimarca le scuole hanno già riaperto e in Svezia e Islanda non hanno mai chiuso».
L’esistenza di un legame tra occupazione professionale e lavoro di cura non è una novità. Governi e imprenditori lo sanno bene, tanto che anche in Francia le scuole sono rimaste sempre aperte per i figli di medici e infermieri e, in un secondo momento, anche per altri lavori considerati essenziali in questa crisi come poliziotti, pompieri, impiegati di pompe funebri, assistenti sociali. Rimangono esclusi cassieri (con alcune eccezioni) e corrieri, che hanno continuato a lavorare lo stesso, lasciando i figli a casa con i fratelli e le sorelle più grandi o appoggiandosi su reti familiari o amicali. Quando Macron ha annunciato la volontà di riaprire progressivamente le scuole in Francia, a partire dall’11 maggio, le reazioni non si sono fatte attendere. Alcuni Sindaci hanno già detto che non sarà possibile, perché mancano le strutture e le figure professionali (insegnanti e personale parascolastico) per poter garantire la sicurezza sanitaria. Comuni con classi già affollate e mancanza di insegnanti difficilmente potranno seguire le indicazioni dell’Ordine dei medici francesi, tra l’altro esplicitamente contrario a un’apertura delle scuole prima di settembre.
Anche gli insegnanti, già mobilitati contro il Governo prima della crisi sanitaria, hanno preso rapidamente la parola. Denunciano quella che secondo loro è la vera motivazione che si nasconde dietro a questa decisione: cedere alla pressione del MEDEF (equivalente francese di Confindustria) che vuole che i lavoratori e le lavoratrici che stanno a casa con i propri figli tornino al lavoro. E ci ricordano che no, la scuola non è la ludoteca del MEDEF!
Con l’arrivo del Covid-19 le strutture del welfare hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza e fatto emergere come la scuola, ma anche le tantissime reti solidali che sono nate, siano di fatto necessarie per rispondere a bisogni economici e sociali più ampi.
Un’occasione questa per rivendicare l’importanza del welfare, ma anche per ripensare la scuola come un luogo dove costruire relazioni autonome dalla famiglia e avere occasioni di crescita attraverso una didattica che metta al centro la pratica della relazione. Naturalmente per fare questo occorrono luoghi e mezzi tutti da reinventare e da rivendicare.
Una cosa è riconoscere i diritti delle bambine e dei bambini all’istruzione, all’autonomia e alla socialità. Altra cosa è riconoscere i diritti delle lavoratrici. Confondere una cosa con l’altra, e riaffermare un legame fra l’apertura delle scuole e la possibilità di tornare al lavoro da parte delle madri, significa accettare ancora un presunto “destino biologico” fatto di fragilità, istinto materno, inferiorità, dovere di cura. Di fatto rende ancora più visibile la dimensione politica della violenza patriarcale che assegna “naturalmente” alle donne le attività riproduttive e di cura, costringendole nuovamente tra le mura domestiche o addossando sulle loro spalle il doppio carico di lavoro, dentro e fuori casa, o segregandole esclusivamente in alcuni settori lavorativi. È davvero questo quello che vogliamo rivendicare? Un bello slogan apparso in queste settimane dice «Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema». È ancora il problema.
Mettere in discussione questa normalità vuol mettere in discussione l’idea che il lavoro di cura sia un lavoro femminile, all’interno degli spazi tanto familiari che sociali, e chiedere politiche a sostegno della genitorialità condivisa con l’estensione incondizionata delle indennità di maternità, di paternità e parentale per tutti i contratti. Le istituzioni del welfare devono assumere il carattere universale e gratuito, con adeguati finanziamenti.
Ma mettere in discussione questa normalità vuol dire anche rivendicare i diritti per bambine e bambini ad avere accesso all’istruzione anche in una situazione di crisi sanitaria. Poter avere una socialità non esclusivamente familiare e poter sperimentare la loro autonomia, indispensabile a un processo di crescita. Rivendicazioni però che devono restare distinte, se non vogliamo cadere nell’ennesima trappola del capitale. Dopo la falsa scelta tra salute e lavoro, ora ci chiedono di scegliere tra figli e lavoro. Rimettiamo in discussione i termini della questione se non vogliamo che il mondo che stiamo costruendo sia come quello che abbiamo lasciato, o anche peggio.